Riprendiamo con questo numero un’inchiesta cara a
CESTES-PROTEO per analizzare più in profondità e meglio e far conoscere ai
lettori il nuovo mercato del lavoro e come esso ruota intorno al reale mondo del
lavoro.
È nostra intenzione analizzare i vari aspetti legati alla
disoccupazione e il suo rapporto con l’occupazione “flessibile e alternativa”
che a detta della Confindustria, del Governo e dei sindacati concertativi
dovrebbe essere “la panacea di tutti i mali”.
È possibile risolvere il problema della disoccupazione con l’introduzione
di nuove forme di lavoro cosiddetto atipico, ossia flessibile e precario? È
possibile risolvere i problemi di sussistenza e di qualità della vita a tutti
coloro che vivono quasi al di sotto della soglia di povertà per mancanza di
reddito attraverso lavori temporanei, precari, atipici in genere e con poche o
senza garanzie salariali e normative?
Il concetto di flessibilità del lavoro, l’idea che occorre
abbandonare il modello del “posto fisso”, sono ormai entrati nel nostro
quotidiano e molti economisti e studiosi si affannano a dichiarare che solo con
un veloce interscambio dei posti e luoghi di lavoro sarà possibile adattarsi
alle nuove regole che la “globalizzazione” e il nuovo paradigma
socio-economico-produttivo impongono.
Ma sarà proprio così?
L’esigenza di una diversa approfondita analisi-inchiesta di
classe incentrata sulla composizione della soggettualità del lavoro e del non
lavoro a caratterizzazione territoriale, nasce dalla constatazione che lo
sviluppo socio-economico è stato caratterizzato da una specifica dinamica
delle forme di accumulazione del capitale determinate dai processi di
ristrutturazione e di collocazione internazionale del capitalismo nell’era
della competizione globale. L’aspetto territoriale-settoriale assume un ruolo
sempre più determinante con il passaggio da una produzione di massa,
concentrata, ad una di tipo flessibile e diffusa basata nel contempo sulla mobilità,
flessibilità e precarizzazione della forza lavoro. È solo così che si
può dare una corretta interpretazione dello sviluppo delle forze produttive,
dei mutamenti dei rapporti di forza capitale-lavoro e delle continue evoluzioni
nella composizione di classe relativamente ad un dato livello di sviluppo.
1. La ristrutturazione di impresa e di modello produttivo nella cosiddetta
Era Postfordista
Per comprendere l’attuale fase della competizione globale
è necessario connetterla con l’analisi dell’organizzazione del ciclo
produttivo, delle caratteristiche del tessuto produttivo e sociale, del ruolo
dello Stato, dei rapporti tra le aree internazionali e della loro struttura
economica, degli interessi complessivi di dominio ed espansione che determinano
il conflitto globale fra imprese e poli geoeconomici. Tutte problematiche
fortemente connesse, spesso anzi dipendenti dall’epocale passaggio dall’era
fordista a quella cosiddetta postfordista. Ci troviamo in una fase di
transizione dal fordismo al postfordismo, dalla produzione-consumo di massa di
sistemi di produzione alla distribuzione flessibile. L’entrata della
comunicazione, del linguaggio, nella sfera della produzione è l’origine vera
e propria della svolta economica e produttiva che stiamo vivendo. Vi sono stati
negli ultimi anni ristrutturazioni di impresa, innovazioni tecnologiche che
invece di creare nuova occupazione hanno realizzato meno posti di lavoro dei
licenziamenti effettuati. Una realtà senza analogie con il passato, che ha
portato la disoccupazione a divenire uno dei fenomeni più drammatici del nostro
tempo con caratteristiche sempre meno congiunturali assumendo forti connotati
strutturali.
Questo anche perché, molte imprese, per ridurre il peso
degli oneri sociali e ridurre il costo del lavoro utilizzano sempre più il
cosiddetto “outsourcing”, ossia l’esternalizzazione di fasi e di
interi processi produttivi per accrescere l’efficienza e la produttività dell’impresa
e diminuire i costi. Domina la “produzione snella” che permette di
realizzare subito alti profitti. Per far essere questo sistema sempre più
efficace le imprese si organizzano con tecniche e tecnologie nuove che
incrementano la parte del ciclo produttivo che viene decentrato all’esterno
dando così risposta in tempi sempre più brevi alle oscillazioni della domanda,
delle richieste dei clienti-consumatori.
