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Alessandro Mazzone
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per Proteo (8)

Professore di Filosofia della Storia, Università di Siena

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Un passo avanti

Alessandro Mazzone

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1. Il libro No/Made Italy, insieme con Eurobang 1 e, prima ancora, la ricerca sul Profit State, è - a mio modo di vedere - un passo avanti. E lo è doppiamente. Per la premessa implicita, che sostiene la ricerca e l’attività dei suoi Autori, e del CESTES; e per il carattere analitico dell’indagine che offre. Infatti non si tratta di "cercare un colpevole" dello stato presente del dominio di classe in genere, e poi del centro imperiale sulla vita degli uomini a livello ormai globale, ma - innanzitutto - di capire le condizioni, modalità, tendenze interne di quel dominio (come è stato detto anche qui). E non si tratta di "cercare il colpevole", aggiungerei, neppure dalla parte degli oppressi, delle loro organizzazioni storiche, che hanno subìto, come si sa, una sconfitta tanto grande, da poter esser solo paragonata, forse, a quella del 1914 - quando il movimento democratico e operaio nei Paesi più avanzati e di vecchia civiltà, che obiettivamente metteva in forse la barbarie imperialistica all’esterno, fu deviato e distorto a quel reciproco e inaudito massacro, che cementò la barbarie imperialistica all’interno, proseguita nei fascismi e nelle guerre successive. La sconfitta del 1989-91 è, in una diversa configurazione politica e dei rapporti tra le nazioni, paragonabile a quella del ’14. Per cui si tratta, mutatis mutandis, ma come allora, di ricominciare (sebbene la guerra presente infurii direttamente, per ora, "solo" nelle periferie del capitale).

Ricominciare. Dunque, innanzitutto, capire le nuova configurazione dell’imperialismo e degli imperialismi (al plurale! - e compreso quello nostrano!); capire le modalità dell’egemonia attuata anche separando i lavoratori dei "centri" dalle masse diseredate e sfruttate, per mandarli eventualmente in guerra contro quelle, o ottenendo, come già oggi, che i lavoratori la politica di guerra "non sabotino", o a lei tiepidamente "aderiscano" (eh, sì: come nel ’15 in Italia, e diversamente dal ’15. Ma c’è già chi va a salutare le "nostre" - "nostre"!! - navi in partenza per la zona di guerra: consentitemi di tacere i nomi di questi "dirigenti" della "sinistra").

Vedere sotto tutti gli aspetti, economici, sociali, statuali, culturali, come è fatto e come funziona l’imperialismo di oggi - questo è compito primario e urgente, preliminare a ogni nuova strategia, senza la quale, come sappiamo, si agirà solo sempre di rimessa e a corto respiro.

Ma d’altra parte, la necessaria ricognizione del presente non importa affatto un’assolutoria per il passato, né la rinuncia alla critica di quello che è il nostro passato, non obliterabile né rinunciabile - il passato di tutto il movimento operaio e democratico, e dunque anche dei comunisti e della loro storia tutt’intera. Sarebbe inutile sottolinearlo, se non fosse una delle premesse implicite del lavoro che esaminiamo, e che già per questo si pone del tutto al di là delle vacue e distruttive diatribe sulla "identità" della sinistra e dei comunsti, utili solo ai padroni del vapore. Saltare a pié pari quelle diatribe identitarie significa precisamente instaurare la continuità con la tradizione della democrazia e del socialismo, non già romperla. E il motivo è semplice. Eccolo: Riconoscere che la generazione ora al tramonto ha operato in un contesto di conoscenza e di azione in cui era possibile evitare i due estremi astratti del "dover essere" e della rassegnazione, significa riconoscere che essa (o insomma: la o le generazioni dei "comunisti", dei "terzinternazionalisti") hanno operato in una determinata configurazione del processo storico, quella dell’imperialismo, in una fase ora conclusa, senza che sia concluso né il processo plurisecolare della unificazione capitalistica del genere umano via sfruttamento e valorizzazione, né la forma imperialistica che quel processo assume tra fine ’800 e inizio ’900. Conclusa è bensì quella figura dell’imperialismo, quel tipo di lotte interimperialistiche, quella possibilità di uscirne che si aprì nel 1917, trasformando, ma solo in parte, "la guerra imperialistica in guerra civile". Proprio per questo non poteva non seguire una fase in cui le "idealità di giustizia e di eguaglianza, che sono proprie delle classi lavoratrici" (come ebbe a dire Togliatti) non erano più, per milioni di uomini, e per l’intelligenza, dover essere, speranza soltanto e soltanto nobiltà dell’impegno soggettivo, ma azione e programma. Non poteva non seguire una fase, per milioni di uomini e per l’intelligenza, in cui era possibile - purché si fosse disposti al lavoro e al sacrificio - amare la realtà - non aborrirla e sfuggirla, come insistentemente e subdolamente si suggerisce oggi. Non basta "riconoscere" la realtà, infatti. È da lei che s’impara, è grazie a lei che si esce dal misticismo romantico e dalla sua ipocrisia. Per tutta una fase, amare la realtà e modificare la realtà è stato possibile insieme: in un’opera che, avendo sempre gli individui come luoghi dell’agire, era però collettiva nei suoi modi, nelle sue forme, nelle sua finalità.

