Il Brasile nel cambiamento mondiale: spazi in disputa
José Luis Fiori
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“Se la Gran Bretagna abbandonasse il sistema coloniale
si libererebbe dalle spese d’amministrazione e potrebbe fare dei trattati
commerciali con le ex colonie (...). Questo gesto ci favorirebbe molto nella
guerra come nel commercio, di modo che le colonie smetterebbero di essere
dei sudditi turbolenti e si trasformerebbero nei nostri alleati più fedeli,
affezionati e grati...”
Adam Smith, La ricchezza delle Nazioni. Ricerca
sulla sua Natura e sulle sue Cause, 1776.
1. La circostanza, le grandi potenze ed il “resto del mondo”
Per un’economia politica internazionale, preoccupata per le
strutture storiche di lunga scadenza, il mondo vive ancora la circostanza
inaugurata dalla crisi monetaria e geopolitica del potere americano, durante il
decennio del ’70. Non c’è dubbio che ci fu un taglio netto negli anni ’90,
con la fine dell’Unione Sovietica e la vittoria nord-americana nella Guerra
Fredda, con l’accelerazione del processo di globalizzazione finanziaria e con
la crescita quasi esclusiva dell’economia nord-americana. Fu il periodo nel
quale il mondo liberale commemorò la sua vittoria politica e economica, e
qualcuno addirittura pensò che fosse arrivata l’ora della “pace universale”.
Dopo, all’inizio del nuovo secolo, svanì la “bolla finanziaria”, l’economia
americana perse energia e il potere e la guerra tornarono al centro del sistema
mondiale. Ed ora, nel 2004, il mondo e anglo-sassoni sono perplessi di fronte
alla stagnazione di quasi tutta l’economia mondiale e di fronte all’impotenza
e all’impreparazione dimostrata dagli Stati Uniti, rispetto alle sue nuove
responsabilità imperiali, in Afghanistan e nell’Iraq.
I primi segnali della crisi economica già venivano dalla
fine degli anni ’90, ed il cambiamento della politica estera americana già si
cominciò ad annunciare con l’entrata in carica del presidente Bush, nel
gennaio del 2001. Ma non ci sono dubbi che gli attentati dell’11 settembre, e
le due guerre posteriori accelerarono i fatti, provocando una rottura tale che
oggi, “l’era Clinton” già sembra un passato remoto, una vera epoca di
illusionismo collettivo, cullato dall’utopia della globalizzazione e della
pace universale dei mercati. Forse per questo, Condolezza Rice ha affermato,
dopo gli attentati di New York e di Washington, che il mondo stava vivendo un
“momento di trasformazione”, uguale a quello che ci fu tra il 1945 e il
1947, quando furono negoziate e stabilite le basi economiche e politiche dell’ordine
mondiale posteriore alla II Guerra. Ma se questo fosse vero, chi sta
partecipando a questa negoziazione e quale sarà la nuova geometria mondiale del
potere e della ricchezza?
Una buona pista può essere trovata in un episodio recente:
la Guerra in Iraq, che si è trasformata - fin dalla divisione degli antichi
alleati, nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU - in una specie di sintesi di
tutte le incognite della circostanza mondiale.
A prima vista, non si allontana da una qualsiasi guerra
coloniale, del tipo classico, come tante del secolo XIX, riguardando due grandi
potenze e uno stato situato fuori dal nucleo centrale del sistema.
Ma quando si guarda con un po’ più di attenzione, ciò che
sorprende è che questa guerra si è trasformata in un vero conflitto “mondiale”,
una specie di “guerra egemonica”, coinvolgendo tutte le Grandi Potenze. La
cosa più probabile è che l’America stia svolgendo, di fatto, un ruolo che
trascende le sue proprie dimensioni locali, al riproporre sul tavolo, un’agenda
di negoziazioni tra le Grandi Potenze cosa che doveva essere già accaduto, alla
fine della Guerra Fredda, o alla fine della Guerra nel Golfo. In questo senso,
nonostante il paradosso, si può dire che questa nuova guerra è parte di un “Accordo
di Pace”, che non è mai esistito, nel quale si sarebbero definiti i nuovi
spazi e territori da essere occupati da ognuno dei vincitori. Visto che l’accordo
di pace non ci fu, i regolamenti dei conti si fecero molto lentamente a partire
dall’inizio degli anni ’90.
