Il movimento dei lavoratori davanti ai nuovi assetti capitalistici internazionali della competizione globale
Luciano Vasapollo
|
Stampa |
Per comprendere fino in fondo l’attuale fase della
competizione globale è determinante connetterla con l’analisi dell’organizzazione
del ciclo produttivo, delle caratteristiche del tessuto produttivo e sociale,
del ruolo dello Stato, dei rapporti tra le aree internazionali e della loro
struttura economica, degli interessi complessivi di dominio ed espansione che
determinano il conflitto interimperialistico. Tutte problematiche fortemente
connesse, spesso anzi dipendenti dall’epocale passaggio dall’era fordista a
quella cosiddetta postfordista [1].
Ripercorrendo molto schematicamente l’ultimo trentennio con
le connesse fasi politico-economiche risulta che già a partire dall’inizio
degli anni ’70 comincia a venir meno quel connubio fra sistema produttivo
fordista e modelli keynesiani attraverso i quali lo Stato realizzava un contesto
complessivo di mediazione, regolazione e compressione del conflitto sociale.
Si parla a tal proposito di messa in discussione della rigidità dei processi
di accumulazione proprio perché la crisi fordista è identificata dalla
rigidità degli investimenti e dell’innovazione tecnologica, da una rigidità
dei mercati di incetta e dei mercati di consumo. A ciò si aggiunge la rigidità
del mercato del lavoro, grazie anche alla forza espressa dal movimento operaio
tra la seconda metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70.
Tali “rigidità del sistema produttivo facevano sì che non
fosse più possibile il sostenimento della domanda attraverso la spesa pubblica
a causa di un restringimento della base fiscale. L’unica risposta fu allora
quella della politica monetaria caratterizzata da linee inflattive.
Si interrompevano, così, i processi di crescita del
dopoguerra in un contesto di sviluppo economico che vedeva nuovi processi di
concorrenza internazionale e il venir meno del ruolo dello Stato keynesiano. L’intenso
processo di industrializzazione fordista si sposta allora, verso nuovi mercati,
specialmente del Sud-Est asiatico, aumentando la competizione internazionale e
mettendo in discussione la leadership statunitense.
Nel 1973 l’innalzamento dei prezzi del petrolio, il primo
shock petrolifero e le politiche di controllo dell’inflazione evidenziano
difficoltà finanziarie e un’eccedenza di capacità produttiva nei paesi a
capitalismo avanzato; tutto ciò metteva fortemente in crisi i processi di
accumulazione capitalistica dell’era fordista.
Si delineano di conseguenza strategie di sopravvivenza
aziendale e capitalistica in una situazione di forte deflazione (1973-75); l’uscita
dalla stagflazione identifica processi che mettono fortemente in discussione il
compromesso fordista-keynesiano. Da allora iniziano le innovazioni nell’organizzazione
industriale, l’intensificazione dell’innovazione tecnologica e dei modelli
di automazione, i processi di delocalizzazione produttiva, i grandi piani di
acquisizioni e fusioni, la nuova progettualità complessiva per l’accelerazione
dei tempi di rotazione del capitale. Insomma forti innovazioni di processo e di
prodotto che si accompagnano ad un diverso sistema statuale-istituzionale di
mediazione politico-sociale che ha come obiettivo il controllo estremo della
conflittualità dei lavoratori e dell’antagonismo sociale in genere.
Tali processi hanno bisogno di un diverso modo di realizzare
il ciclo produttivo, di un diverso modo di rapportarsi alla forza-lavoro, di un
diverso modo di interpretare le dinamiche spaziali della produzione. E tutto
ciò è possibile attraverso un ruolo diverso dello Stato nel veicolare
complessivamente una nuova specifica ideologia per l’attuale ciclo dell’accumulazione
flessibile. È così che le rigidità dell’ultima fase fordista debbono
trasformarsi in flessibilità dei processi produttivi, flessibilità dei mercati
del lavoro, flessibilità della domanda. Tutto ciò in funzione tale che le
minacce da parte dei movimenti dei lavoratori all’ordine sociale capitalista,
e i periodi di crisi dovuti a processi di sovraccumulazione, potessero essere
assorbiti, o perlomeno contenuti e gestiti.
Negli anni ‘80 si è verificato un sostanziale cambiamento
nella durata dei cicli economici, cioè dal momento dell’inizio della fase di
recessione all’altra. Si rileva infatti che, mentre nel periodo seguito alla
seconda guerra mondiale il ciclo economico si caratterizzava per una durata di
circa cinque anni, dal 1980 in poi la distanza tra due periodi di recessione si
è allungata a oltre 10 anni, anche se la ripresa economica nel senso di vera e
propria espansione ha poi stentato a realizzarsi. Al contempo si è cercato
così di “snellire” le imprese pubbliche e private per attuare una “produzione
snella”.