Dire che quella fase dell’imperialismo, e della lotta democratica e rivoluzionaria è conclusa, però, non vale nulla, se non è comprensione del presente, minuziosa, paziente, senza illusioni né conclusioni frettolose. Di qui il valore grande dell’analisi che gli studiosi del CESTES pazientemente conducono.

Ma ancora. Riconoscere che quella configurazione del processo storico è stata appunto una mediazione del processo medesimo, una fase del capitalismo imperialistico e della lotta in esso e contro di esso, ora conclusa, significa precisamente che è ancora e di nuovo possibile amare la realtà, apprendere da lei, e apprendendo da lei in lei operare, uscendo dall’astrazione e dalla disperazione romantico-impotente. Da questo amore nasce e fruttifica lo spirito rivoluzionario.

(Tutto questo, come al solito, il nemico di classe lo sa molto bene. Basta vedere con quanto pertinace accanimento esso diffonda, in tutti i mezzi di comunicazione, a tutti i livelli di cultura, dal più raffinato al più triviale, lo spirito di rassegnazione egocentrica, il divieto intellettuale di uscire dal proprio campicello, la mitologia pseudo-ideologica della "complessità", cioè dell’impossibilità di pensare il mondo).

2. Al termine dell’analisi statistica, "tecnicamente" spassionata come lo sono le funzioni econometriche, L. Vasapollo scrive che "si può ora ben capire... il perché delle tendenze in atto" a intervenire nei Paesi del centro-est europeo, anche "da parte dell’Italia" (p. 67).

La condizione in cui si attuano queste tendenze dell’Italia pare peraltro piuttosto intermedia, se si considerano i "saldi normalizzati" e il rapporto IDE in entrata - IDE in uscita (pp. 44 a 48), il "ritardo... della rincorsa multinazionale italiana" quale risulta dai saggi di crescita nel decennio rispetto alla "media europea" (p. 22), e la prevalenza dell’interscambio con le aree "centrali" (p. 23 ss.).

I dati-base delle elaborazioni di L. Vasapollo e di R. Martufi (con le interessanti disaggregazioni per settori, per regioni, per addetti e fatturato, p. 114 a 120) sono, naturalmente, dati CNEL, Eurostat, UIC etc. - Ma proprio il quadro conoscitivo che i due Autori offrono rende possibile la domanda: che cosa significa "tendenze in atto" "da parte dell’Italia"?

Vi è una strategia "italiana"? O più precisamente: quale è la configurazione "italiana", in senso attivo, del rapporto tra attività produttive e finanziarie, investimento-disinvestimento rapido, profitti finanziari e attività dei grandi gruppi? (Per alcuni aspetti, sembrerebbe ripetersi su scala più larga qualcosa che conosciamo dai tempi della Cassa per il Mezzogiorno - o no?).

E ancora. L’espressione "tendenze in atto del capitalismo italiano" s e m b r a designare qui piuttosto un insieme di correlazioni in rapido e costante riadattamento che un "soggetto" dotato di di una capacità politica e di una strategia unitaria. Sarebbe di grade interesse, ora, approfondire questo punto. E si può farlo, tra l’altro, proprio grazie alle analisi qui presentate.

