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L’analisi-inchiesta

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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per Proteo (36)

Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Analisi-inchiesta: lavoro che cambia, lavoro che non c’è. Lavoro precario o lavoro vero?
Rita Martufi, Luciano Vasapollo

 

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Analisi-inchiesta: lavoro che cambia, lavoro che non c’è. Lavoro precario o lavoro vero?

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

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Riprendiamo con questo numero un’inchiesta cara a CESTES-PROTEO per analizzare più in profondità e meglio e far conoscere ai lettori il nuovo mercato del lavoro e come esso ruota intorno al reale mondo del lavoro.

È nostra intenzione analizzare i vari aspetti legati alla disoccupazione e il suo rapporto con l’occupazione “flessibile e alternativa” che a detta della Confindustria, del Governo e dei sindacati concertativi dovrebbe essere “la panacea di tutti i mali”.

È possibile risolvere il problema della disoccupazione con l’introduzione di nuove forme di lavoro cosiddetto atipico, ossia flessibile e precario? È possibile risolvere i problemi di sussistenza e di qualità della vita a tutti coloro che vivono quasi al di sotto della soglia di povertà per mancanza di reddito attraverso lavori temporanei, precari, atipici in genere e con poche o senza garanzie salariali e normative?

Il concetto di flessibilità del lavoro, l’idea che occorre abbandonare il modello del “posto fisso”, sono ormai entrati nel nostro quotidiano e molti economisti e studiosi si affannano a dichiarare che solo con un veloce interscambio dei posti e luoghi di lavoro sarà possibile adattarsi alle nuove regole che la “globalizzazione” e il nuovo paradigma socio-economico-produttivo impongono.

Ma sarà proprio così?

L’esigenza di una diversa approfondita analisi-inchiesta di classe incentrata sulla composizione della soggettualità del lavoro e del non lavoro a caratterizzazione territoriale, nasce dalla constatazione che lo sviluppo socio-economico è stato caratterizzato da una specifica dinamica delle forme di accumulazione del capitale determinate dai processi di ristrutturazione e di collocazione internazionale del capitalismo nell’era della competizione globale. L’aspetto territoriale-settoriale assume un ruolo sempre più determinante con il passaggio da una produzione di massa, concentrata, ad una di tipo flessibile e diffusa basata nel contempo sulla mobilità, flessibilità e precarizzazione della forza lavoro. È solo così che si può dare una corretta interpretazione dello sviluppo delle forze produttive, dei mutamenti dei rapporti di forza capitale-lavoro e delle continue evoluzioni nella composizione di classe relativamente ad un dato livello di sviluppo.

1. La ristrutturazione di impresa e di modello produttivo nella cosiddetta Era Postfordista

Per comprendere l’attuale fase della competizione globale è necessario connetterla con l’analisi dell’organizzazione del ciclo produttivo, delle caratteristiche del tessuto produttivo e sociale, del ruolo dello Stato, dei rapporti tra le aree internazionali e della loro struttura economica, degli interessi complessivi di dominio ed espansione che determinano il conflitto globale fra imprese e poli geoeconomici. Tutte problematiche fortemente connesse, spesso anzi dipendenti dall’epocale passaggio dall’era fordista a quella cosiddetta postfordista. Ci troviamo in una fase di transizione dal fordismo al postfordismo, dalla produzione-consumo di massa di sistemi di produzione alla distribuzione flessibile. L’entrata della comunicazione, del linguaggio, nella sfera della produzione è l’origine vera e propria della svolta economica e produttiva che stiamo vivendo. Vi sono stati negli ultimi anni ristrutturazioni di impresa, innovazioni tecnologiche che invece di creare nuova occupazione hanno realizzato meno posti di lavoro dei licenziamenti effettuati. Una realtà senza analogie con il passato, che ha portato la disoccupazione a divenire uno dei fenomeni più drammatici del nostro tempo con caratteristiche sempre meno congiunturali assumendo forti connotati strutturali.

