Il libro No/Made Italy costituisce la prosecuzione di
una vasta e approfondita ricerca sulla sfida europea nella competizione
internazionale (R. Martufi e L. Vasapollo, Eurobang, Media Print, Roma
2000) e la seconda parte di un trilogia che si concluderà con una ricerca sul
campo intorno alla condizione del lavoro nella fase della globalizzazione. La
prima parte, di Luciano Vasapollo, affronta la dinamica e le direttrici degli
investimenti diretti all’estero. La seconda, di R. Martufi, inquadra il
problema nei processi di delocalizzazione industriale. La terza è opera di
Sergio Cararo e approfondisce il ruolo dello “stato competitivo” come
strumento di coercizione orientato alla difesa dei profitti e al sostegno all’accumulazione.
La quarta parte ha per oggetto i mutamenti delle forme di lavoro ed è opera di
Mauro Casadio. La quinta e sesta parte infine, dovute a Filippo Vilola e Mauro
Casadio rispettivamente, entrano nella sfera della produzione ideologica e della
costruzione della soggettività.
L’opera nel suo complesso presenta un’analisi vasta e
approfondita dei cambiamenti strutturali subiti dall’economia italiana nell’era
della competizione globale, sfatando i miti dell’italietta provinciale, anello
debole del sistema capitalistico internazionale. Documenta inoltre il
protagonismo dell’Italia in termini di sviluppo del commercio internazionale,
investimenti diretti all’estero, internazionalizzazione dello sviluppo
capitalistico e cambiamento delle tecniche produttive e organizzative.
Sulla spinta dei processi di delocalizzazione internazionale,
gli investimenti diretti italiani all’estero si stanno orientando
massicciamente verso i paesi dell’Europa Orientale, nei quali, insieme agli
investimenti degli altri paesi europei, favoriscono i processi di
re-industrializzazione. Si creano così delle grandi reti internazionali di
esternalizzazione. I vantaggi offerti dai paesi Est-europei sono connessi
sostanzialmente alla loro offerta di mano d’opera specializzata a basso costo.
Così le nazioni più avanzate possono dislocare lì le attività industriali di
tipo più standardizzato, con la conseguenza che si instaura una nuova forma di
divisione internazionale del lavoro. Nell’Est europeo tendono a prevalere i
metodi organizzativi di tipo fordista, mentre quelli di tipo post-fordista
restano riservati ai paesi “core” del sistema capitalistico mondiale, USA,
Germania, Francia, Inghilterra, ma anche Italia. Tuttavia poi si scopre che
questa cosiddetta rivoluzione tecnologica post-fordista, almeno per quello che
riguarda l’Italia, ma non solo, alla fine si riduce alla conservazione nella
metropoli delle attività di design, assemblaggio, creazione del logo,
commercializzazione, che sono le fasi produttive con maggior valore aggiunto.
Ciò spiega la lievitazione dei profitti, i quali però,
soprattutto per merito dell’azione del “profit state”, non vengono
socializzati (come avveniva almeno in parte negli anni 50-70 attraverso l’espansione
dello Stato sociale, la crescita salariale, la riduzione dell’orario
lavorativo). Inoltre, a causa dello stato di stagnazione in cui versa oggi l’economia
mondiale, i sovrapprofitti vengono solo in parte reinvestiti in attività
industriali, orientandosi abbondantemente anche verso i mercati del capitale
fittizio, dove alimentano destabilizzanti bolle speculative e un’incalzante
depredazione finanziaria.
Il capitolo scritto da Mauro Casadio affronta l’analisi
della composizione di classe generata da quei cambiamenti strutturali. Vengono
individuati i trend di alcune categorie di lavoro che compongono la classe
lavoratrice contemporanea. Il lavoro dipendente risulta essere in crescita, sia
pur leggera, ma quanto basta per smentire i teorici della “fine del lavoro”.
All’interno del lavoro dipendente si verifica una riduzione del lavoro “standard”,
cioè quello a tempo pieno e con contratto a tempo indeterminato. Aumenta invece
il lavoro “atipico”, ovvero quello a part-time, a tempo determinato,
interinale, etc. Questo terzo processo comporta anche una certa “femminilizzazione”
della forza lavoro, le donne essendo impiegate prevalentemente in lavori atipici
e precari. Ma aumenta anche l’occupazione dei gruppi professionali con
qualifiche medio-alte, nelle quali operano i lavoratori della conoscenza. Infine
cresce il lavoro autonomo di ultima generazione, un tipo di lavoro solo
formalmente autonomo ma sostanzialmente eterodiretto.