In tale scenario si sviluppa il quadro macroeconomico
mondiale degli anni ‘90, (in particolare la seconda metà), contemporaneamente
caratterizzato da tassi di crescita molto deboli del PIL, compresi i paesi come
il Giappone che hanno svolto una funzione trainante nei confronti del resto dell’economia
mondiale. Una deflazione crescente; una congiuntura mondiale estremamente
instabile, inframmezzata da sussulti monetari e finanziari; aumento di
investimenti, in particolare di carattere finanziario, che si è accompagnato
alla crescita della disoccupazione di massa e alla sua natura tecnologica e
strutturale. Il tutto coniugato al contenimento dei salari reali, da alta
flessibilità e precarizzazione del lavoro e da condizioni del lavoro medievali
in molti paesi in cui la manodopera viene sfruttata all’estremo.
Si determina così l’accentuarsi delle disuguaglianze di
reddito e di condizioni di vita all’interno anche dei paesi a capitalismo
maturo. A ciò continua ad accompagnarsi la marginalizzazione di intere regioni
del globo dal sistema di scambi e una concorrenza internazionale sempre più
intensa. Nel caso dei paesi OCSE, circa i tre quarti delle operazioni di
investimento all’estero hanno preso la forma di operazioni di acquisizione e
di fusione di imprese esistenti, ovvero di cambiamento di proprietà del
capitale esistente, spesso seguiti da ristrutturazione di processo e di
prodotto, che hanno determinato disoccupazione senza creazione di mezzi di
produzione nuovi; e laddove ci sono stati investimenti produttivi questi non
hanno necessariamente diminuito la disoccupazione, anzi il contrario. In molti
mercati, i tassi di concentrazione mondiale sono dunque analoghi a quelli di
trent’anni fa, tipici delle economie chiuse.
Ma è proprio in questo quadro che si inserisce la linea
portante della cosiddetta fase dell’accumulazione flessibile, cioè la
completa riorganizzazione e deregolamentazione soprattutto del sistema
finanziario mondiale con innovazioni di strumenti, di mercati, di intermediari e
con una differenziazione e un decentramento territoriale dei flussi finanziari.
Tutto ciò ha evidenziato la necessità della strutturazione di un unico mercato
mondiale finanziario e creditizio, anche se telematico e virtuale, facendo
emergere i grandi conglomerati finanziari con un ruolo centrale degli
investitori istituzionali. Il contenuto effettivo della cosiddetta
globalizzazione è dato, pertanto, non dalla mondializzazione degli scambi, ma
da quella delle operazioni del capitale, tanto sotto la forma industriale che
finanziaria.
È quindi evidente che il contesto complessivo della
cosiddetta globalizzazione si è sempre più legato alla dinamica specifica
della sfera finanziaria, la cui crescita a ritmi qualitativamente superiori a
quelli degli investimenti produttivi, del PIL o degli scambi, sono stati il
fattore che ha maggiormente sconvolto la situazione economica, a partire in
particolare dagli anni ‘80. A risentirne sono stati i paesi in particolare
delle aree a basso e medio livello di sviluppo, soprattutto dell’Europa dell’Est
e dell’Asia centrale, zone ricche di risorse petrolifere e di gas. Intere aree
che ormai devono affrontare questi problemi sotto il ricatto di una guerra
economica, e non solo, fra USA e UE.
Sono comunque questi due ultimi blocchi economici che
impongono gravi costrizioni dovute al peso schiacciante del debito contratto dai
paesi dipendenti. È proprio agli USA e ai paesi UE che (vedi da ultima la
situazione in Argentina) si devono pagare in interessi più di quello che si è
ricevuto in prestiti, donazioni, investimenti. E il pagamento di un debito così
cospicuo costringe i paesi del Terzo Mondo a saccheggiare le foreste, svendere
le materie prime, supersfruttare e distruggere il patrimonio ambientale; in
genere a sottostare ad accordi neoliberisti e a privatizzazioni, a standard
sociali minimi, tali da attirare gli investitori stranieri.
La mancata ripresa dell’economia soprattutto dagli anni ’90
in poi, è anche dovuta alla contrazione della domanda dovuta sempre più anche
all’estrema disuguaglianza economica e sociale, allargando la forbice di
condizioni tra ricchi e poveri. Si tratta di una ulteriore prova del fallimento
del mercato che, lasciato libero a se stesso, accentua sempre più le distanze
esistenti tra le classi sociali.
È in tale quadro storico politico-economico che vanno
interpretate le caratteristiche principali del postfordismo incentrato sul
paradigma dell’accumulazione flessibile. Caratteristiche che comunque si
possono schematizzare con: una specializzazione flessibile, la volatilità dei
mercati, la riduzione sostanziale della funzione di regolazione economica dello
Stato-nazione e l’individualizzazione dei rapporti di lavoro.
