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José Luis Martín Romero
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Dottore in Scienze Sociologiche. Preside del Dipartimento di studi sul lavoro del Centro di Ricerche Psicologiche e Sociologiche, Istituto cubano appartenente al Ministero di Scienza, Tecnologia ed Ambiente

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La cultura del lavoro a Cuba di fronte al perfezionamento d’impresa

José Luis Martín Romero

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1. Introduzione

Credetemi, solamente un senso di impellente necessità mi fa tentare, in una volta sola, di dare una caratterizzazione al contesto lavorativo cubano, o per meglio dire, un primo approccio dei tratti e delle contraddizioni che denotano il contenuto dei processi sociali nella sfera lavorativa cubana in questo momento di cambiamenti cruciali per le imprese e per i lavoratori del nostro paese.

Noi sociologi ci siamo convertiti, in questo secolo che se ne va, (il nostro primo e forse unico secolo come corpo docente), in una sorta di cronisti del presente dinamico, narratori improvvisati dei cento anni più veloci e pieni di avvenimenti dell’avvenire umano. Svolgiamo una mansione terribile anche se appassionante, e sebbene talvolta raggiungiamo, come avrebbe detto Bloch “... una fibra profonda ...”, altre volte -e seguito con Bloch “... per un uomo niente è più difficile che esprimere un giudizio su se stesso.” (__, 1971).

Quando noi cubani diamo un giudizio su noi stessi lo facciamo con un bagaglio di quattro decenni di impetuose e attive trasformazioni, che sicuramente non passeranno inavvertite in qualunque Storia dell’America Latina nella seconda metà del secolo XX. Corriamo i rischi inevitabili del soggettivismo o la passione del protagonista che recita (e viceversa), soffriamo la mancanza dei dati -o l’inesperienza nel trovarli- e inoltre, la dinamica di fine secolo ci ha premiato con un ritmo in cui gli avvenimenti di domani possono stravolgere le interpretazioni di oggi. Forse sta qui la nuda causa, sebbene non giustificata, della scarsità di sistematizzazione e della teoria nella sì abbondante produzione sociologica cubana.

Cosa voglio di più se non correre il rischio di tentarlo qui nell’ambito che concerne il mondo del lavoro! Purtroppo ci mancano alcuni elementi fondamentali e discussioni e interscambi inevitabili. Comunque sia, è giusto che lo facciamo in quel piano dove possiamo avanzare, mi propongo questo: dare la mia opinione sull’ottica di riferimento che circonda la messa in pratica del Perfezionamento d’Impresa nella realtà cubana, dare elementi utili per un dibattito più che necessario, nel contesto in cui si produce questa formidabile trasformazione e le provocazioni che impone quello stesso contesto al Perfezionamento. È qui che si radica la necessità impellente di cui parlavo prima.

Succede inoltre che il Perfezionamento d’Impresa (PE), espressione del desiderio attuale del socialismo cubano per il suo modello di sviluppo economico, è anche ed inevitabilmente il terreno di nuove configurazioni sociologiche e psicologiche che vengono a scontrarsi e a volte ne sono il risultato di quello che è e sarà il lavoro a Cuba, ma è anche l’arena del confronto politico sul tema del modello della società che viene sostenuto e del modello di uomo e donna lavoratori che viene rinforzato. È questo inoltre, il dibattito culturale che interessa l’identità come una daga e porta alla luce ciò che siamo e pretendiamo essere: la nostra cultura del lavoro. In fin dei conti l’essere umano è, su tutte le cose, ciò che fa, ciò che lascia di sé per gli altri... è un animale culturale.

Come si vede, sto partendo da una definizione ampia di cultura [1] e, non solo incorporando il lavoro in essa, ma assumendo quella stessa visione nel contesto specifico dell’attività lavorativa per concepire ciò che possiamo comprendere come nostra cultura del lavoro.

Il mio testo cercherà di rispondere, anche se solo parzialmente, alla domanda: come si influenzeranno reciprocamente la cultura del lavoro che scaturisce dall’attuale contesto lavorativo del nostro paese e il processo di Perfezionamento d’Impresa in cui si vanno inserendo le imprese cubane?

Tale risposta verrà movimentata dalle idee che siamo andati formando nel nostro gruppo di lavoro sul PE al tepore dell’esperienza di quasi 15 anni di stretto vincolo con il mezzo lavorativo. Non voglio con questo dare la responsabilità anche al resto dei miei compagni [2] con le mie opinioni, ma riconoscere loro il ruolo di co-autori nella visione che trasmetto sul lavoro a Cuba e partendo dalla quale ho formato le mie deduzioni.

Per ultimo una premessa: ho concepito il testo come una presentazione delle tesi di base per una seguente discussione; cercherò perciò di essere parsimonioso nelle argomentazioni.