Questo anche perché, molte imprese, per ridurre il peso degli oneri sociali e ridurre il costo del lavoro utilizzano sempre più il cosiddetto “outsourcing”, ossia l’esternalizzazione di fasi e di interi processi produttivi per accrescere l’efficienza e la produttività dell’impresa e diminuire i costi. Domina la “produzione snella” che permette di realizzare subito alti profitti. Per far essere questo sistema sempre più efficace le imprese si organizzano con tecniche e tecnologie nuove che incrementano la parte del ciclo produttivo che viene decentrato all’esterno dando così risposta in tempi sempre più brevi alle oscillazioni della domanda, delle richieste dei clienti-consumatori.

Si tenta sempre più di limitare costi superflui e di accumulare scorte eccessive, si diffonde il just in time, ossia il lavoro, la produzione in tempo reale flessibile al massimo. Questa è sicuramente la diversità maggiore con la produzione fordista, nella quale tempi e modi di produzione erano programmati.

La comunicazione, il linguaggio sono entrati ormai nella sfera della produzione. L’entrata della comunicazione nei processi di produzione è definita dal fatto che l’impresa deve aumentare il rendimento senza aumentare la quantità. I guadagni di produttività non si realizzano più attraverso le economie di scala ma attraverso la produzione di piccole quantità di molti modelli di prodotto con la possibilità di avere una risposta rapida alle continue variazioni del mercato. È il comando sui processi di globalizzazione delle reti informatico-comunicative che deciderà della nuova divisione internazionale del potere e della ricchezza. L’informazione permette di assicurare una migliore e tempestiva trasmissione dei segnali: è il fondamento delle nuove tecnologie produttive. L’economia postfordista ha come fondamenti della produzione la connessione, l’integrazione e la simultaneità, al posto della separazione, segmentazione e fasi sequenziali. In questo modo nel modello postfordista la produzione non ha né inizio né fine in fabbrica, ma inizia e termina fuori.

La delocalizzazione, poi, implica un minor costo del lavoro nel paese destinatario; prezzi delle materie prime più vantaggiose, migliori trattamenti fiscali, leggi ambientali meno restrittive, sindacati più accondiscendenti, ecc.

Il sistema di produzione postfordista rimanda al massimo all’apertura dei mercati, con la conseguente globalizzazione delle imprese, o meglio di una mondializzazione economico-produttiva alla continua ricerca di costi di lavoro più bassi e di posizioni di efficienza strategica sui mercati esteri. Un mercato saturo oltre a creare una concorrenza feroce all’interno del singolo paese, la crea anche in campo internazionale.

La “globalizzazione” delle imprese consente di soddisfare il cambiamento della domanda interna di ogni paese con un’offerta mondiale, e quindi la capacità nazionale di produzione non ha più il precedente significato operativo. Anche la definizione di produttività in termini di output per ore di lavoro non è più adatta all’attuale fase economico-produttiva. La stessa crisi degli indicatori economici è sintomatica della mondializzazione non solo dei processi produttivi dell’offerta ma anche della domanda di beni e servizi.

La diffusione del postfordismo impone oltre che nuove regole economiche anche una nuova ridefinizione dello Stato e del suo rapporto con il mercato. Lo Stato sociale diventa per il capitalista postfordista un fattore di impedimento da eliminare. La mondializzazione dell’economia aggiunge un ulteriore elemento alla delegittimazione del ruolo economico dello Stato.

Fonti confindustriali, governative e di gran parte dell’opposizione sostengono che lo Stato sociale è il maggiore responsabile della disoccupazione; uno sguardo alle statistiche però, segnala che non c’è relazione tra disoccupazione e spesa per lo Stato sociale in quanto non è vero che più alta è la spesa sociale e maggiore è il tasso di disoccupazione.

La disoccupazione non è causata dalla maggiore presenza di macchine nel modo di produzione ma dalla scelta neoliberista di non trasformare la grande quantità di lavoro necessaria in occupazione stabile e protetta; si vedano ad esempio le privatizzazioni sempre accompagnate da rilevanti tagli di personale e da forte abbattimento del costo del lavoro.