Parlare attualmente di era postfordista non significa che non
sussistano ancora elementi tipici dei processi fordisti, anzi. Il cosiddetto
modello postfordista tipico dell’area centrale dei paesi a capitalismo
avanzato convive con un tipico modello ancora fordista della periferia e
addirittura con modelli schiavistici dei paesi dell’estrema periferia (dove
per estrema periferia si intendono anche alcune aree marginali del centro nei
paesi a capitalismo avanzato). Tutto ciò perché oggi convivono le diverse
facce di uno stesso modo di produzione capitalistico, anche se lo si vuole
identificare come l’era della “New e Net Economy” e del paradigma dell’accumulazione
flessibile. È comunque una fase in cui si determina sempre più una crescita
distruttiva senza alcuna forma di sviluppo sociale e di civiltà.
Il processo che ha caratterizzato lo sviluppo industriale
degli ultimi 25 anni nei paesi a capitalismo maturo è stato, infatti,
contraddistinto quasi sempre e, anche se in modo diversificato, ovunque da un
forte aumento della produttività del lavoro, a cui è corrisposto un risparmio
di lavoro che eccede decisamente la creazione di nuove opportunità
occupazionali. In effetti gli incrementi massicci di produttività, dovuta ad
intensi processi di innovazione tecnologica e ad una conseguente ridefinizione
del mercato del lavoro, hanno fatto sì che tali incrementi si traducessero
esclusivamente in aumenti vertiginosi dei profitti e delle varie forme di
remunerazione del fattore produttivo capitale. Il fattore lavoro non ha avuto
alcun tipo di beneficio in termini di redistribuzione reale di tali incrementi
di produttività. Infatti, non si è realizzato incremento occupazionale, né
corrispondenti incrementi nell’andamento dei salari reali, né tanto meno
relativi andamenti decrescenti nell’orario di lavoro ed, infine, neppure il
mantenimento dei precedenti livelli di salario indiretto quantificabili
attraverso la spesa sociale complessiva.
La fase della nuova globalizzazione ha significato, quindi,
dominio delle Borse e della finanziarizzazione dell’economia, in conflitto con
qualsiasi forma di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni,
ostacolando la libertà di scelta e allargamento dei diritti universali. Questo
concretamente è il concetto di modernità del capitalismo selvaggio anche se si
tenta di plasmarlo su toni più moderati ed equilibrati con irreali ipotesi di
mercato sociale.
Il principio che guida questa fase è basato sul fatto che è
la domanda a fissare la produzione in relazione a modelli di efficienza
produttiva e sfrenata concorrenza, anche se spesso imperfetta. Ne segue che la
concorrenza si basa sempre più sulla qualità del prodotto, la qualità del
lavoro, con un nuovo ruolo assegnato al cosiddetto capitale umano, al capitale
intellettuale, in un modello sempre più caratterizzato da risorse immateriali
del capitale intangibile, dal capitale informazione messo direttamente a
produzione.
Una strutturazione del capitale che si accompagna al lavoro
manuale sottopagato, delocalizzato e sempre più spesso non regolamentato, a
flessibilità imposta e precarizzazione del lavoro e dell’intero vivere
sociale, a servizi esternalizzati e a scarso contenuto di garanzie che ne
permettono l’uso, e non più sulle connessioni fra quantità prodotta e prezzo
(elementi tipici del fordismo).
Tutto ciò perché oggi convivono le diverse facce di uno
stesso modo di produzione capitalistico basato sull’estorsione di plusvalore e
pluslavoro. Si sviluppano e si rafforzano così, forti processi consociativi e
di compressione del conflitto funzionali alla società del sistema di
flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, di terziarizzazione e di
finanziarizzazione, della privatizzazione delle imprese pubbliche, dei servizi
demolendo il welfare, delle delocalizzazioni ed esternalizzazioni produttive e
di accorciamento delle entità spazio-temporali nel mondo capitalistico. Andando
così ad incidere sul contesto sociale che viene sempre di più messo
direttamente a produzione, aziendalizzato. È l’insieme di tutto ciò che
contraddistingue in pratica la forte ripresa di posizioni, quindi di potere, del
capitale rispetto al lavoro.
La generalizzazione e globalizzazione del capitalismo
selvaggio, tipico del modello americano-anglosassone, continuano a far ritenere
gli USA riferimento centrale di uno sviluppo mondiale a guida unipolare, in
particolare dagli ultimi anni ‘80, con la fine dell’URSS. La nuova fase di
globalizzazione coincide proprio con una nuova era a guida unipolare del mondo,
in particolare dagli ultimi anni ‘80 a metà degli anni ‘90.