2. Chi siamo nel lavoro? Il contesto lavorativo cubano di fine secolo e gli impatti sulla cultura del lavoro

Per comprendere ciò che succede a Cuba nella sfera del lavoro bisogna considerare per lo meno l’evoluzione o l’emergenza, a seconda dei casi, di tre processi basici:

a) Il riorientamento degli spazi di inserimento dell’economia cubana e la dinamica negli anni ’90.

b) Il riaggiustamento della strategia di sviluppo e la multispazialità economica risultante.

c) La configurazione in movimento di una nuova soggettività lavorativa.

Medio evo della globalizzazione

Malgrado Internet continuo a credere che l’avvenimento globalizzatore di più forte impatto di quest’epoca è ancora la conquista dell’America. Curiosamente il primo “paese” -se ci è permessa questa licenza geostorica- che ha conosciuto Colombo è stata Cuba, luogo che ha mantenuto come un’ammonizione il suo nome aborigeno malgrado diversi battesimi e confusioni. Così il mondo ha conosciuto Cuba: proprio quando hanno iniziato a “globalizzarci”

La continuità di quel processo ha avuto, comunque, il suo periodo più trascendentale dopo un po’ di tempo, tra il XVIII e il XIX secolo, con il modello di sviluppo dipendente che aveva attuato la “burocrazia” creola come un progetto autonomo -sebbene non nazionale- della borghesia schiavista, che, parallelamente al suo processo di autoconformazione classista aveva saputo comprare la burocrazia spagnola e riuscì ad inserire l’economia del paese sul mercato mondiale capitalista che andava già guadagnando quel carattere, secondo Manuel Moreno Fraginals “... la crescita dello zuccherificio coloniale cubano non ha avuto la sua origine nella metropoli, ma venne effettuata a causa di questa [...] nasce nelle viscere cubane...” (Moreno 1978).

Lo zucchero è stato, a partire da lì e fino a poco fa, il veicolo di inserimento fondamentale, solamente nell’epoca attuale il suo primato sarebbe venuto ad indebolirsi a causa del turismo, che si è convertito nell’elemento che può ridare vigore all’economia cubana e nella fonte di finanziamento per nuovi e vari investimenti, con la fortunata compagnia di un importante accumulo di capitale umano [3].

L’inserimento neocoloniale, sebbene imposto dagli USA, è stato anche co-auspicato dalla borghesia nativa ex schiavista, la quale dalla sua formazione esisteva a causa e per la dipendenza. La rottura rivoluzionaria con quel modello di inserimento polarizzatore della ricchezza e inginocchiato in materia di sovranità ha implicato un importante riaggiustamento: l’iscrizione in un processo globalizzatore alternativo a quello del capitalismo, quello del sistema socialista che era scaturito dalla seconda guerra mondiale, dopo la sconfitta del fascismo. L’alternativa eletta sorgeva dalla necessità di orientare lo sviluppo verso gli interessi popolari e nazionali, sebbene ancora non si disponesse di un veicolo diverso dallo zucchero.

Lo zucchero venne considerato allora “l’unico settore economico capace di garantire il finanziamento esterno al paese”, mirando a “eliminare le sproporzioni [...] e promuovere lo sviluppo industriale e infrastrutturale”... (Rodriguez, 1984).

Ovviamente quel modello di inserimento si basava, primo sull’esistenza e dopo sull’appartenenza a quel “Il mondo” con le sue strategie, alla lunga frustrate, di globalizzazione solitaria. Allo sparire, Cuba ha visto sfumare lo spazio dove concentrava l’85% dell’attività economica import ed export e anche come venivano alla luce tutti i rischi della rotta eletta, inevitabili oltre tutto, di fronte alla sempreterna guerra economica degli USA. In pochi anni la nostra capacità di acquisto si è ridotta del 70% e il PIL quasi del 35%.

Iniziamo a vivere, una volta ancora, la crisi del modello di inserimento. Il coloniale aveva fallito per l’incompatibilità con il progetto nazionale; non è una casualità che fosse anche questa la causa del fallimento del modello di inserimento neocoloniale, posto che si differenziava appena dal precedente nel suo orientamento classista e nel suo funzionamento (mono esportatore, mono produttore). Ora scompariva il destino dell’inserimento senza che nessuno avesse superato del tutto né la dipendenza né il sottosviluppo. La differenza in quest’ultimo caso è che se prima il risultato essenziale era stato uno “sviluppo del sottosviluppo” ora i progressi materiali e spirituali raggiunti erano disposti nella forma di distribuzione coscientemente orientata a beneficio della maggioranza e avevano rafforzato sensibilmente il progetto di nazione cubana con un programma sociale che avrebbe avuto un buon risultato e un processo di investimento in ambito materiale e in ambito umano che definiva basi importanti per l’indipendenza economica. Ma restava chiara l’insostenibilità dei modelli di inserimento dipendente e la necessità di trovare strategie di più alta capacità di autoregolazione mettendo in gioco le nostre nuove fortezze e ponendole di fronte alle nostre vecchie debolezze.

