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Analisi-inchiesta: il movimento dei lavoratori tra cambiamento e indipendenza

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Rita Martufi, Luciano Vasapollo, Sabino Venezia

 

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Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (seconda parte)

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Sabino Venezia

Dal conflitto permanente alla “partecipazione” concertata

Questo lavoro costituisce una prima bozza di discussione che la redazione di PROTEO presenta ai propri lettori dalle cui osservazioni ci proponiamo non solo di “imparare” su un argomento storico-economico tutto aperto, e in cui sicuramente non siamo specialisti, ma anche di prender spunto per le eventuali correzioni di impostazione e gli ulteriori approfondimenti.

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1. L’”autunno caldo” e gli antefatti economico-sociali

L’ondata di lotte operaie, che ha “nell’autunno caldo” del ’69 il suo apice, fu preceduto dalla contestazione studentesca del ’68 ma resta inquadrato in un clima di profondo squilibrio di sviluppo che trova origine nelle spinte dell’autonomia di classe del ’65 - ’66, ma già si sentori si hanno nei primi anni ’60, come risposta ad una crescita economica disuguale e ad un modello di sviluppo industrialista squilibrato.

Il periodo viene caratterizzato da profondi conflitti sociali; gli aspetti che contraddistinguono questo quadro sono, da una parte la crescente forza delle organizzazioni sindacali, e dall’altra l’alternarsi delle strategie politiche volte a mitigare l’impatto sindacale e a ripristinare l’egemonia padronale. Il rafforzamento del sindacato si traduce nel 1962 in crescite salariali e in considerevoli conquiste in campo normativo, che nel 1970 culminano con la nascita dello Statuto dei lavoratori.

La grande industria, al contempo, si presenta, nei primi anni sessanta, forte per l’espansione della domanda globale (sia interna che esterna), per le agevolazioni finanziarie alle imprese e per la grande manodopera disponibile, rendendo dicotomico e squilibrato lo sviluppo del Paese.

Le cause che portano al peggioramento dell’economia italiana e successivamente agli scontri sociali della fine degli anni sessanta, sono molteplici e di diversa natura; nazionale e internazionale e partono proprio dai primi anni ’60.

Nel 1962 vengono compiute due scelte fondamentali per garantire lo sviluppo: la programmazione economica e la rinuncia alla politica dei redditi [1], che si riveleranno inefficaci.

L’idea di fondo è quella che la spinta proveniente dal boom economico degli anni ’50 sia inarrestabile, sottovalutando il fatto che i consumi privati, “opulenti”, crescono in maniera eccessiva rispetto a quelli sociali. Conseguenza di ciò, le 14 riforme politico-economiche degli anni 1966-70 si rivelano completamente fallimentari. Tali misure producono l’unico risultato di aggravare il già squilibrato saldo della bilancia dei pagamenti, provocando una diminuzione degli investimenti (-15% nel solo biennio 1964-1965), e contribuiscono ad aumentare, fortemente, il tasso d’inflazione [2].

Le cause che determinano il crescere dell’inflazione [3] sono dovute a diversi altri fattori. Principalmente, gli imprenditori, pressati dall’aumento dei salari, cercano di difendere gli utili accrescendo i prezzi di vendita. Infatti, se per le grandi imprese l’aumento salariale ha determinato la riduzione delle possibilità di auto-finanziarsi e la necessità di ricorrere a crediti esterni, per la piccola impresa tale aumento ha compromesso i bilanci aziendali. Quindi, gli imprenditori, a fronte di un aumento della domanda globale, proprio per l’accresciuta propensione al consumo, aumentano i prezzi sui mercati interni.

C’è da dire però che quello che è possibile sul mercato interno, risulta irrealizzabile nei mercati esteri. Infatti, il sistema internazionale dei pagamenti è basato sul principio dei cambi fissi e da una forte stabilità monetaria. Il padronato italiano si trova, quindi, stretto in una morsa: da una parte le rivendicazioni salariali hanno aumentato i costi di produzione, dall’altra i mercati esteri non permettono di aumentare i prezzi di vendita.

In questa situazione avviene l’inevitabile, ossia, l’inflazione interna e l’aumento della domanda globale, sono accompagnate da un disavanzo crescente della bilancia commerciale, che di fatto rompe l’equilibrio nei conti con l’estero raggiunto negli anni del boom economico. Dopo lunghe discussioni politiche, si decide di tentare di arrestare l’inflazione attraverso un operazione di compressione della domanda, con il risultato di far seguire alla manovra inflazionistica una crescente depressione. Si prepara così l’era della stagflazione.