2. L’apparente configurazione del capitale mondializzato nello scontro
tra blocchi economici
La liberalizzazione degli scambi, insieme alla
deregolamentazione e allo smantellamento della legislazione a tutela dei salari,
ha permesso ai gruppi delle multinazionali, in particolare americane, di
sfruttare simultaneamente i vantaggi della libera circolazione delle merci e
delle forti disparità tra i paesi, le regioni o i luoghi situati anche all’interno
delle stesse grandi aree economiche occidentali. La politica economica determina
sempre più scelte monetariste e neoliberiste, lasciando intatte le cause
profonde che originano gli squilibri della struttura produttiva, approfondendo
il deficit commerciale. Seguendo le indicazioni della Banca Mondiale e del Fondo
Monetario Internazionale, numerosi governi dei paesi dipendenti (vedi da ultimi
Messico, Brasile, Indonesia, Malesia, Russia, Argentina, ecc.) continuano ad
applicare politiche non di semplice congiuntura ma sempre più invece di
carattere strutturale e di apertura commerciale dipendente accelerata, con
privatizzazione delle imprese statali e la deregulation economica. Si realizzano
così politiche economiche che hanno come prime ripercussioni l’abbassamento
dei salari reali, le privatizzazioni di imprese e delle diverse forme di Welfare
State, l’aumento della disoccupazione, la deindustrializzazione senza
investimenti reali e produttivi finanziati da capitale interno e, quindi, l’ampliamento
della dipendenza dai due grandi blocchi economici occidentali USA e UE. La
configurazione e le modalità d’uso, a finalità di controllo sociale
complessivo, del capitale privato mondializzato non ha smesso di modificarsi e
oggi si indirizza sempre più a favore di istituzioni finanziarie non bancarie
legate alle multinazionali, in un perverso legame fra capitale finanziario e
capitale produttivo (che si configura sempre più nelle dinamiche degli
investimenti diretti esteri).
Si realizza, così, una mondializzazione finanziaria e
produttiva a quasi esclusivo dominio USA e UE, in cui gli squilibri
economico-produttivi si acuiscono progressivamente. Si realizza, allo stesso
modo, un processo profondo di modificazione e di distribuzione del reddito in
favore dei redditi finanziari e comunque del capitale (profitti industriali che
vanno a rendita per poi tornare a profitti), strozzando definitivamente non solo
i paesi del Terzo Mondo ma soprattutto quelli a medio livello di sviluppo. Nell’ambito
dei processi di ridefinizione delle aree di influenza dei poli geoeconomici, il
controllo delle risorse materiali (petrolio, gas, metano, minerali preziosi,
ecc.) e del capitale umano (lavoratori specializzati a basso costo e con minimi
livelli di diritti) delle regioni a medio livello di sviluppo diventa, pertanto,
motivo forte e strategico di contesa nella competizione globale. La dinamica
geografica dei flussi degli investimenti diretti esteri (IDE) ha, infatti,
rappresentato negli anni ‘90 lo strumento principale del paradigma della
stabilità “politico-economica globale”, rimettendo in parte al centro dell’iniziativa
capitalistica l’investimento produttivo che non può rimanere del tutto
subordinato alle dinamiche della finanziarizzazione. Infatti, la sfera
finanziaria si alimenta proprio della ricchezza creata dagli investimenti
produttivi nei paesi a medio livello di sviluppo, tra i quali centrali sono
quelli dell’Eurasia. Investimenti in quest’area significano profitti per le
multinazionali, accaparramento di risorse primarie e di capitale umano a basso
prezzo e a buona specializzazione, controllo del petrolio, delle materie prime e
delle fonti di energia, determinazione della valuta di quotazione dei barili di
petrolio e, quindi, determinazione della valuta che giocherà in futuro il ruolo
di riserva internazionale. Significa, cioè, profitti e capitali immediatamente
disponibili per gli operatori finanziari, istituzionali e non, per le
speculazioni internazionali e capitali industriali produttivi pronti a processi
sfrenati di sfruttamento. Si tratta delle due facce del capitale internazionale
che ha comunque carattere destabilizzante per i paesi poveri e a medio livello
di sviluppo, sottoposti all’aggressione economica, finanziaria e
militare.
[1] Per approfondimenti sugli argomenti trattati
sinteticamente su questo articolo si possono vedere tra gli altri: Martufi R.,
Vasapollo L. “EuroBang. La sfida del polo europeo nella competizione globale:
inchiesta su lavoro e capitale”, Mediaprint Ediz., Roma 2000; Cararo
S.,Casadio M., Martufi R.,Vasapollo L., Viola F., “No Made Italy. Eurobang 2.
La multinazionale italia e i lavoratori nella competizione globale, Mediaprint
Ediz., Roma 2001; Cararo S.,Casadio M., Martufi R.,Vasapollo L., Viola F., “La
Coscienza di Cipputi. EuroBang 3. Lavoro: soggetti e progetti”, Mediaprint
Ediz., Roma 2002.