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Per la critica del capitalismo

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John Milios
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Professore di Politica Economica all’Università di Atene. Direttore della rivista “Theseis”

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Il capitalismo greco, l’Unione Europea e la Sinistra

John Milios

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Nel 1922, con il cosiddetto “Disastro della Asia Minore” (vale a dire la sconfitta dell’invasione imperialista greca in Turchia), tutti i fattori che fino ad allora avevano inibito lo sviluppo capitalista vennero cancellati. I profughi del Disastro dell’Asia Minore, più di 1,2 milioni, con il loro ritorno in Grecia hanno posto fine al periodo storico della dispersione dell’Ellenismo (e del capitale greco). I greci dei Balcani erano già rientrati alla fine delle Guerre Balcaniche.

Il re-insediamento dei profughi rappresentava allo stesso tempo la soluzione finale non soltanto alla questione nazionale (attraverso lo scambio delle popolazioni e l’insediamento di 500.000 profughi in Macedonia e Tracia, la “grecità” dei neo-annessi territori veniva per la prima volta assicurata) ma anche alla riforma agraria (vale a dire la dissoluzione delle forme pre-capitaliste sulla terra): dall’epoca della sua approvazione, durante la legislatura del 1917, venne applicata soltanto nel 1922 dopo la “Catastrofe dell’Asia Minore”.

Il 1922 non rappresenta perciò semplicemente la fine della “Grande Idea”. Rappresenta l’inizio di una ristrutturazione radicale della formazione sociale greca e delle sue tradizionali articolazioni internazionali e apre una nuova epoca nella storia Greca. È l’epoca dell’unificazione e della omogeneizzazione nazionale, quando si mettono in moto il veloce sviluppo industriale e il “recupero retroattivo della distanza nello sviluppo” con l’Occidente industrializzato. Il capitalismo greco non aveva mai conosciuto in passato una così rapida crescita e una corrispondente ristrutturazione sociale come quella che ebbe luogo nel periodo successivo al “Disastro dell’Asia Minore”.

Il numero di imprese industriali in Grecia aumenta dell’82% nel periodo dal 1920 al 1929 e del 40% nel periodo dal 1930 al 1940. Più della metà delle imprese operanti nel 1940 erano state create dopo il 1920. L’occupazione industriale passa dai 154.000 lavoratori del 1920 a 280.000 nel 1930 e a 350.000 nel 1938. Il potere della capacità industriale impiantata cresce dai 110.000 HP del 1920 ai 230.000 HP del 1930 ai 277.000 HP del 1938. Secondo cifre della Lega delle Nazioni, la produzione industriale greca nel periodo 1928-38 cresce del 68%, raggiungendo così il più alto tasso di crescita del mondo dopo l’industria dell’Unione Sovietica (con un aumento dello 87%) e del Giappone (73%).

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la “reale convergenza” tra il capitalismo Greco e i capitalismi più avanzati dell’Europa Occidentale è particolarmente marcata nel periodo tra il 1960 e il 1975 (quando il PNL della Grecia aumenta a un tasso medio dell’8,5% annuale e la produzione industriale ad un 9,4% annuale, contro tassi di crescita degli allora nove paesi della Comunità Economica Europea rispettivamente del 3,8% e del 3,7%). Rimane poi sostenuta, anche in qualche modo ridotta, attraverso la decade successiva e essenzialmente sospesa nel periodo tra il 1985 e il 1994 (a seguito delle più intense crisi di sovra-accumulazione di capitale in Grecia) e diviene di nuovo evidente a partire dal 1995. Allo stesso tempo, come caratteristica permanente della realtà post-bellica, è in atto una apertura dell’economia greca al mercato internazionale, e un orientamento verso i processi di unificazione europea (avvicinamento alla Comunità Economica Europea nel 1961, ammissione della Grecia come decimo membro nel 1981).

L’internazionalizzazione del capitalismo greco e il suo orientamento verso i processi di integrazione europea non sono parte di un degradamento o “de-industrializzazione” della “economia greca”. Rappresentano una scelta strategica delle forze dominanti del capitale greco per promuovere e rinforzare la loro posizione attraverso lo sfruttamento delle "opportunità" e delle “sfide” della competizione capitalista internazionale, allacciandosi al processo di avanzamento dei capitalismi dell’Europa Occidentale nell’economia internazionale attraverso la ristrutturazione capitalista, vale a dire l’accelerazione dei processi di liquidazione delle crisi di sovra-accumulazione capitalista.

L’entrata della Grecia nella Unione Economica e Monetaria e l’adozione dell’Euro hanno così rappresentato il risultato di un lungo processo di convergenza strategica del capitalismo greco con il processo di crescita e integrazione capitalista dei capitalismi dell’Europa Occidentale. Inoltre, questo processo in Grecia si è assicurato il consenso dei cittadini in misura maggiore che nella maggioranza dei paesi europei. Tanto più i poteri capitalisti dominanti riescono, agli occhi dei lavoratori, a separare l’obiettivo dell’integrazione europea e la promozione dei capitalismi europei nel mercato internazionale, dai problemi e dagli antagonismi sociali all’interno del paese, tanto più saranno in grado di rafforzare la loro egemonia ideologica.

Dato che la Sinistra istituzionale non parla della contraddizione inconciliabile tra il capitale e il lavoro ma del (oggi difficilmente credibile) “danno” che verrà inflitto alla “nostra economia” dalla integrazione europea e dall’unione monetaria, gli interessi del capitale riescono ad apparire come gli interessi dell’intera comunità. La ridistribuzione di reddito e potere a favore delle classi capitaliste dominanti è vissuta come un “sacrificio necessario” per “l’obiettivo nazionale” della partecipazione nell’integrazione europea, e per “l’obiettivo europeo” di far emergere l’Unione Europea come un nuovo super-potere ecomico.