Al contempo, i nuovi orientamenti della politica economica trovano applicazione anche nel settore della politica monetaria. L’impatto di questa nuova linea è quello di aggravare ulteriormente la situazione. Infatti, la violenta stretta creditizia, ad opera della Banca d’Italia, decisa nell’estate del 1963, comporta nell’immediato una caduta degli investimenti [4]. Comunque, indipendentemente dalla causa iniziale, il crollo degli investimenti risulta preoccupante: nel 1963, gli investimenti nel solo settore industriale superano i 2500 miliardi, nel 1964 scende a 2000 miliardi (con una contrazione del 20%), fino ad arrivare a 1500 miliardi nel 1965.

Di fatto le autorità sembrano più intenzionate a prolungare che non a porre termine a questa situazione; la bilancia dei pagamenti registra un passivo che non risulta dovuto a massicce importazioni di merci, ma unicamente a grandi esportazioni di capitali finanziari. Questo perché, imprenditori e finanzieri ritengono vantaggioso comprare titoli esteri, così da sfuggire al fisco italiano (cioè muoversi su un terreno che diventerà peculiare e intenso come scelta del capitale italiano, favorito dai vari governi centristi, dagli anni ’80, cioè l’evasione fiscale su grande scala e la finanziarizzazione dell’economia) optando per la rendita finanziaria e possibilmente introitare guadagni nell’ipotesi in cui (non troppo remota) la lira venga svalutata. Gli unici interventi politico-economico effettuati per arginare “la fuga di capitali” vengono effettuati solamente nel 1970 e nel 1974, di fatto non impedendo il dilagare di questo fenomeno.

2. L’“operaio massa”

La figura dell’“operaio massa” riesce definitivamente a porsi come punto di riferimento per gli altri movimenti che si esprimono nella società, non ultimo quello studentesco, lasciando ipotizzare una “possibilità di sviluppo di una strategia rivoluzionaria globale” [5] che ben presto darà vita ad importanti teorie sul nesso fabbrica e società e che lascerà il posto ad una nuova figura, quella “dell’operaio sociale” solo verso la metà degli anni settanta.

Il movimento operaio non accetta più di subire il modello di produzione tayloristico nè l’autoritarismo delle gerarchie aziendali ma decide di intervenire sulle strutture del lavoro per modificarle; è questo il “senso di maturazione” della classe operaia, sintetizzato dalle avanguardie di classe con lo slogan e la pratica operaia della “lotta per il potere”.

“Le lotte contrattuali, inframmezzate da agitazioni per la casa, assegnarono al ’69 un primato in numero di giornate di lavoro perdute per scioperi, pari a quasi 38 milioni, mai più eguagliato. Nei sette anni compresi tra il 1952 ed il 1958 erano state perse per sciopero in media 3.390.000 giornate l’anno; nei sette anni tra il 1969 e il 1975, la media salì di oltre cinque volte, a 21 milioni” [6].

È la lotta contro il cottimo la prima, vera, reazione alla linea sindacale tradizionale che vedeva tale istituto come una necessità, semmai da correggere, ma anche le questioni dell’ambiente di lavoro e delle nocività cominciano a rappresentarsi come elementi da discutere, “infine, per ciò che concerne la classificazione delle categorie lavoratrici, si fanno strada, (soprattutto per impulso degli operai comuni) rivendicazioni <egualitarie>, come il passaggio in massa a qualifiche superiori, o aumenti in cifra fissa uguali per tutti” [7].

A grandi linee questo è il quadro in cui versa l’Italia già a partire dalla metà degli anni ’60. Nel complicato intreccio politico-economico intervengono, a caratterizzare fortemente questi anni, i sindacati, le masse di lavoratori e le lotte di classe.

Il grande sviluppo industriale degli anni ’50, come si è detto, determina negli anni successivi lo spostamento di un gran numero di lavoratori dal Meridione verso il Nord, sia per la mancanza di occupazione stabile nel Sud Italia, sia per la possibilità di un salario migliore. I flussi migratori interni creano un processo dirompente che porta a realizzare l’unione di masse rurali con antichi nuclei operai. Ne consegue che negli scontri volti a ottenere migliori condizioni retributive e lavorative, è determinante la partecipazione dei lavoratori meridionali.

