Firenze ‘02: Altre Europe sono possibili. Costruire l’opposizione alla barbarie del capitale
Armando Fernández Steinko
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Firenze segna un’inflessione. La globalizzazione
neoliberale sta trasformando questo mondo in qualcosa di insopportabile, ma, se
il socialismo dell’Est ha fatto piangere, quello del centro-sinistra comincia
davvero a far morire dal ridere. Il prima e il dopo che potrebbe marcare Firenze
non è tuttavia facile da definire; esistono solo pochissimi avvenimenti storici
che rendono possibile identificare con certezza un prima e un dopo rispetto ad
essi, mentre altri, come l’11 settembre 2001, accelerano piuttosto processi
già in atto da alcuni mesi o anni. Il Forum Sociale di Porto Alegre ha segnato
il punto di partenza, anche se nemmeno tanto, dal momento che Porto Alegre I, a
sua volta, è stato il risultato di una serie di piccole esperienze di
cambiamenti innovativi che si sono affermate e perfezionate negli anni, e che
vanno dalla peculiare Rivoluzione Zapatista fino alle premesse insite in
Brasile. Cosa insegna la storia dei movimenti sociali? Qual è la novità di
Firenze, oltre il superamento di qualsiasi previsione di partecipazione e
creatività, oltre che la maturità politica e intellettuale di quasi tutto ciò
che è stato detto, discusso e proposto, oltre che il fatto che la
manifestazione contro la guerra del 9 novembre ha veramente riunito circa
750.000 persone diverse, mescolate e unite come abbiamo potuto testimoniare
tutti noi che eravamo lì, senza ingannare nessuno?
Certamente, Firenze ha molte caratteristiche in comune con i
grandi movimenti sociali che hanno modificato il volto dell’Occidente,
addomesticato la sua economia selvaggia o che addirittura sono riusciti ad
abbattere il capitalismo. In primo luogo, possiede in comune con questi la
combinazione di protesta contro la guerra e protesta sociale e lavorativa, che
riunisce improvvisamente settori delle classi medie, operaie, delle donne e
giovani in un amalgama molto potente. Questa combinazione, che solo nel minor
numero dei casi ha portato un cambiamento rivoluzionario, ma che in molti altri
ha radicalmente ridefinito il gioco politico, o, almeno, ha preparato il terreno
per cambiamenti più profondi, si è avuta sia durante la Rivoluzione Russa del
’17, sia nella Germania del ’18, sia durante la Settimana Tragica di
Barcellona (1909) e durante lo Sciopero Generale nella Spagna del 1917, sia nei
grandi movimenti antifascisti del 1944-1950, che nelle proteste contro la Guerra
del Vietnam del 1968. Questo stesso amalgama si è ripetuto a Firenze e solo
esso spiega l’affluenza massiva alla manifestazione di sabato 9 di novembre
contro la Guerra in Irak.
In secondo luogo, a Firenze si è verificato un nuovo
avvicinamento tra gli obiettivi di coloro che scelgono delle forme di
partecipazione e di lotta più dirette e coloro che scelgono una lotta più
istituzionale con, in effetti, una chiara preponderanza dei primi. Il discredito
delle istituzioni politiche, che sta portando un aumento dell’astensione e del
disinteresse per la politica in Europa, ha dato molta più voce a coloro che
scelgono di partecipare “alla base” (da gruppi ecologisti, a ONG, da
iniziative cittadine di ogni tipo fino ad organizzazioni dichiaratamente
antistituzionali, da gruppi marxisti o libertari fino a sindacati “di base”),
che alle organizzazioni più moderate e istituzionali. I partiti di
centro-sinistra, screditati dal loro triste ruolo nella seconda metà degli anni
Ottanta, si sono fatti notare piuttosto per la loro assenza e, anche se in
misura minore, anche i grandi sindacati europei. A Firenze, però, questa eterna
dicotomia si è nettamente temperata, una sorta di “ammorbidimento” che si
è dovuto produrre anche affinchè si consolidassero i tre grandi cicli di
protesta che ha conosciuto il XX secolo (1917-1924, 1944-1950 e 1968-1980). La
Rivoluzione Russa non avrebbe potuto trionfare se l’ancestrale cultura russa
dell’autorganizzazione cittadina (soviets) non si fosse imposta alla scelta
istituzionalista dei menscevichi, ma nemmeno se molti dei muri che separavo
menscevichi e bolscevichi non si fossero ammorbiditi, almeno nei primi mesi del
1917. La Rivoluzione Tedesca è nata a margine del settore maggioritario del
SPD, però, sebbene questo l’avrebbe poi tradita, non avrebbe nemmeno
trionfato se le organizzazioni operaie e sindacali maggioritarie non si fossero
unite ad essa in massa. Le lotte antifasciste a partire dal 1944 sono
incominciate in Italia, Francia e nei Balcani come guerre di guerriglie, ma i
partiti, con la loro disciplina e la loro organizzazione, erano dietro di esse
con le loro reti di intellettuali, militanti organizzati e resistenti di ogni
genere. Anche il ’68 è nato nella base, nella base delle fabbriche e nella
base delle università e dei quartieri, ma si è visualizzato soprattutto
attraverso leggi, proposte e riforme sociali delle quali ancora beneficiamo
quando una parte della socialdemocrazia si è unita ad esse, con l’obiettivo
di frenare la pressione della sua ala sinistra, sebbene anche in questo caso per
appropriarsene elettoralmente e poi dimenticarle troppo presto. La lotta senza
quartiere tra istituzionalisti puri e antistituzionalisti puri che conosciamo
degli anni Settanta o anche degli anni Ottanta e Novanta (nei primi tentativi di
creare i vari Forum Sociali/Movimenti Antiglobalizzazione di Barcellona e di
Madrid continuano ad essere vive), è stata sospesa, grazie alla rettifica di
alcune organizzazioni di tipo tradizionale (come Rifondazione Comunista,
speriamo anche Izquierda Unida, il PCE e altre), ma soprattutto grazie alla
forza delle iniziative cittadine che hanno in parte accantonato gli inganni dei
vecchi meccanismi fordisti della rappresentanza politica.