Non è difficile capire, per esempio, la logica secondo la
quale si sono occupati i territori dell’Europa dell’Est, dalla vittoria del
1991 e come è accaduto questo processo continuo di occupazione che culminato
con la presa di Bagdad. Il movimento seguì una linea abbastanza chiara:
cominciò dal Baltico, attraversò in pace, l’Europa Centrale, l’Ucraina e
la Bielorussia, si trasformò in guerra nei Balcani, e dopo aver confermato l’alleanza
con la Turchia, arrivò fino all’Asia Centrale e al Pachistan, con la guerra
in Afghanistan, e fino a Bagdad e alla Palestina, con l’ultima guerra in Iraq.
Pertanto, con l’eccezione della Siria e dell’Iran, gli
Stati Uniti regnano oggi, sovrani, in quasi tutto il “Rimland”, l’area
geografica più importante del mondo, per l’esercizio del potere globale,
secondo Nicholas Spykman, il grande geopolitico nord-americano della prima metà
del secolo XX.
Dopo la guerra, non è difficile vedere su una mappa delle
basi militari nord-americane, in tutto il mondo, gli Stati Uniti hanno già
costruito una “cintura di sicurezza”, separando la Germania dalla Russia, e
la Russia dalla Cina.
È chiaro, pertanto, che se non accade nessuna grande
novità, i suoi nuovi concorrenti strategici, a parte la Cina, continueranno ad
essere gli stessi dell’Inghilterra, dal Congresso di Vienna, e soprattutto
dopo la nascita della Germania, nel 1871. Da questo punto di vista, il messaggio
più importante di questa ultima guerra è stato diretto al club delle Grandi
Potenze, dove si trovano tutti gli antichi alleati americani, della Guerra
Fredda e della Guerra del Golfo. Sono loro i maggiori produttori di armi di
distruzione di massa e i principali destinatari della nuova disciplina Bush, che
prevede e difende con attacchi preventivi.
In realtà, gli Stati Uniti già hanno fatto uso di questo
“diritto” in innumerevoli occasioni, durante i secoli XIX e XX, ma quasi
sempre contro paesi piccoli o periferici, o sotto gli auspici della Guerra
Fredda. La novità non sta in questo punto, sta nell’annuncio chiaro ed
inequivoco che l’obbiettivo ultimo della nuova dottrina è impedire la
comparsa, in qualsiasi luogo, e per un tempo indefinito, di qualsiasi altra
nazione o alleanza di nazioni che entri in rivalità con gli Stati Uniti. Una
strategia di “contesa”, come quella suggerita da George Kennan e adottata
dagli Stati Uniti, nei confronti dell’Unione Sovietica, dopo il 1947, solo che
adesso si mira ad un potere globale coadiuvato da una cosiddetta prevenzione
permanente e universale. Anche nei confronti dei suoi antichi alleati, inclusi i
due maggiori “protettori militari”, decisivi per il successo economico
mondiale del dopo-II Guerra Mondiale: la Germania e il Giappone. Da questo punto
di vista, ciò che stiamo vedendo è soltanto l’inizio di una nuova fase d’intensificazione
della competizione e dei conflitti nel club delle Grandi Potenze.
Per questo, è corretto prevedere che gli Stati Uniti
affronteranno difficoltà maggiori sempre nel mantenere la loro presenza nelle
varie mappe geopolitiche del mondo, e nell’amministrare le relazioni con la
maggior parte delle Grandi Potenze. Non è possibile che questi problemi siano l’inizio
di una crisi terminale della supremazia americana.
La cosa più probabile è che le Grandi Potenze stiano
vivendo una situazione che ricorda l’inizio del secolo XX, quando Kautsky e
Lenin discussero del futuro dell’ordine politico ed economico mondiale.
Uno, credendo nella possibilità di una coordinazione “ultra-imperialista”
tra gli Stati ed i capitali delle Grandi Potenze, l’altro, credendo nell’inevitabilità
delle guerre. In questo momento, per esempio, è possibile identificare segnali
chiari di “ultra-imperialismo”, nella strategia adottata in comune dall’Unione
Europea e dagli Stati Uniti, nella riunione della OMS a Cancun, di fronte alle
rivendicazioni dei paesi in via di sviluppo; come anche è possibile
identificare segnali “leninisti”, nelle divergenze tra le Grandi Potenze,
nel caso della guerra come in tutte le discussioni posteriori sulla
ricostruzione dell’Iraq.