Si tenta sempre più di limitare costi superflui e di
accumulare scorte eccessive, si diffonde il just in time, ossia il
lavoro, la produzione in tempo reale flessibile al massimo. Questa è
sicuramente la diversità maggiore con la produzione fordista, nella quale tempi
e modi di produzione erano programmati.
La comunicazione, il linguaggio sono entrati ormai nella
sfera della produzione. L’entrata della comunicazione nei processi di
produzione è definita dal fatto che l’impresa deve aumentare il rendimento
senza aumentare la quantità. I guadagni di produttività non si realizzano più
attraverso le economie di scala ma attraverso la produzione di piccole quantità
di molti modelli di prodotto con la possibilità di avere una risposta rapida
alle continue variazioni del mercato. È il comando sui processi di
globalizzazione delle reti informatico-comunicative che deciderà della nuova
divisione internazionale del potere e della ricchezza. L’informazione permette
di assicurare una migliore e tempestiva trasmissione dei segnali: è il
fondamento delle nuove tecnologie produttive. L’economia postfordista ha come
fondamenti della produzione la connessione, l’integrazione e la simultaneità,
al posto della separazione, segmentazione e fasi sequenziali. In questo modo nel
modello postfordista la produzione non ha né inizio né fine in fabbrica, ma
inizia e termina fuori.
La delocalizzazione, poi, implica un minor costo del lavoro
nel paese destinatario; prezzi delle materie prime più vantaggiose, migliori
trattamenti fiscali, leggi ambientali meno restrittive, sindacati più
accondiscendenti, ecc.
Il sistema di produzione postfordista rimanda al massimo all’apertura
dei mercati, con la conseguente globalizzazione delle imprese, o meglio di una
mondializzazione economico-produttiva alla continua ricerca di costi di lavoro
più bassi e di posizioni di efficienza strategica sui mercati esteri. Un
mercato saturo oltre a creare una concorrenza feroce all’interno del singolo
paese, la crea anche in campo internazionale.
La “globalizzazione” delle imprese consente di soddisfare
il cambiamento della domanda interna di ogni paese con un’offerta mondiale, e
quindi la capacità nazionale di produzione non ha più il precedente
significato operativo. Anche la definizione di produttività in termini di output
per ore di lavoro non è più adatta all’attuale fase economico-produttiva. La
stessa crisi degli indicatori economici è sintomatica della mondializzazione
non solo dei processi produttivi dell’offerta ma anche della domanda di beni e
servizi.
La diffusione del postfordismo impone oltre che nuove regole
economiche anche una nuova ridefinizione dello Stato e del suo rapporto con il
mercato. Lo Stato sociale diventa per il capitalista postfordista un fattore di
impedimento da eliminare. La mondializzazione dell’economia aggiunge un
ulteriore elemento alla delegittimazione del ruolo economico dello Stato.
Fonti confindustriali, governative e di gran parte dell’opposizione
sostengono che lo Stato sociale è il maggiore responsabile della
disoccupazione; uno sguardo alle statistiche però, segnala che non c’è
relazione tra disoccupazione e spesa per lo Stato sociale in quanto non è vero
che più alta è la spesa sociale e maggiore è il tasso di disoccupazione.
La disoccupazione non è causata dalla maggiore presenza di
macchine nel modo di produzione ma dalla scelta neoliberista di non trasformare
la grande quantità di lavoro necessaria in occupazione stabile e protetta; si
vedano ad esempio le privatizzazioni sempre accompagnate da rilevanti tagli di
personale e da forte abbattimento del costo del lavoro.
La fabbrica diventa minimalista perché tutto ciò che supera
la capacità di assorbimento del mercato deve essere soppresso. È per questo
che un’altra fondamentale differenza tra il modo di produrre
fordista-taylorista e postfordista è che mentre nel primo la forza-lavoro deve
essere specializzata, alienata al lavoro sempre uguale, nel postfordismo, invece
vi è necessità di un lavoratore con alto grado di adattabilità ai mutamenti
di ritmo, di mansione, di ruolo. Questo porta anche ad un’altro importante
cambiamento; nel sistema fordista, i diritti sociali dei lavoratori avevano una
validità universale e venivano protetti da leggi, mentre in quello
postfordista, questi diritti sembrano scomparire. Questo perché quando sono le
leggi del mercato a ordinare, ad imporre qualità e quantità in tempo reale, il
lavoro diviene sempre più costrittivo, destinato all’obbedienza e alla
fedeltà.