Terzo. Firenze non è il risultato del lavoro e dell’impegno
di una generazione o di un gruppo sociale determinato che domina pesantemente
sugli altri; è vero che quelli che predominavano erano i giovani universitari,
come nel 1968, però era ben rappresentata anche la generazione intermedia,
quella che ha fatto il Terzo Ciclo e quella di coloro, come noi, cresciuti
politicamente negli anni Ottanta. Il peso dei giovani è sempre stato decisivo.
Le città più rivoluzionarie d’Europa nel 1917 erano, non a caso, le più
giovani (San Pietroburgo, Barcellona e Berlino, in questo momento non ho dati
per Torino e altre), pertanto quella del ’68 non è stata la prima rottura che
ha avuto le nuove generazioni come protagoniste, anche se è vero che solamente
verso gli anni Sessanta i giovani creano identità e culture proprie. La
gioventù non protesta per capriccio, lo fa perchè può veramente guadagnarci
di più che gli adulti, perchè investe maggiormente in un futuro che si estende
davanti ad essa per un numero di anni maggiore di quello davanti ai più vecchi.
Poi vi sono le donne che, in attesa di studi più sistematici, ho l’impressione
che a Firenze fossero almeno numerose quanto gli uomini. Le donne sono state
decisive nella Rivoluzione Russa esattamente come lo sono state nella lotta per
il suffragio universale che nella Finlandia del 1906 dette loro per la prima
volta il diritto al voto (la Finlandia era stata fino a quegli anni una colonia
della Russia), così come lo sono state nella Settimana Tragica di Barcellona,
che rappresenta una pietra miliare per la storia dei movimenti sociali in
Spagna. L’inserimento di migliaia di donne nel lavoro remunerato nella
maggioranza dei Paesi che hanno partecipato alla Prima Guerra Mondiale (i casi
di Francia e Russia sono emblematici, ma anche quelli della Germania, la Gran
Bretagna e degli Stati Uniti) è stato importante per riuscire a rompere l’ordine
politico e, in parte, economico del XIX secolo, quasi quanto la forza
organizzata del movimento operaio. La storia si è ripetuta di nuovo verso il
1944, quando milioni di donne si sono inserite nella lotta antifascista,
rompendo con molti schemi, ruoli e comportamenti legati alla famiglia
tradizionale, ermetica e sempre molto poco aperta agli avvenimenti cittadini. Le
donne, e il movimento femminista in generale, sono state decisive anche nel ’68,
come tutti sanno, e le donne, che oggi hanno un’importanza almeno quanto
quella degli uomini tra gli universitari nei Paesi del Sud d’Europa, sono
ancora una volta fondamentali, tanto che non appare strano che siano state così
numerose a Firenze.