Due argomenti cruciali, angustianti e difficili, hanno dovuto intraprendere una feroce battaglia contro il tempo lungo questi anni ’90: una trasformazione virtuosa della nostra cultura del lavoro e una resistenza efficace all’ostilità imperialista degli USA.

Mi riferirò brevemente alla seconda; non si può ovviare ma non è neanche il centro di attenzione di questo articolo, ciò che invece accade con la prima, come si vedrà.

È risaputo che il riaggiustamento degli anni’90 è stato attuato in speciali condizioni di guerra economica con la potenza trionfatrice della “guerra fredda”, così il blocco, sempre dannoso, è stato rapidamente rafforzato da nuove leggi imperialiste e si è sentito con tutto il suo rigore di fronte all’assenza di passaggi alternativi. Ma c’è da dire che, stando ai suoi impatti, il blocco è un nemico viscerale che ci ha sempre accompagnato dall’esistenza stessa di progetti nazionali a Cuba e negli USA. Sono stati blocchi anche le intenzioni nordamericane di comprare a Cuba dal secolo XVIII, l’atteggiamento negativo yankies all’invasione liberatrice del Bolivar all’inizio del XIX secolo, il suo intervento opportunista nella guerra d’indipendenza alla fine proprio di questo secolo, il suo dominio neocoloniale col Trattato di Reciprocità e intervento militare incluso in tutta la prima metà di questo secolo, come anche lo sono e seguitano ad essere le sue azioni di genocidio degli ultimi 40 anni. Hanno sempre bloccato il nostro inserimento indipendente nel mondo.

Adesso, il blocco economico propriamente detto, con tutta la sua attuale obsolescenza, ha posto la sua impronta indiscutibile con perdite di migliaia di milioni di dollari in queste quattro decadi ed ha lasciato il segno nella cultura del lavoro a Cuba, ha cioè mediato e ostruito il nostro accesso alle nuove tecnologie, l’inserimento dell’esperienza di gestione occidentale e l’internazionalizzazione di modelli di qualità, disegno e varietà dei prodotti prevalentemente a livello internazionale. I vincoli con il campo socialista non possono mai sostituire gli affari lavorativi con questi punti di riferimento generali e questo impatto non è stato innocuo. Malgrado la sua crudezza, il blocco ha iniziato a dare sintomi di sgretolamento, di fatto le bugie sulla sua flessibilità sono indicatori di una scomposizione inevitabile che non si è prodotta perché non c’è garanzia di sostituzione con un altro meccanismo di pari letalità.

Il blocco verrà vinto, il tempo scorre in suo favore, ma non si deciderà realmente tra di noi e avverrà, in ultima analisi, nell’area lavorativa, ciò che ci riporta alla prima argomentazione di questi anni ’90. Trasformare la nostra cultura del lavoro.

Devo riconoscere che identificarlo come preoccupazione suprema di questi anni è un’interpretazione molto particolare dei processi che abbiamo vissuto e seguitiamo a vivere. Il concetto di cultura del lavoro viene appena menzionato nei discorsi ufficiali e in quelli accademici, tuttavia anche così è il nostro pane quotidiano comprendente le trasformazioni delle relazioni economiche nelle nostre imprese -con incluso il perfezionamento d’impresa- fino alla volontà del Partito Comunista Cubano di abbandonare procedimenti amministrativi tradizionali ed erronei. Per questo insisto sul fatto che bisogna indirizzare la nostra analisi.

Per questa mansione che è già cominciata e sta continuando si impone una diagnosi dello stato attuale della nostra cultura del lavoro dopo le successive globalizzazioni, nella quale non solo abbiamo accumulato esperienze e sviluppato capacità di azione, ma anche profonde ferite che dobbiamo bonificare. Cosa è Cuba quindi nella visione più generale della sua cultura del lavoro alla fine di questo millennio?