Sarebbe facile spiegare questi cambiamenti ricorrendo alla
vulgata post-fordista, cioè interpretandoli come fenomeni sociali legati da una
rivoluzione organizzativa determinata da fattori puramente tecnologici. Ma
Casadio evita questa semplificazione. Anzi sottopone a una critica serrata l’ideologia,
oggi di moda anche in gran parte della sinistra, secondo cui il superamento del
fordismo implicherebbe un cambiamento qualitativo epocale delle dinamiche
produttive e sociali del capitalismo, un cambiamento che porterebbe niente meno
che a “fenomeni rivoluzionari” come la “fine del lavoro”, la fine della
gerarchia di potere della fabbrica capitalistica, l’avvento della produzione
orizzontale in “rete”, la diffusione dello spirito imprenditoriale fra tutti
gli strati degli “operatori economici”, etc. etc.
Viene invece osservato che: 1) il postfordismo non è in
antitesi al fordismo, ma realizza una possibilità di sviluppo in esso
implicita; 2) il passaggio di fase verificatosi nell’ultimo quarto di secolo
non è un evento nuovo, ma si è già verificato altre volte negli ultimi
duecento anni, 3) questo passaggio non è stato causato puramente e
semplicemente da una rivoluzione di natura tecnologica, ma è soprattutto il
risultato dell’evoluzione del conflitto di classe.
Il capitale ha reagito all’ondata di conflittualità degli
anni 70 innescando tre processi. Il primo investe il livello microeconomico
della produzione, e consiste nello smembramento della fabbrica taylorista e nel
decentramento delle mansioni produttive a più basso contenuto di software e a
più alto contenuto di lavoro non qualificato. Sono questi cambiamenti che
spiegano la tendenza alla precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, oltre
che l’indebolimento del movimento operaio. Il secondo processo, di tipo
macroeconomico, riguarda il ritmo dell’accumulazione, che, per merito delle
politiche restrittive avviate negli anni 80 nei principali paesi capitalistici,
è diminuito nettamente rispetto a quello degli anni 50 e 60, portando l’economia
mondiale dentro una depressione lunga che continua tuttora. Una conseguenza di
questo rallentamento dello sviluppo è stata la flessione della domanda
aggregata, soprattutto di quella di beni di consumo di massa, e quindi l’esasperazione
della competizione di mercato. Il terzo processo riguarda il cambiamento
tecnologico, che è stato orientato, da una parte, alla crescente
informatizzazione, robotizzazione e intellettualizzazione dei processi
produttivi, dall’altra, alla flessibilizzazione e destandardizzazione della
produzione.
Lo smembramento della fabbrica tradizionale, con le sue
implicazioni in termini di delocalizzazione, esternalizzazione e parziale
appiattimento delle gerarchie produttive interne, è una risultante di questi
tre processi. Ma, a dispetto di quanto sostengono gli ideologi del toyotismo,
della flessibilità, del just-in-time e della fine di tutto (del lavoro,
della storia, del capitalismo, etc) ha comportato un aumento e non una
diminuzione dello sfruttamento del lavoro.
Tutto ciò dice o lascia intendere Casadio, con un’analisi
serrata e documentata che non lascia adito a dubbi. E non si può che
rendergliene merito. Un’osservazione critica però deve essere fatta. Uno dei
miti della vulgata postfordista è che la rivoluzione tecnologico-organizzativa
dell’ultimo quarto di secolo avrebbe portato ad un aumento strepitoso della
produttività del lavoro e che questa sarebbe la causa fondamentale dell’aumento
dello sfruttamento e dei profitti. I dati empirici però mostrano il contrario.
Se confrontiamo l’era fordista (1950-74) con quella postfordista (1974-2000)
ci accorgiamo che i tassi di crescita della produttività del lavoro in tutti i
paesi capitalistici sono stati molto più alti nella prima che nella seconda
(vedi R. Martufi e L. Vasapollo, Eurobang, cit., p. 191). Ciò vuol dire
che l’aumento dello sfruttamento è stato causato più dalla flessione dei
salari reali che dagli aumenti della produttività. Questo fenomeno non è in
contrasto con l’analisi complessiva di Casadio e di tutto il libro, ma pone un
problema teorico aggiuntivo: come spiegare il “paradosso della produttività”,
il fatto cioè che si sarebbe verificata una rivoluzione tecnologica che ha
ridotto il tasso di crescita della produttività invece di aumentarlo?