L’aspetto che è stato più nuovo dal punto di vista
storico, più originale, è che a Firenze le parti non si sono messe a litigare
in una discussione tra radicali e riformisti (molto diversamente da quanto è
successo nel 1968 e nel 1917, anche se non per quanto riguarda il 1944), tra il
semplice rifiuto del capitalismo e la sua accettazione dogmatica; a Firenze,
come a Porto Alegre, ha trionfato il sì sul no, hanno trionfato le proposte
capaci di unire la critica di ciò che esiste sul solo rifiuto di qualcosa che
non si vuole, ma di fronte a cui non si hanno molte alternative possibili. La
maggior parte delle proposte fatte nei migliaia di forum e gruppi di discussione
ha portato ad una messa in discussione, non tanto radicale solo a livello
verbale, quanto profonda e meditata, del sistema vigente. Quello che si chiedeva
è semplicemente impossibile da ottenere all’interno dell’attuale sistema
capitalista; se la sicurezza socioeconomica nel suo significato più ampio, la
sostenibilità, la diversità culturale e la pace sono gli obiettivi che quasi
tutti considerano auspicabili e necessari per fare quegli “altri mondi
possibili”, sembra molto difficile che tutto ciò si possa realizzare partendo
dalle grandi leggi che regolano oggi l’economia e la società. Firenze lascia
un’altra lezione, per gli altri, già scritta da più di qualcuno negli ultimi
anni: che “il capitalismo non verrà abolito semplicemente collettivizzando la
proprietà privata, come forse si era creduto prima, ma che è necessario creare
e praticare modi di vita (produzione, consumo, tempo libero) che superino lo
stesso capitalismo” [1]. Questo “socialismo
quotidiano” (Enric Tello) non richiede molta fraseologia rivoluzionario-di
rottura, semplicemente lo è in sè, la si definisca così o in un altro modo.
Vivere in un modo determinato, produrre, intervenire nella società, consumare,
diventano in questo modo un processo più “radicale” di molte delle grandi
frasi che tutti conosciamo.
Altre novità che ho potuto riscontrare a Firenze rispetto
all’ultimo ciclo di protesta (1968-1980), del quale siamo figli io e molti
altri che sono stati lì, sono le seguenti:
Primo, la combinazione di mancanza di prospettiva lavorativa
e di alte qualifiche tra i giovani. I giovani degli anni ’70, almeno quelli
della classe media, erano certamente molto più qualificati di quelli prima di
loro; come gli europei di oggi, essi hanno usufruito di un sistema pubblico d’istruzione
che in quegli anni aveva già lasciato tracce profonde nella coscienza
collettiva (cultura generale, conoscenza del mondo, delle strutture politiche ed
economiche, ecc.). Tuttavia, a differenza di quei giovani, cresciuti in un
contesto di abbondanza e crescita quasi ininterrotte, i giovani di Firenze hanno
un futuro professionale affatto spianato. La crisi del 1975 ha diminuito molto
le prospettive di vita dei giovani contestatori di allora; ma verso il 1975 il
ciclo di protesta incominciava ad esaurirsi proprio a causa del problema della
disoccupazione, della precarietà e del principio del “si salvi chi può”
che ha colto alla sprovvista una protesta che in realtà nuotava sull’onda
dell’abbondanza dello sviluppo fordista e che non è riuscita a trovare una
formula unitaria per infrangere i modelli della rigidezza della democrazia
fordista. Oggi, al contrario, disoccupazione, mancanza di prospettiva
professionale e protesta giovanile si uniscono di nuovo in un cocktail di
politicizzazione generale dei più interessati, che, semmai, assomiglia di più
a quanto è successo durante il Primo Ciclo di Protesta (1917-1924), che a ciò
che si è visto durante il Terzo, più vicino cronologicamente. Questo spiega l’avvicinamento
spontaneo di culturale-verde e viola e altri colori, con il vecchio colore rosso
del lavoro, avvicinamento che, nella maggior parte dei paesi, non ha in realtà
smesso di riferirsi agli anni Settanta, nonostante la retorica propria della
classe operaia di molte delle “sette” (e “non sette”) politiche di
allora.
In secondo luogo, vi è l’impressionante varietà di
iniziative, organizzazioni, reti e associazioni di ogni tipo che sono confluite
a Firenze. Firenze è stata l’irruzione definitiva della pluralità, della
diversità, della creatività collettiva, un trionfo che viene da Porto Alegre I
e II, ma che solo in un continente così diverso e multiculturale come quello
europeo poteva arrivare ad essere tanto incisivo. E non solo questo, perchè
questo, in sè, non porta ad un nuovo ciclo di protesta, dal momento che può
anche portare alla sua divisione e indebolimento, come è successo verso il
1970, o anche alla sua autoliquidazione per colpa dei settarismi e degli scontri
tra grandi organizzazione politico-sindacali, le iniziative più di base e tra
le stesse iniziative di base tra loro. Firenze ha seguito la geniale parola d’ordine
di Porto Alegre di autodefinirsi piuttosto come uno spazio di incontro e di
elaborazione di proposte, piuttosto come un processo di ricerca collettiva,
piuttosto come una sorgente di creatività trasversale che cerca un’alternativa
alla globalizzazione neoliberale, che come un punto unificatore ed “accumulatore
di forze” nel senso tradizionale del termine. In questo aspetto risiede molta
della novità, perchè riguarda i modi di costrurire dei contropoteri. Anche gli
incontri specializzati di universitari, di sindacalisti o di ONG celebrati negli
ultimi anni per tutto il pianeta in lungo e in largo avevano dato origine a
proposte e scambi importanti di iniziative, modelli e proposte, ma nessuno di
essi era stato capace di scatenare effetti-domino paragonabili a quelli visti a
Firenze; solo la trasversalità dei dibattiti, delle età, delle iniziative e
dei progetti ha permesso una diffusione dello stimolo a creare collettivamente.