3. Moneta unica e “collasso economico”

La tradizione perdente, dagli scenari da giudizio universale, della Sinistra sembrano tornare di moda attraverso la proposizione di paure quali quella che vede nell’adozione dell’Euro l’inizio di un percorso che porterà allo scoppio di una crisi monetaria con una conseguente destabilizzazione economica e sociale simile a quella Argentina.

Parlando in generale, niente è per sempre, perciò neanche il capitalismo dovrebbe essere considerato eterno, a parte l’Euro. Ma parlando concretamente, se analizziamo la situazione reale, è legittimo chiedersi da quali dinamiche potrebbe emergere, nella fase storica data, uno sconvolgimento economico asimmetrico nella zona Euro, in assenza dello strumento di riaggiustamento valutario, che potrebbe condurre al rapido deterioramento dell’economia di un paese.

Le parità che influenzano il commercio internazionale e il movimento dei capitali sono, come ben noto, le “parità reali”, vale a dire (considerando come irrilevanti le differenze nei tassi di crescita dei paesi in competizione) i tassi di cambio attuali meno le differenze nei tassi di inflazione tra i paesi in competizione. Il motivo di ciò sta nel fatto che se due paesi in competizione sul mercato internazionale non hanno gli stessi tassi di inflazione, allora (assumendo un tasso nominale di cambio stabile) si assiste a un consistente deterioramento nella posizione del paese che ha il tasso di inflazione relativamente più alto. Anno dopo anno i suoi prodotti aumentano di prezzo, in proporzione corrispondente alla differenza nel tasso di inflazione tra i due paesi. Questo implica una “rivalutazione reale” della valuta del paese con il più alto tasso di inflazione (poiché rappresenta esattamente la rivalutazione del prezzo internazionale dei suoi prodotti). In questo modo la “svalutazione nominale” della valuta del paese può ben rappresentare una “vera crescita nel valore” della valuta, se il tasso di svalutazione è consistentemente più basso del tasso differenziale di inflazione del paese in questione comparato con i suoi competitori.

Un paese cessa di essere nella posizione di sostenere il tasso di cambio nominale della sua valuta attraverso un’altra valuta (e così ne deriva una crisi monetaria), quando questa stabilità nominale dei tassi di cambio implica una tale significativa e reale rivalutazione della propria valuta da creare grandi disavanzi nella propria bilancia dei pagamenti, il chè non può essere coperto dal saldo dei movimenti dei capitali indipendenti o da assennati prestiti internazionali.

Come è ben noto, l’inflazione in Grecia era significativamente più alta del tasso corrispondente per l’Unione Europea durante tutto il periodo dal 1979 al 1999. In questo senso a partire dal 1986 (con l’eccezione del 1998) la dracma è entrata in una fase di rivalutazione continua, “in termine reali” contro le valute europee, precisamente in considerazione di questo deprezzamento nominale della valuta greca ad una tasso più basso della inflazione relativa (differenziale) tra la Grecia e l’Unione Europea. Nel periodo dal 1990 al 2000 la dracma è stata rivalutata cumulativamente in termini reali di almeno un 15% contro l’Euro/ECU, un fatto che ha contribuito significativamente al deterioramento nella bilancia dei pagamenti greca.

La “politica della dracma pesante” ha reso i prodotti greci sempre più costosi nei mercati internazionali e ha così favorito le importazioni sulle esportazioni. Il grado di copertura fornito per i beni materiali importati dalle corrispondenti esportazioni è crollato dal 41,5% nel 1990 al 37,5% nel 2000. Ciònonostante, l’esteso disavanzo nel commercio venne (più che) compensato, in parte dal saldo nei servizi (turismo, navigazione), in parte attraverso il trasferimento dei pagamenti (rimesse degli emigranti, i fondi dell’Europa Unita) e in parte dal saldo dei movimenti dei capitali indipendenti. In questo modo la politica della dracma pesante ha potuto continuare, con l’obiettivo non soltanto di portare la valuta greca nell’Euro ma anche di sostenere gli interessi del capitale sul lavoro. Essa ha lasciato le imprese con una sola via d’uscita se vogliono mantenere i profitti che vengono ridotti dalla rivalutazione di fatto della valuta: la compressione dei salari.

Dal 2001, quando la dracma è divenuta una sotto-divisione dell’Euro, le cose sembrano persino più stabili per le relazioni economiche internazionali dell’economia greca: con tutte le altre variabili più o meno statiche, l’inflazione greca (2,6%) convergeva con la media europea (1,9%) mettendo essenzialmente fine al lungo periodo di rivalutazione della dracma.

Conclusioni simili emergono dagli altri paesi della zona Euro: il potenziale generale di crisi (vale a dire la possibilità generale di crisi) non dovrebbe essere presentato come una realtà di crisi (imminente).

4. Epilogo

La Sinistra sarà in grado di unirsi in una strategia di sfida e sconfitta del dominio e dello sfruttamento capitalista quando riuscirà ad allacciarsi ai sentimenti e alle lotte quotidiane delle classi sfruttate e a radicalizzarle in chiave anticapitalista. Il modo meno adatto per ottenere un risultato è continuare a profetizzare l’imminente collasso della “economia nazionale” “dalle contraddizioni economiche” derivanti dalla integrazione europea o dalla “globalizzazione”.