Nel triennio 60-62, la conflittualità operaia nell’industria manifatturiera aumenta fortemente rispetto al triennio precedente, mentre le ore perdute passano da 16.000.000 a quasi 58.000.000. Una prima conseguenza è che, cosa mai avvenuta prima, l’Intersind stipula un accordo separato dalla Confindustria; tale accordo, anche se ha un contenuto prettamente applicativo, per la prima volta riconosce la contrattazione aziendale. Nei mesi successivi tale accordo viene esteso anche ai cottimi, ai premi di produzione e ad altri aspetti. Infine, con lo sciopero del febbraio 1963, anche la Confindustria è costretta ad accettare la contrattazione aziendale. I vantaggi di queste lotte, poi, si concretizzano con degli aumenti salariali, anche se marginali rispetto ai profitti dell’azienda.

3. Il post ’68 e gli strumenti dell’autonomia di classe

Ma il periodo più “caldo” e che al contempo segna anche una svolta nella lotta sindacale, è senza dubbio il 1969. In quest’anno le trattative per il rinnovo dei contratti collettivi avviano degli scontri violentissimi, decisamente superiori a quelli avvenuti nel 1962. A esempio le ore perdute per sciopero nel 1969 superano i 200 milioni. Tra le cause che hanno provocato le proteste dei lavoratori non compare la mancanza di occupazione. Infatti in questo periodo il tasso di disoccupazione risulta sostanzialmente basso (5,6% media nazionale; 3,2% al Nord-Ovest). La novità sostanziale che delinea questo nuovo scontro, è data dagli ulteriori obiettivi sulle condizioni di vita dei lavoratori: non soltanto l’aumento salariale (che poteva essere facilmente vanificato dall’aumento dell’inflazione), ma altre rivendicazioni quali la riduzione dell’orario di lavoro, il miglioramento delle condizioni lavorative, la democrazia economica e del lavoro, la partecipazione reale alle decisioni di impresa, del sociale e del Paese, ecc....

Questi nuovi contenuti rivendicativi hanno bisogno di un tipo di organizzazione estremamente capillare e capace di rispondere ad ogni sollecitazione, un tipo di organizzazione che non corrisponde a nessuna di quelle tradizionali e nemmeno alle articolazioni di queste in fabbrica (Commissioni Interne e SAS). Questo vuoto viene colmato dal continuo ricorso alle assemblee, luogo per eccellenza del “potere operaio”, dove svaniscono le differenze di affiliazione sindacale e dove si supera il confine tra iscritti e non iscritti grazie ad una identità comune di interessi. [8]

Tali processi, definiti di auto-organizzazione, nasceranno come spinta dal basso con il proposito di combattere l’opportunismo ed il “collaborazionismo” di sindacati tradizionali e dei partiti. I processi di democrazia di classe saranno gli unici ad interpretare fattivamente la crisi di rappresentanza operaia e del sistema di relazioni industriali; essi si caratterizzeranno in maniera diversa:

- I Comitati di Lotta [9] nascono come organismi di massa, hanno una concezione per così dire leninista del rapporto partito-masse e si presentano con funzione di direzione della classe, sono diretti da operai spesso militanti di partito, e la loro azione è caratterizzata dal consenso della “base”.

La caratteristica principale di questa forma di fare sindacato risulta tuttavia a volte estremamente rigida, cadendo spesso nel massimalismo, e trova facile terreno di sviluppo in quelle realtà industriali dove è poco radicata la presenza dell’“operaio-massa” [10], e dove quindi, una lotta a livello sovrastutturale e sociale staccata dalla lotta in fabbrica, appare priva di senso.

Si lotta per un sistema nuovo di rappresentanza ma soprattutto contro il sistema di CGIL-CISL-UIL ed il loro collateralismo con il padrone, tale specificità li vedrà strumento di riferimento sia per i vecchi operai sindacalizzati che per le nuove leve.

I Comitati di Lotta si struttureranno addirittura nell’Unione Sindacale dei Comitati di Lotta ed arriveranno anche a produrre piattaforme rivendicative, come nel caso dei metalmeccanici.

- I Comitati Unitari di Base [11] nascono in quelle grandi industrie, specie del Nord, dove è più numerosa la presenza dell’“operaio-massa” e più difficile il rapporto di questo nel contesto di fabbrica e sociale. Di fatto i Comitati Unitari di Base sono elemento di aggregazione proprio per questo tipo di operaio, spesso giovane, sovente meridionale, che vive tutta la sua rabbia nello spontaneismo, talvolta inizialmente senza alcun riferimento ideologico preciso. Quello dei CUB è lo sviluppo di un processo culturale e politico che muove dall’analisi di classe del marxismo e si basa prevalentemente sulle dinamiche della singola azienda o fabbrica, dove i rappresentanti CUB, avanguardie individuate dalla base, non hanno altra direzione se non la base che rappresentano. Nel corso di pochi anni si svilupperanno anche strutture di coordinamento su ambiti più ampi (ad opera di una struttura politica esterna), ma l’ingerenza esterna ed il carente studio di strategie di crescita, allontaneranno la realtà dai principi fondativi, tra cui l’indipendenza [12] e ne decreteranno la pressoché totale involuzione.

