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Ernesto Screpanti
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Professore, Università di Siena

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NO/MADE: fine dell’”italietta” provinciale

Ernesto Screpanti

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Il libro No/Made Italy costituisce la prosecuzione di una vasta e approfondita ricerca sulla sfida europea nella competizione internazionale (R. Martufi e L. Vasapollo, Eurobang, Media Print, Roma 2000) e la seconda parte di un trilogia che si concluderà con una ricerca sul campo intorno alla condizione del lavoro nella fase della globalizzazione. La prima parte, di Luciano Vasapollo, affronta la dinamica e le direttrici degli investimenti diretti all’estero. La seconda, di R. Martufi, inquadra il problema nei processi di delocalizzazione industriale. La terza è opera di Sergio Cararo e approfondisce il ruolo dello “stato competitivo” come strumento di coercizione orientato alla difesa dei profitti e al sostegno all’accumulazione. La quarta parte ha per oggetto i mutamenti delle forme di lavoro ed è opera di Mauro Casadio. La quinta e sesta parte infine, dovute a Filippo Vilola e Mauro Casadio rispettivamente, entrano nella sfera della produzione ideologica e della costruzione della soggettività.

L’opera nel suo complesso presenta un’analisi vasta e approfondita dei cambiamenti strutturali subiti dall’economia italiana nell’era della competizione globale, sfatando i miti dell’italietta provinciale, anello debole del sistema capitalistico internazionale. Documenta inoltre il protagonismo dell’Italia in termini di sviluppo del commercio internazionale, investimenti diretti all’estero, internazionalizzazione dello sviluppo capitalistico e cambiamento delle tecniche produttive e organizzative.

Sulla spinta dei processi di delocalizzazione internazionale, gli investimenti diretti italiani all’estero si stanno orientando massicciamente verso i paesi dell’Europa Orientale, nei quali, insieme agli investimenti degli altri paesi europei, favoriscono i processi di re-industrializzazione. Si creano così delle grandi reti internazionali di esternalizzazione. I vantaggi offerti dai paesi Est-europei sono connessi sostanzialmente alla loro offerta di mano d’opera specializzata a basso costo. Così le nazioni più avanzate possono dislocare lì le attività industriali di tipo più standardizzato, con la conseguenza che si instaura una nuova forma di divisione internazionale del lavoro. Nell’Est europeo tendono a prevalere i metodi organizzativi di tipo fordista, mentre quelli di tipo post-fordista restano riservati ai paesi “core” del sistema capitalistico mondiale, USA, Germania, Francia, Inghilterra, ma anche Italia. Tuttavia poi si scopre che questa cosiddetta rivoluzione tecnologica post-fordista, almeno per quello che riguarda l’Italia, ma non solo, alla fine si riduce alla conservazione nella metropoli delle attività di design, assemblaggio, creazione del logo, commercializzazione, che sono le fasi produttive con maggior valore aggiunto.

Ciò spiega la lievitazione dei profitti, i quali però, soprattutto per merito dell’azione del “profit state”, non vengono socializzati (come avveniva almeno in parte negli anni 50-70 attraverso l’espansione dello Stato sociale, la crescita salariale, la riduzione dell’orario lavorativo). Inoltre, a causa dello stato di stagnazione in cui versa oggi l’economia mondiale, i sovrapprofitti vengono solo in parte reinvestiti in attività industriali, orientandosi abbondantemente anche verso i mercati del capitale fittizio, dove alimentano destabilizzanti bolle speculative e un’incalzante depredazione finanziaria.

Il capitolo scritto da Mauro Casadio affronta l’analisi della composizione di classe generata da quei cambiamenti strutturali. Vengono individuati i trend di alcune categorie di lavoro che compongono la classe lavoratrice contemporanea. Il lavoro dipendente risulta essere in crescita, sia pur leggera, ma quanto basta per smentire i teorici della “fine del lavoro”. All’interno del lavoro dipendente si verifica una riduzione del lavoro “standard”, cioè quello a tempo pieno e con contratto a tempo indeterminato. Aumenta invece il lavoro “atipico”, ovvero quello a part-time, a tempo determinato, interinale, etc. Questo terzo processo comporta anche una certa “femminilizzazione” della forza lavoro, le donne essendo impiegate prevalentemente in lavori atipici e precari. Ma aumenta anche l’occupazione dei gruppi professionali con qualifiche medio-alte, nelle quali operano i lavoratori della conoscenza. Infine cresce il lavoro autonomo di ultima generazione, un tipo di lavoro solo formalmente autonomo ma sostanzialmente eterodiretto.

