Ci sono due tendenze che hanno prevalso negli ultimi anni in
quella che, un tempo, era la sinistra in Italia, da un lato, ci sono i disillusi,
coloro che hanno cioè rinunciato alle loro conoscenze, aspettative, valori,
analisi, ecc., appiattendosi sull’evoluzione in corso, concependola come una
dinamica immanente. Dall’altro lato ci sono gli irriducibili,
coloro che non sanno in alcun modo modificare le loro conoscenze, aspettative,
valori, analisi, ecc., e si oppongono all’evoluzione in corso, considerandola
come arbitraria. Personalmente non mi ritrovo in nessuna delle
due.
Mi sembra che, da alcuni punti di vista, il testo collettaneo
No/Made Italy, pur con i suoi pregevoli contributi conoscitivi,
corra il rischio di scivolare nell’ambito del secondo approccio.
Per non essere frainteso, dico subito che trovo estremamente
interessanti i primi due saggi, di Vasapollo e Martufi, sia per la ricca messe
di dati sui cambiamenti intervenuti nella struttura produttiva italiana nell’arco
degli ultimi quarant’anni, sia per l’organicità teorica con la quale
vengono esposti. La loro indagine conferma in termini analitici il processo di
crescente integrazione dell’economia italiana nel sistema degli scambi
internazionali e le sue implicazioni. Un’evoluzione che, di per sé, non
dovrebbe essere necessariamente considerata come negativa, appunto perché buona
parte dello sviluppo continua ad essere mediato dai rapporti di scambio tra
paesi. Gli autori sono molto attenti nel riferirsi a teorie generali della
dinamica economica e sociale. Vale a dire che lo fanno con un approccio che non
è mai unilaterale o aprioristico, e questo è per me un aspetto di grande
pregio delle loro riflessioni.
Proprio perché condivido la maggior parte delle loro
argomentazioni non mi soffermerò criticamente su quanto hanno scritto.
Mi sembra invece che le letture della dinamica sociale
avanzate nelle successive parti del volume non siano altrettanto pienamente
condivisibili, nonostante - sia ben chiaro - contengano numerosi passaggi sui
quali concordo. Una disamina approfondita dei punti di convergenza richiederebbe
un’analisi approfondita, che in questa sede non mi sembra opportuna, e che non
mi è stata richiesta. Cercherò quindi di formulare brevemente le mie riserve,
anticipando che esse si addensano attorno al quesito: “può lo Stato avere una
sua ‘natura’? O la ‘natura’ dello Stato rinvia di volta in
volta a quella delle soggettività che in esso si esprimono? A mio avviso non c’è
differenza tra il sostenere che lo Stato è null’altro che uno strumento del
capitale, ed il sostenere che sarebbe un’entità super partes. In
entrambi i casi si incorre cioè nell’errore di non riconoscere che lo Stato
raccoglie sempre, seppure in forme trasmutate, i caratteri della soggettività
sociale egemonica nella fase sociale che è al centro dell’attenzione. Un
approccio che non rinvia affatto ad un uso strumentale dello Stato, ma, al
contrario, ipotizza che il prevalere di questa o di quella soggettività esprima
la positiva capacità di questa o quella classe di dar corpo all’universalità
prevalente.
Nel riflettere sull’interrogativo che ho sopra sollevato,
prendo le mosse da un passaggio del contributo di Sergio Cararo che a me sembra
centrale. Sostiene Cararo: “il New Deal americano, il fascismo europeo ed
infine lo Stato sociale o Welfare State, sono state anche armi da combattimento
con cui il capitalismo ha giocato a tutto campo contro la minaccia di un
rovesciamento dei rapporti di forza con il movimento operaio” (pag. 131)
Specificando, poco più avanti, che “il ruolo regolatore e di controllo dello
Stato nel mercato è servito [1]
soprattutto a depotenziare la spinta alla trasformazione radicale della società
che veniva dal movimento operaio”. (pag. 132). In tal modo, lo Stato sociale e
le sue conquiste vengono presentate come un qualcosa che promana solo dalla
borghesia, in opposizione ad una capacità e ad un insieme di bisogni che
avrebbero cercato di spingersi molto al di là dei rapporti che sono stati
realizzati con lo Stato sociale; capacità e bisogni dei quali la classe operaia
viene immaginata come - già all’epoca - portatrice. La situazione che si è
venuta ad instaurare con la globalizzazione, consentirebbe però di “demistificare
la concezione dello Stato come entità super partes”, perché
rivelerebbe la “vera natura” del capitale. Il trucco sarebbe così
stato svelato.