Ad esempio negli Stati Uniti l’assenza di norme regolatrici
nei rapporti di lavoro e di sistemi di rappresentanza dei lavoratori ha favorito
la creazione di una quantità di posti di lavoro precari che in Europa, “a
causa” della rete di protezione sociale ereditata dal fordismo, non si riesce
ancora a portare a quei livelli. Va sottolineato però che negli USA, a fronte
di una minore disoccupazione, vi sono altissimi tassi di lavori e salari
precari, quindi di maggiore povertà rispetto ai paesi europei e al Giappone.
Anche in Europa ci si sta muovendo verso il modello americano, cioè verso gli
assetti del modello anglosassone di capitalismo selvaggio.
La nuova organizzazione capitalistica del lavoro si
caratterizza sempre più con l’esplosione della precarietà, della
flessibilità, della deregolamentazione, sotto forme senza precedenti per i
salariati in attività. È il disagio del lavoro, con la paura di perdere il
proprio impiego, di non avere più una vita sociale, anzi di impiegarla tutta al
e per il lavoro, con l’angoscia legata alla consapevolezza di un’evoluzione
tecnologica che non risolve i bisogni sociali. È la precarizzazione dell’intero
vivere sociale.
La flessibilità è vista come una delle alternative per
combattere la disoccupazione. Ma cosa si intende per flessibilità? Le
definizioni sono molte.
Va effettuata una distinzione tra flessibilità
salariale,flessibilità di orario e flessibilità numerica (o esterna); vi è
poi la flessibilità funzionale (od organizzativa).
Flessibilità ad esempio è:
• Libertà per un’impresa di licenziare una parte di
dipendenti, senza penalità, quando produzione e vendite diminuiscono.
• Libertà per l’impresa, quando l’andamento della
produzione ne abbia bisogno, di ridurre l’orario di lavoro o di ricorrere
allo straordinario, ripetutamente e con poco o breve preavviso.
• Facoltà per un’impresa di pagare salari reali più
bassi, a parità di lavoro, sia per rimediare a cadute temporanee degli affari
sia per allinearsi alla competizione internazionale.
• Opportunità per l’impresa di suddividere il lavoro
nel giorno e nella settimana a proprio piacimento, cambiando gli orari e le
tipologie (lavoro a turni, a scaglioni, a tempo parziale, orario flessibile,
ecc.)
• Libertà per un’impresa di trasferire i dipendenti in
diverse unità produttive, reparti, ecc., senza nessuna possibilità di
opposizione da parte dei lavoratori.
• Capacità di un’impresa, di affidare parti della
propria attività a ditte esterne.
• Possibilità per un’impresa di utilizzare lavoratori
in affitto (lavoro interinale), lavoratori a tempo parziale, tecnici assunti a
tempo determinato, tirocinanti, apprendisti, parasubordinati e altre figure
emergenti del lavoro “atipico”, diminuendo il personale assunto con
contratto a orario pieno e tempo indeterminato, anche al di sotto del 20%.
La flessibilizzazione non è una soluzione per aumentare l’occupazione
ma una imposizione alla forza-lavoro per l’accettazione di salari reali più
bassi e di peggiori condizioni di lavoro.
Ed in questo quadro si è rafforzato un nuovo segmento dell’offerta
di lavoro attraverso il cosiddetto mercato sommerso nel quale si diffonde
il lavoro irregolare, precario e privo di garanzie. Con il postfordismo e la
mondializzazione economico-produttiva, il lavoro “sommerso” ha assunto delle
dimensioni molto più grandi, anche perché i paesi industrializzati hanno
spostato le proprie produzioni più in là dei confini nazionali e soprattutto
hanno investito in paesi dove minime sono le garanzie, alta è la
specializzazione del lavoro, producendo così a costi fondamentalmente meno
elevati, aumentando la competitività.