La fabbrica diventa minimalista perché tutto ciò che supera la capacità di assorbimento del mercato deve essere soppresso. È per questo che un’altra fondamentale differenza tra il modo di produrre fordista-taylorista e postfordista è che mentre nel primo la forza-lavoro deve essere specializzata, alienata al lavoro sempre uguale, nel postfordismo, invece vi è necessità di un lavoratore con alto grado di adattabilità ai mutamenti di ritmo, di mansione, di ruolo. Questo porta anche ad un’altro importante cambiamento; nel sistema fordista, i diritti sociali dei lavoratori avevano una validità universale e venivano protetti da leggi, mentre in quello postfordista, questi diritti sembrano scomparire. Questo perché quando sono le leggi del mercato a ordinare, ad imporre qualità e quantità in tempo reale, il lavoro diviene sempre più costrittivo, destinato all’obbedienza e alla fedeltà.

Ad esempio negli Stati Uniti l’assenza di norme regolatrici nei rapporti di lavoro e di sistemi di rappresentanza dei lavoratori ha favorito la creazione di una quantità di posti di lavoro precari che in Europa, “a causa” della rete di protezione sociale ereditata dal fordismo, non si riesce ancora a portare a quei livelli. Va sottolineato però che negli USA, a fronte di una minore disoccupazione, vi sono altissimi tassi di lavori e salari precari, quindi di maggiore povertà rispetto ai paesi europei e al Giappone. Anche in Europa ci si sta muovendo verso il modello americano, cioè verso gli assetti del modello anglosassone di capitalismo selvaggio.

La nuova organizzazione capitalistica del lavoro si caratterizza sempre più con l’esplosione della precarietà, della flessibilità, della deregolamentazione, sotto forme senza precedenti per i salariati in attività. È il disagio del lavoro, con la paura di perdere il proprio impiego, di non avere più una vita sociale, anzi di impiegarla tutta al e per il lavoro, con l’angoscia legata alla consapevolezza di un’evoluzione tecnologica che non risolve i bisogni sociali. È la precarizzazione dell’intero vivere sociale.

La flessibilità è vista come una delle alternative per combattere la disoccupazione. Ma cosa si intende per flessibilità? Le definizioni sono molte.

Va effettuata una distinzione tra flessibilità salariale,flessibilità di orario e flessibilità numerica (o esterna); vi è poi la flessibilità funzionale (od organizzativa).

Flessibilità ad esempio è:

• Libertà per un’impresa di licenziare una parte di dipendenti, senza penalità, quando produzione e vendite diminuiscono.

• Libertà per l’impresa, quando l’andamento della produzione ne abbia bisogno, di ridurre l’orario di lavoro o di ricorrere allo straordinario, ripetutamente e con poco o breve preavviso.

• Facoltà per un’impresa di pagare salari reali più bassi, a parità di lavoro, sia per rimediare a cadute temporanee degli affari sia per allinearsi alla competizione internazionale.

• Opportunità per l’impresa di suddividere il lavoro nel giorno e nella settimana a proprio piacimento, cambiando gli orari e le tipologie (lavoro a turni, a scaglioni, a tempo parziale, orario flessibile, ecc.)

• Libertà per un’impresa di trasferire i dipendenti in diverse unità produttive, reparti, ecc., senza nessuna possibilità di opposizione da parte dei lavoratori.

• Capacità di un’impresa, di affidare parti della propria attività a ditte esterne.

• Possibilità per un’impresa di utilizzare lavoratori in affitto (lavoro interinale), lavoratori a tempo parziale, tecnici assunti a tempo determinato, tirocinanti, apprendisti, parasubordinati e altre figure emergenti del lavoro “atipico”, diminuendo il personale assunto con contratto a orario pieno e tempo indeterminato, anche al di sotto del 20%.

La flessibilizzazione non è una soluzione per aumentare l’occupazione ma una imposizione alla forza-lavoro per l’accettazione di salari reali più bassi e di peggiori condizioni di lavoro.

Ed in questo quadro si è rafforzato un nuovo segmento dell’offerta di lavoro attraverso il cosiddetto mercato sommerso nel quale si diffonde il lavoro irregolare, precario e privo di garanzie. Con il postfordismo e la mondializzazione economico-produttiva, il lavoro “sommerso” ha assunto delle dimensioni molto più grandi, anche perché i paesi industrializzati hanno spostato le proprie produzioni più in là dei confini nazionali e soprattutto hanno investito in paesi dove minime sono le garanzie, alta è la specializzazione del lavoro, producendo così a costi fondamentalmente meno elevati, aumentando la competitività.