Sostengo, in radicale opposizione a questa tesi, che lo Stato
sociale ha raccolto alcune delle istanze della classe operaia, dando ad esse una
formulazione che nelle epoche precedenti quella classe non era stata in grado di
conquistare. Vale a dire che lo Stato sociale - che a mio avviso si presenta
dunque come una forma dello Stato [2] -
ha espresso il massimo della potenzialità operaia, non una inibizione di questa
potenzialità. Non c’è dubbio che, allo stesso tempo, esso ha raccolto anche
alcune delle istanze della borghesia, come ad esempio, quella di un nuovo
ampliamento dei mercati, con un recupero della possibilità di accumulare. Ma
questo è uno dei paradossi di tutti i periodi di transizione, quando l’elaborazione
di forze produttive nuove poggia su un’evoluzione che non può fare a meno
della vecchia base. (Ciò che, a mio avviso, dimostra l’immaturità della
classe operaia, e non un rapporto strumentale da parte della borghesia; con il
corollario che “le capacità e i bisogni” dei lavoratori non trascendessero
affatto la dinamica evolutiva in atto). La stessa tendenza a rappresentare lo
Stato come super partes, ed in quanto tale come intrinsecamente depositario
dell’universalità, rinvia infatti ai limiti propri dello sviluppo della
classe operaia - che altrimenti avrebbe tranquillamente potuto accettare di
definire la situazione come una (relativa e contraddittoria) “dittatura del
proletariato” [3] - e non convalida uno dei luoghi comuni diffusi nella sinistra
radicale, secondo il quale lo Stato è sempre uno strumento della borghesia.
[4] Vale
a dire che, nello sviluppo degli ultimi cinquant’anni, non è ancora stata
acquisita la chiara distinzione che Marx ha posto in essere tra un potere che,
è “ancora costretto a conquistare la forma politica per rappresentare
il suo interesse come l’universale”, cercando di esprimersi in una
qualche forma di Stato, ed un potere che può cominciare a poggiare su una nuova
base, conquistando la capacità di esprimersi al di là della forma Stato. (L’ideologia
tedesca, pag. 32)
Intendiamoci, molte delle argomentazioni che Cararo svolge
nelle pagine in questione, ciascuna presa in sé, sono senz’altro
condivisibili. (Sono ad esempio molto calzanti gli argomenti svolti ai punti 4 e
5). Ma non ritengo accettabile il quadro teorico generale nell’ambito del
quale vengono svolte.
Una conferma del sussistere di una possibile distanza tra il
senso che si vuole dare alle ricerche incluse nel testo e la mia personale
posizione la trovo nel commento conclusivo di Casadio.
Ritengo infatti che, nei paesi economicamente sviluppati,
come il nostro, non ci sia spazio “per ridare peso e ruolo al lavoro e ai
lavoratori [5]”.
Il mio schema interpretativo è decisamente diverso. La crisi non sopravviene,
negli anni ’70, perché il capitale reagisce (ad
una momentanea egemonia dei lavoratori). Che questa reazione abbia luogo è del
tutto ovvio e ragionevole, ma essa non è la causa del cambiamento, quanto
piuttosto l’effetto. Vale a dire che essa sopraggiunge perché la strategia
keynesiana del pieno impiego ha dato tutto quello che poteva dare, e cioè ha
prodotto i suoi frutti [6]. Proletariato e capitale si trovano
entrambi nei guai di fronte all’emergere di un problema ampiamente anticipato
da Marx: la difficoltà, al sopravvenire di un sensibile aumento della capacità
produttiva, di riprodurre su scala allargata il lavoro salariato. Se si
ignora questa dinamica, i cui presupposti non posso ovviamente spiegare
in queste brevi note, è del tutto ovvio che si finisca col credere che
tutti i guai scaturiscano da una rinnovata soggettività positiva del capitale.
[7] Ma la mia convinzione è che in questi anni il capitale si sia
comportato nel modo in cui si è sempre comportato, innovando, tagliando i costi
e portando avanti - sulla sua stessa base - una battaglia ideologica tesa ad
affermare la propria egemonia. Il guaio per noi è scaturito dal fatto che la
maggior parte dei suoi antagonisti era rimasta ferma a quella “forma politica”,
attraverso la quale era riuscita a conquistare un potere in grado di far uscire
la società dal ristagno nel quale l’impotenza del capitale aveva finito col
farla precipitare, nella fase tra le due guerre mondiali. Cioè nonostante
volesse un superamento della crisi, non sapeva come realizzarlo, appunto perché
rimuoveva i problemi relativi alla base economica sulla quale poggiava il potere
acquisito.
Questo sapere non è tuttavia acquisibile ora, come sembra
suggerire Casadio, mediante un opera di autonomizzazione. Al contrario, secondo
me si deve partire dall’assunto di un’assenza di autonomia - riconoscendo
che in fondo siamo tutti borghesi e cittadini - per elaborare le soluzioni a
quei problemi che la forma data della vita ci ha trasmesso.
Qualche breve parola per sottolineare che le mie critiche non
debbono essere fraintese. Stiamo discutendo tra persone che spingono per un
cambiamento. Un bisogno che non può non essere confermato. Cosicché mi sento
di dire che gli elementi che ci accomunano sono più di quelli che ci dividono.
Ma, com’è noto, in “famiglia”, anche perché ci si parla di più, ci si
critica di più che tra estranei. Forse se lì si sviluppasse la capacità di
confrontarsi pienamente i cambiamenti sarebbero più facili. Da questo punto di
vista mi sembra essenziale aggiungere una breve considerazione sul perché la
crisi ha a che fare con la difficoltà di riprodurre il rapporto di lavoro
salariato e di come questa difficoltà si intreccia con l’innegabile aumento
della produttività intervenuto nel corso degli ultimi decenni.