Il venir meno proprio di uno dei principi fondativi dei CUB, l’indipendenza, produrrà addirittura alla Pirelli due CUB diversi, uno vicino al gruppo extraparlamentare di Avanguardia Operaia e l’altro, a Potere Operaio. Il CUB della Pirelli nasce nel ’68 a Milano ad opera di alcuni operai comunisti e psiuppini. Politicamente molto composito, il CUB, nonostante l’innegabile successo iniziale che fa registrare massicce adesioni fra i lavoratori, entra rapidamente in crisi per l’emergere dei conflitti insanabili fra l’ala ormai orientata verso Avanguardia Operaia e quella più vicina a Potere Operaio. Il dissenso culmina in una scissione nel ’70, l’ala filo A.O. manterrà la sigla CUB, proseguendo per anni nelle sue attività, l’ala filo PotOp conoscerà ulteriori frammentazioni, prima passando attraverso l’esperienza dell’Assemblea Autonoma, poi per il passaggio di alcuni suoi esponenti ad esperienze più estremiste. “Dopo una fase in cui i CUB raccolsero quasi tutta la sinistra di fabbrica, si trasformarono prevalentemente in organismi collegati ad Avanguardia Operaia che cercò di generalizzare l’esperienza anche nelle situazioni dove essi non erano sorti spontaneamente. Naturalmente non tutti i CUB furono espressione di A.O. in alcuni casi essi erano collegati al Manifesto, mentre in altri erano promossi dalla IV Internazionale. Così come va ricordato che non tutti i CUB furono organismi di fabbrica: numerosi furono i CUB studenteschi. Avanguardia Operaia promosse diversi convegni nazionali dei CUB ma, con la svolta del ’74, che portava A.O. ad accettare l’entrismo sindacale, i CUB andarono esaurendosi (in genere i loro militanti aderivano al sindacato e facevano parte dei Consigli di Fabbrica, mantenendo comunque la sigla per qualche volantino o qualche giornale)” [13].


[1] F. Galimberti - L. Paolazzi, Il volo del calabrone, Ed. Le Monnier, Firenze, 1998, pag. 176.

[2] Oltre il 20%.

[3] La crescita dell’inflazione, a fasi alterne, si protrarrà fino alla metà degli anni ‘90, per riprendere, anche se a tassi ancora “sopportabili”!, in questi ultimi anni.

[4] Ricerche successive hanno messo in luce che la caduta degli investimenti industriali è iniziata un paio di anni prima del concretizzarsi dell’intervento governativo.

[5] R. Panieri, “Spontaneità e organizzazione” a cura di S.Merli, BFS Edizioni, Pisa 1994, pag.54

[6] S. Musso, “Storia del lavoro in Italia”, Marsilio Editori, Venezia 2002, pag. 229 e seg.

[7] A.Forbice, R. Chiaberge, “Il Sindacato dei Consigli - Autonomia Operaia..”, Bertani Editore, Verona 1975, pag.88

[8] Idem pag. 91. per approfondimenti vedi anche: G. Sartori, “il potere del lavoro nella società post-pacificata” in «Rivista Italiana di Scienza Politica» III 1973 e P.Del Turco, “una tipologia delle forme di lotta oggi in Italia” in «Quaderni di Rassegna Sindacale» VIII, 1970

[9] Per approfondimenti: S. Garavini, “Strutture dell’autonomia operaia sul luogo di lavoro” in «Quaderni di rassegna sindacale» VII 1969 e P.Perulli, “Note sui delegati” in «Contropiano» 1970 n°2.

[10] Dell’operaio massa si comincia a parlare nei primi anni ‘60.

[11] Per approfondimenti: AA.VV. “I CUB - Comitati Unitari di Base”, Coines, Roma 1971 e G.Pellicciari
 P.Bellasi “I CUB: autogestione delle lotte e sociologia della partecipazione” in «Studi di sociologia» 1970.

[12] Per approfondimenti: “IL SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura della redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate - Roma, Maggio 1988 pag.163

[13] “IL SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura della redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate - Roma, Maggio 1988 pag.164