Ma non solo. Firenze non è stata solamente pluralità, ma
anche confluenza di diversità che si annodano e si ramificano di nuovo in
capillarità diverse per esplorare nuove tematiche e strategie, per attrarre
più gente nuova. È un movimento di movimenti generatore di consensi, consensi
che risultano innovatori, per il sistema che li origina, per rompere i modelli
unificatori di ciò che si intende generalmente per “consenso”. A Firenze c’erano
cinque lingue ufficiali (italiano, spagnolo, francese e inglese) con il dominio
dell’italiano nello stesso modo in cui Porto Alegre è riuscito ad adottare lo
spagnolo come lingua libera rispetto all’inglese e non per nulla, ma
semplicemente perchè la maggioranza parlava o capiva lo spagnolo. Questa
accettazione delle regole della diversità in un ambito così problematico e
tanto costoso economicamente come quello della lingua (i traduttori simultanei
costano molto) ha dato un segno distintivo a Firenze, come lo aveva dato a Porto
Alegre e, se si consolida questa linea, è probabile che dovremmo fare un’incursione
strategica nell’arabo nel prossimo Forum Sociale del Mediterraneo, in modo che
si potrebbe ampliare in maniera esplosiva le adesioni da parte del dimenticato,
sconosciuto e maltrattato mondo arabo. Ma il fatto curioso è che questa
diversità linguisttica non ha impedito la comunicazione. Certamente, la
diversità obbliga ad imparare le lingue, certamente questo richiede uno sforzo
addizionale di traduzione simultanea, certamente sarebbe stato più economico
tradurre tutto in inglese; tuttavia lo sforzo ha meritato la pena, anche solo
per il potere simbolico delle mescolanze linguistiche. La multiculturalità ed
il plurilinguismo, che è una delle sue espressioni più dirette, hanno un’enorme
capacità di unire, di maggiore coesione e agibilità, di certificare una
diversità, di tradurla in creatività, una creatività che poi restituisce con
gli interessi tutto ciò che si è investito in essa. Ho sempre pensato che il
fallimento della transizione spagnola, il fallimento della costruzione di uno
spazio multiculturale, si debba all’incapacità degli Spagnoli delle zone solo
parlanti castigliano di apprendere le lingue, le lingue peninsulari e il Foro
Sociale Europeo non ha fatto che confermarmelo. Non esiste possiblità di
generare consensi senza distruggere il particolare, se non esiste una
disposizione di fondo a convivere con diverse lingue, e non solo la lingua
(naturalmente, l’inglese oltre al proprio).
Firenze ha generato consenso nonostante tutto, ma un consenso
che non ha nulla a che vedere con il “Consenso di Washington” basato sulla
omologazione imposta dalla società del denaro, sulla prepotenza dell’inglese
e sull’egemonia culturale dell’area anglosassone. La parola di moda lì,
sulla moquette dove dormivano i ragazzi arrivati da lontano con i sacchi a pelo,
pochi soldi e il loro incrollabile ottimismo è la parola “contagio”.
Contagio tra Paesi, culture e credi, contagio tra programmi marxisti e non
marxisti, tra il rosso del mondo del lavoro, il viola delle donne in lotta, il
giallo della diversità culturale e linguistica, il blu del movimento per la
pace e il verde dell’ecologismo. Contagio tra generazioni, tra tematiche e
discipline, tra sapienti e apprendisti, tra ascoltatori e oratori, contagio, e
contagio. La ripugnanza di fronte alla guerra, l’orrore per la politica di
Sharon, la sensazione che realmente il tempo preme per fare qualcosa per il
mondo, l’indignazione per il lavoro scarso e precario, tutto questo univa a
gente diversa senza bisogno di troppi accordi scritti. Gli unici accordi sono il
rifiuto della globalizzazione neoliberale, del razzismo e della guerra, così
come il rispetto di una serie di norme di funzionamento interno. Questa formula,
che nasconde cose molto più profonde che tutti conoscono, ma che ognuno può
interpretare a modo suo, sta permettendo di allargare rapidamente la rete di
partecipanti. Solo la pluralizzazione di modi di vita, di ambienti politici
mutevoli e di situazioni di diseguaglianza generati dalla crisi del fordismo e
dal “capitalismo flessibile” hanno potuto preparare il terreno per questa
impressionante esplosione di diversità.
[1] Elmar Altvater, nell’intervista con Joachim Bischoff e
Richard Detje in Sozialismus (nov. 2002, p.15).