Infine, la conduzione della guerra e la mancanza di un
progetto chiaro di occupazione del territorio iracheno, indicano un altro
problema centrale nell’agenda delle divergenze tra le Grandi Potenze, su che
cosa fare con il “resto del mondo”.
Negli anni ’90, la rapida crescita economica americana e l’aumento
del flusso internazionale di capitali, fecero rinascere la fiducia in una
convergenza di interessi tra i paesi sviluppati ed il resto del mondo, anche se
non era stato pattuito un “nuovo ordine economico internazionale”. Dopo il
2000, la stagnazione mondiale, il ritorno della guerra e della politica di
potere al centro del sistema internazionale, insieme alla bassa crescita dei “mercati
emergenti”, ricollocarono nell’agenda delle Grandi Potenze una questione in
sospeso dalla fine della Guerra Fredda: che fare in questo nuovo millennio delle
ex-colonie e degli Stati che esse “inventati” in America, in Medio Oriente,
in Asia ed in Africa? Come mantenere “l’ordine”, ed amministrare le loro
crisi economiche? Come dividere i costi di questa amministrazione?
2. Il vecchio dilemma e il nuovo progetto
Oggi esistono nel mondo centonovantatre stati nazionali,
centoventicinque dei quali ex colonie diventate indipendenti in due momenti
della storia moderna: il primo, all’inizio del secolo XIX, quando si
separarono dall’Europa quasi tutti gli attuali Stati americani; e il secondo,
dopo la II Guerra Mondiale, quando nacque la maggior parte degli Stati africani
e asiatici.
Al formarsi in America dei primi stati nazionali
indipendenti, nati fuori dall’Europa, già era molto tempo che le elite
intellettuali e politiche europee discutevano sulla necessità e sul futuro
delle loro colonie.
In grandi linee, è possibile identificare due posizioni
fondamentali, in questo dibattito economico e strategico. Da un lato, Adam Smith
e quasi tutta l’economia politica classica, convinti che il potere economico
dell’Inghilterra, alla fine del secolo XVIII, già dispensava l’uso di
monopoli coloniali e di conquiste territoriali, sempre più ad alto prezzo e
poco lucrative. Sostenevano la tesi che la superiorità economica inglese -
accentuata dalla Rivoluzione Industriale - era sufficiente per indurre la
specializzazione “primaria - esportatrice” delle economie che diventassero
indipendenti e si trasformassero in “periferia” politico - economica degli
stati più ricchi e forti. In una posizione opposta, si trovavano tutti i
politici e intellettuali conservatori che - nella seconda metà del secolo XIX -
appoggiarono le idee colonialiste di Benjamim Disraeli e di Cecil Rhodes, il
primo a sostenere che il cammino della pace universale passava necessariamente
dalla sottomissione del “resto del mondo” alle leggi anglo-sassoni.
Se la posizione di Adam Smith predominò nella prima metà
del secolo XIX, le posizioni di Disraeli e di Cecil Rhodes si imposero a partire
dal 1870. Ma è importante comprendere, che questa non fu una vittoria
intellettuale, o politica; fu molte volte il risultato dell’applicazione della
propria ricetta di Adam Smith. È esemplare, in questo senso, la storia della
conquista e colonizzazione di quasi tutti i territori appartenuti all’antico
Imperio Ottomano. In quasi tutti i casi, questa storia cominciava dalla firma
(molte volte imposta con la forza) di Trattati Commerciali che obbligavano i
paesi firmatari a eliminare le loro barriere commerciali, permettendo il libero
accesso delle merci e dei capitali europei. Questi trattati furono stabiliti con
paesi di quasi tutto il mondo, che finirono con lo specializzarsi nell’esportazione
delle materie prime necessarie all’industrializzazione europea. Con l’apertura
delle loro economie, quasi tutti i governi dovettero indebitarsi con le banche
private Inglesi e francesi, per coprire le risorse perse con lo smantellamento
delle tasse di frontiera. Per questo, nei momenti dei tagli ciclici delle
economie europee, questi paesi periferici affrontavano, invariabilmente,
problemi di bilancio di pagamenti, essendo obbligati a rinegoziare i loro debiti
esterni o a dichiarare moratorie nazionali. Nel caso dell’America Latina, i
debiti e le moratorie furono organizzate attraverso rinegoziazioni con i
creditori e il trasferimento di questi costi alle popolazioni nazionali. Nel
resto del mondo, la storia fu diversa: la copertura dei debiti finì col
giustificare l’invasione e dominazione politica di molte di queste nuove
colonie, create nel secolo XIX.