Ci giungono vari segnali:

Il marchio dell’esportazione. Per secoli Cuba è stata un paese di importatori che si realizza per se stessa fuori di essi; prima esportavamo zucchero, tabacco ed altri prodotti primari e/o semiprodotti. Oggi senza abbandonare il resto importiamo anche bellezza naturale e servizi per oziare, minerali, mercanzie con forte inclusione di conoscenze come vaccini etc; e sicuramente in un prossimo futuro, servizi professionali. Senza dubbio abbiamo sviluppato capacità per farci riconoscere nel mondo, ma il costo è stato un notevole indebolimento del riconoscimento e le misure interne di prodotti e del disimpegno, un mercato interno sempre irrilevante per la nostra stessa economia, una infrastruttura insufficiente e trascurata e, come una sintesi risultante da tutto ciò che è stato detto, una debole istituzionalità nelle nostre entità produttive e dei servizi che simula la costruzione particolare di una cultura del lavoro di ogni entità o emblematica di una attività. Ci sono delle eccezioni, certo, ma questa è la regola.

Il marchio dell’importazione. Come ogni paese che si orienta verso l’esportazione siamo anche sottoposti all’importazione e così consumiamo ciò che non produciamo. Il lato positivo di questa area è la capacità di assimilazione del nuovo; per ricrearlo anche, per selezionare alternative senza molti pregiudizi, ma il costo è stato ed è sempre stato il nostro punto vulnerabile in relazione al mercato estero; una tendenza al mimetismo mai ben contenuta e una insufficiente disposizione, al posto di un lento apprendistato, alla necessità di mantenere, conservare, distinguere tra il nuovo ed il buono. Un’altra conseguenza culturale importante è la tendenza ad inglobare criteri di qualità soggetti a protettorati esterni.

Il marchio della resistenza nella precarietà. La crisi o/e il doverci trovare ad affrontare costantemente le difficoltà che sembrano superarci è quasi il nostro stato naturale, è un marchio secolare sebbene si evidenzi di più negli ultimi 40 anni. Questo ci ha dato la forza di resistere, serenità di fronte ai pericoli, creatività di fronte alle difficoltà, ha alimentato l’orgoglio e la fiducia nelle nostre possibilità, così come il rispetto degli amici e soci reali o potenziali. Si è anche diversificato il nostro repertorio delle strategie di resistenza e, allo stesso tempo, una certa capacità autocritica e una vocazione all’autoperfezionamento. Ma anche i costi sono stati importanti perché abbiamo vissuto in permanente precarietà rispetto al necessario per vivere, produrre e commerciare; ciò ci ha resi tolleranti di fronte ai cattivi disimpegni e poco esigenti in materia di qualità. I nostri orientamenti d’asse risultano molto precisi per ciò che può concernere direttamente alla questione nazionale e a tutto ciò che in qualche modo la mette in risalto, ma molto diffuso in quanto al comportamento quotidiano, allo sforzo sostenuto, all’onore con cui si trattano le risorse, all’onestà nella condotta politica in diverse situazioni di lavoro. Ci siamo costituiti con fretta, con un senso della previsione molto subordinato all’incertezza o alla pressione congiunturale della sussistenza.

Il marchio dell’oggetto incompiuto. Esistiamo nella resistenza, l’ho già detto, ma anche nella lotta per arrivare ad essere ciò che pretendiamo: non è che ci disgusta come siamo, ma non siamo ancora ciò che vorremmo essere come popolo e come nazione. Esiste di fatto un “cuban dream”, un ideale di nazione vigente dai tempi di Martí: sviluppo economico insieme alla giustizia sociale (oggi aggiungeremmo e crescita umana); quel sogno ha delle traduzioni individuali e di gruppo più o meno coscienti e definisce tra le altre cose la permanenza insieme al progetto nazionale o l’uscita da esso. In quel sogno abbiamo costruito i cubani e solamente esso ci unisce, sebbene la sua capacità di riunione è formidabile. Da questo ideale in sviluppo sorgono conseguenze che denotano tutta la cultura e quella del lavoro in particolare: dal lato positivo, unità d’azione, disposizione all’esperimento e alla solidarietà, consistenza nella ricerca di alternative e coerenza nel discorso ideologico che sostiene tutte le azioni con qualsiasi grado di difficoltà. Dal lato negativo la natura dell’"opera in costruzione" ci carica di una noiosa incertezza, ci molesta costantemente la volontà e ci riporta la vista sulla vita reale con la crudeltà e la testardaggine che abituano i fatti.


[1] “Insieme dei tratti distintivi, spirituali e materiali, intellettuali ed affettivi di una società o gruppo sociale. Include non solo arti e lettere, anche modi di vita, diritti dell’essere umano, valori, tradizioni e credenze...” UNESCO “Cultura e sviluppo”. Parigi, novembre, 1994, pp. 6 e 7.

[2] Mi riferisco ai laureati: Josè Luis Nicolau Cruz, Juan Carlos Campos Carrera e Armando Capote Gonzalez.

[3] Tutto il capitale è umano, uso l’espressione per il suo valore comunicativo malgrado non mi piaccia.