Chiedere se vi è, e in che senso, una "strategia italiana", non significa, beninteso, chiedere se vi sia un Governo e dei Ministri! Ma, sì, esaminare se non siamo in presenza solo di gruppi di pressione, di uso spregiudicato di leve amministrative, fiscali, finanziarie, ma non, propriamente, di una "politica" e "politica nazionale".

Anche questo è un passo avanti, che apre prospettive più utili della discussione astratta sulla c.d. "fine degli Stati-Nazione". E anzi: partendo di qui si può allargare la visuale, anzitutto, nel tempo. La tendenza a uscire dalla "tradizionale subalternità" dell’imperialismo italiano, che L. Vasapollo e R. Martufi individuano, con la "delocalizzazione nomade" verso est (e sud?), andrà verificata anche nel confronto con almeno 4 fasi storiche dello sviluppo del capitalismo in Italia: la espansione 1890-1915; il periodo fascista fino alla "guerra parallela" e alla revisione d’orizzonti nel 1941-42; l’espansione nelle industrie "mature" nel dopoguerra "atlantico"; da ultimo, la integrazione nell’impero "occidentale" per gradi di gerarchie centro-periferia, e di "stabilità imposta" (p. 15). - Gli Autori sanno bene, del resto, che lo scopo primario dell’analisi econometrica è proprio quello di offrire materia elaborata a riflessione ulteriore. Non si può chiedere di meglio.

3. Un altro aspetto della questione dello sviluppo reale del Paese, nella sua economia e nella sua configurazione istituzionale, e quindi dell’individuazione di una strategia possibile, è quello esaminato da S. Cararo nel capitolo Lo Stato.

Prima di tutto. Cararo rivaluta la espressione "comitato d’affari", non con citazioni da testi onorandi, ma dandole un significato analitico. Il tipo di rapporto tra "affari" e "società" complessivamente intesa, nella quale opera la "mano pubblica" in ogni senso, dalla polizia all’istruzione al Tesoro - questo è l’oggetto dell’indagine. È un rapporto che c’è sempre, poiché ci sono "affari" e non si fanno affari nel vuoto. Ma è un rapporto, perciò stesso, che necessariamente varia nel tempo, secondo la configurazione della valorizzazione del capitale in genere, e delle istituzioni e forze sociali in presenza. Cararo dunque domanda, prima, che scopi può perseguire il "comitato d’affari" nell’ Italia di oggi, col suo tipo di capitalismo oggi presente; e, poi, quali funzioni esso, il "comitato d’affari" statualmente articolato, può assumere in concreto.

Anche qui, siamo "in più respirabil aere" che non nell’astrattezza e judicial blindness (Marx) di tante teorie aprioristiche su "poteri e funzioni dello Stato".

Ma in secondo luogo, S. Cararo mette in luce alcuni aspetti a dir poco inquietanti. Il "Nuovo sceriffo di Nottingham", p. es., nella sez. IV, non pare proprio un fenomeno "abnorme", ma casomai, una patologia molto "fisiologica", se si ricorda che la malattia della Repubblica Italiana, il suo non esser mai riuscita a diventare repubblicana per davvero e fino in fondo, è cosa più antica e profonda della sintomatologia attuale.

Il mondo degli "sceriffi", in cui prosperano accomunati ex-sinistri ed ex-moderati, è, parrebbe, un aspetto (simile per certi versi a fenomeni presenti nell’attuale Europa Orientale), di una condizione intermedia tra "regolare" amministrazione "borghese" nei Paesi centrali (con relativa corruzione, s’intende), e figure compradoras-mafiose nelle periferie.

Ma ancora una volta. Vedere la realtà in faccia, senza illusioni sulla nostra Res-publica, non significa affatto cadere nella vacua ironia romantico-nichilistica (o al livello più basso, nel qualunquismo dello "italiano meschino"): bensì sapere che c’è sempre tanta legge, e dunque tanto realizzata libertà, quanto forti sono stati, o sono, coloro che legge e libertà vogliono. Ed è per questa via, finalmente, che si arriva a porre la questione di classe! (Cfr. i due contributi di M. Casadio).