Taluni svolgono teorie integralmente politicistiche della
crisi in atto. Che ai loro occhi appare come una pseudo-crisi, cioè come una
difficoltà generata ad arte, dal capitale, per rovesciarla sulle
spalle altrui, in particolare sulla classe operaia. E dunque negano quello che,
a mio avviso, costituisce il fondamento economico della fase che stiamo
attraversando. Lo snodo attorno al quale ragionare è, secondo me, quello
indicato da Marx nel secondo volume dei Grundrisse. Qui egli scrive “...il
capitale riduce, senza alcuna intenzione, il lavoro umano (il dispendio di
forza) ad un minimo. Ciò tornerà utile al lavoro emancipato ed è la
condizione della sua emancipazione”. (Vol. II, pag. 396) Il lavoro
salariato, ed alcuni suoi teorici, intrappolati nella dimensione della
necessità della riproduzione di quel rapporto - in contrapposizione alla
emancipazione da quello stato - si ribellano a questa prospettiva e pretendono
di riuscire ad incarnare indefinitamente le condizioni dello sviluppo come crescita
del lavoro salariato. Sperano di riuscire ad acquisire un “comando”
sul procedere sociale, dalla propria condizione subordinata - un comportamento
del quale la psicologia ci offre numerosi esempi - senza dover rovesciare lo
stesso rapporto di dipendenza che lo contraddistingue.
Questa strada è però ovviamente preclusa, se, come sostiene
Marx, sotto il dominio del capitale la produttività del lavoro aumenta in
misura significativa. Infatti, ogni aumento della forza produttiva del lavoro
comporta una svalorizzazione della forza-lavoro, e dunque si risolve in una
perdita di potere contrattuale della classe operaia. Se la forza-lavoro pretende
di riprodurre il lavoro, nonostante lo sviluppo renda via via superflua quella
forza, è ovvio che tutte le lotte sono destinate a naufragare infelicemente.
Per questo la questione del sussistere o meno di un aumento della produttività,
nella fase attuale, è così importante.
Non potendo svolgere tutti i passaggi nella loro
concatenazione, mi limito ad evidenziare l’errore che, a mio avviso, i miei
avversari commettono. Il loro argomento appare relativamente semplice. Non c’è
alcun aumento significativo della produttività, semmai è vero il contrario, e
cioè che gli incrementi sono andati via via riducendosi, fino quasi a
scomparire. Ma come misurano tale aumento? La produttività sarebbe a loro
avviso coerentemente espressa da un rapporto tra il valore del prodotto venduto
(PIL) e la forza-lavoro che lo ha prodotto. Ma questa misura risulterebbe valida
solo se il valore del prodotto fosse immutabile. In questo caso la crescita del
valore, misurerebbe direttamente la crescita del prodotto. Nei fatti le cose non
stanno però in questi termini. L’aumento della produttività, dice Marx sin
dalle primissime pagine del Capitale, abbatte il valore delle merci.
Dunque un prodotto crescente può tranquillamente esprimersi, e normalmente si
esprime, in un valore del prodotto decrescente. Dunque il rapporto PIL /
forza-lavoro non misura affatto la produttività e le sue variazioni. Per
quantificare le variazioni di produttività occorre entrare nei mutamenti del
prodotto materiale. Da questo punto di vista se oggi un quarto dei lavoratori
del settore delle telecomunicazioni, rispetto a quelli impiegati ancora negli
anni ’70, ha prodotto in quindici anni connessioni mobili per un numero di
utenti, pari ad una volta e mezza rispetto alle connessioni fisse create nei
settant’anni precedenti, vuol dire che la produttività di quel lavoro è
aumentata esponenzialmente, anche se magari essendosi abbattuto in termini reali
il prezzo del servizio telefonico, ciò non si riflette nella misura che i miei
colleghi propongono di adottare.
[1] È proprio in questo concetto che intravedo una
teoria strumentale dello stato, che non sento di poter condividere.
[2] Che in altri scritti ho
contrapposto, ad una forma “asociale”, ad una forma “borghese”, ecc.
[3] Chi ricorda oggi gli appelli di Guido Carli del 1975, in
qualità di Presidente della Confindustria, che invitava gli imprenditori a
riassumere il loro ruolo sociale e a smetterla di vergognarsi e di
nascondersi.
[4] Alla quale talvolta si contrappone la tesi che lo Stato sarebbe uno strumento,
punto e basta, utilizzabile, da questi o da quelli a piacimento - con un atto
potestativo, che può andare anche al di là delle sue stesse capacità.
[5] Il concetto di “lavoratori” è ovviamente problematico. Si
tratta di individui la cui determinazione sociale prevalente è quella di “lavorare”.
[6] Sia ben chiaro che in tal modo do una valutazione
estremamente positiva dello Stato sociale.
[7] In questo dissento radicalmente dalle tesi proposte per il prossimo Congresso
di Rifondazione Comunista, che parlano di una rivoluzione positiva del
capitale.