Sarebbe facile spiegare questi cambiamenti ricorrendo alla vulgata post-fordista, cioè interpretandoli come fenomeni sociali legati da una rivoluzione organizzativa determinata da fattori puramente tecnologici. Ma Casadio evita questa semplificazione. Anzi sottopone a una critica serrata l’ideologia, oggi di moda anche in gran parte della sinistra, secondo cui il superamento del fordismo implicherebbe un cambiamento qualitativo epocale delle dinamiche produttive e sociali del capitalismo, un cambiamento che porterebbe niente meno che a “fenomeni rivoluzionari” come la “fine del lavoro”, la fine della gerarchia di potere della fabbrica capitalistica, l’avvento della produzione orizzontale in “rete”, la diffusione dello spirito imprenditoriale fra tutti gli strati degli “operatori economici”, etc. etc.

Viene invece osservato che: 1) il postfordismo non è in antitesi al fordismo, ma realizza una possibilità di sviluppo in esso implicita; 2) il passaggio di fase verificatosi nell’ultimo quarto di secolo non è un evento nuovo, ma si è già verificato altre volte negli ultimi duecento anni, 3) questo passaggio non è stato causato puramente e semplicemente da una rivoluzione di natura tecnologica, ma è soprattutto il risultato dell’evoluzione del conflitto di classe.

Il capitale ha reagito all’ondata di conflittualità degli anni 70 innescando tre processi. Il primo investe il livello microeconomico della produzione, e consiste nello smembramento della fabbrica taylorista e nel decentramento delle mansioni produttive a più basso contenuto di software e a più alto contenuto di lavoro non qualificato. Sono questi cambiamenti che spiegano la tendenza alla precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, oltre che l’indebolimento del movimento operaio. Il secondo processo, di tipo macroeconomico, riguarda il ritmo dell’accumulazione, che, per merito delle politiche restrittive avviate negli anni 80 nei principali paesi capitalistici, è diminuito nettamente rispetto a quello degli anni 50 e 60, portando l’economia mondiale dentro una depressione lunga che continua tuttora. Una conseguenza di questo rallentamento dello sviluppo è stata la flessione della domanda aggregata, soprattutto di quella di beni di consumo di massa, e quindi l’esasperazione della competizione di mercato. Il terzo processo riguarda il cambiamento tecnologico, che è stato orientato, da una parte, alla crescente informatizzazione, robotizzazione e intellettualizzazione dei processi produttivi, dall’altra, alla flessibilizzazione e destandardizzazione della produzione.

Lo smembramento della fabbrica tradizionale, con le sue implicazioni in termini di delocalizzazione, esternalizzazione e parziale appiattimento delle gerarchie produttive interne, è una risultante di questi tre processi. Ma, a dispetto di quanto sostengono gli ideologi del toyotismo, della flessibilità, del just-in-time e della fine di tutto (del lavoro, della storia, del capitalismo, etc) ha comportato un aumento e non una diminuzione dello sfruttamento del lavoro.

Tutto ciò dice o lascia intendere Casadio, con un’analisi serrata e documentata che non lascia adito a dubbi. E non si può che rendergliene merito. Un’osservazione critica però deve essere fatta. Uno dei miti della vulgata postfordista è che la rivoluzione tecnologico-organizzativa dell’ultimo quarto di secolo avrebbe portato ad un aumento strepitoso della produttività del lavoro e che questa sarebbe la causa fondamentale dell’aumento dello sfruttamento e dei profitti. I dati empirici però mostrano il contrario. Se confrontiamo l’era fordista (1950-74) con quella postfordista (1974-2000) ci accorgiamo che i tassi di crescita della produttività del lavoro in tutti i paesi capitalistici sono stati molto più alti nella prima che nella seconda (vedi R. Martufi e L. Vasapollo, Eurobang, cit., p. 191). Ciò vuol dire che l’aumento dello sfruttamento è stato causato più dalla flessione dei salari reali che dagli aumenti della produttività. Questo fenomeno non è in contrasto con l’analisi complessiva di Casadio e di tutto il libro, ma pone un problema teorico aggiuntivo: come spiegare il “paradosso della produttività”, il fatto cioè che si sarebbe verificata una rivoluzione tecnologica che ha ridotto il tasso di crescita della produttività invece di aumentarlo?