Durante il secolo XX, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica
ebbero una grande importanza nell’indipendenza di queste colonie, situate
soprattutto nei continenti afro-asiatici. Già alla fine della Prima Guerra
Mondiale, Wilson e Lenin difesero il diritto all’auto-determinazione dei
popoli, e a partire da allora USA e URSS assunsero la leader-ship nella difesa
del diritto allo sviluppo economico nazionale. Nel decennio seguente, il
socialismo - visto come una strategia d’industrializzazione - e lo sviluppo si
trasformarono in utopia o speranza di questi popoli e in strade alternative per
la realizzazione di uno stesso obiettivo: lo sviluppo economico, la mobilità
sociale e la diminuzione delle asimmetrie di ricchezza e di potere nel sistema
mondiale.
Alla fine degli anni ’70, intanto, lo sviluppo già aveva
perso forza nella maggior parte dei paesi periferici, così come il socialismo,
che presto perdette la sua forza attrattiva come strategia di riduzione del
ritardo economico. In questo momento, l’establishment della politica
estera nord-americana cominciò a rivedere la sua politica internazionale e il
suo appoggio finanziario ai progetti di sviluppo nazionali. Una risposta che fu
quasi immediata alla “crisi dell’egemonia americana” e alla crisi
economica mondiale degli anni settanta. Ma fu anche un’alternativa davanti
alla sfida lanciata nel 1973 dal successo della strategia della OPEP in
relazione al controllo dei prezzi internazionali del petrolio, e alla comparsa
del Gruppo dei 77 e della loro proposta di riforma radicale e creazione di un
nuovo ordine economico internazionale, approvato nel 1974 dalla Sesta Sessione
Speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Inizialmente, la tendenza della nuova politica americana era
di dare appoggio selettivo a pochi progetti nazionali di sviluppo. Ma in
seguito, negli anni ottanta, dopo la crisi dominante degli indebitamenti esteri
e delle moratorie polacca e messicana, la nuova strategia per la periferia del
sistema assunse una forma più precisa, in sintonia con le idee base della
grande “restaurazione liberal-conservatrice” dell’era Reagan /Thatcher. In
America Latina, negli anni ’70, il nuovo modello di politica economica fu
sperimentato in Cile da Pinochet. Tuttavia, è stato nella seconda metà degli
anni ottanta che si generalizzò per tutto il continente, nel contesto della
rinegoziazione dei debiti esteri della regione. Per tutti i paesi indebitati la
negoziazione è stata una sola: in cambio di migliori condizioni nel pagamento
dei debiti, si esigevano mercati regolarizzati, economie aperte, stati non
intervenzionisti e abbandono radicale di qualsiasi tipo di progetto di sviluppo
nazionale. In un primo momento, sembrava si trattasse di un semplice cambio
congiunturale di una politica di crescita per una politica di stabilizzazione di
tipo ortodosso. Negli anni novanta, tuttavia, si costatò che la politica di
stabilizzazione si andava trasformando in un punto chiave dell’utopia globale,
offerta ai paesi periferici del sistema mondiale. A partire d’allora, come nel
secolo XIX, la promessa di sviluppo e la speranza di mobilità nella gerarchia
di potere e ricchezza internazionale passavano dall’accettazione delle regole
libero-cambiste e della politica economica ortodossa proposta o imposta dalle
grandi potenze, come al tempo della Regina Vittoria.
Nel 1996, l’assessore internazionale di Tony Blair, Richard
Cooper, pubblicò un piccolo libro, the Post-Modern State and World Order [1] dove
spiegava con chiarezza le direttrici strategiche di questo nuovo progetto
anglo-sassone per il “resto del mondo”. Cooper parte dal riconoscimento dell’esistenza
di una relazione diretta e necessaria tra il processo della globalizzazione
finanziaria, le politiche economiche liberali del decennio del ’90, ed il
progetto di costruzione di “un nuovo tipo di imperialismo accettabile dal
mondo dei diritti umani e dai valori cosmopolita”. Le Grandi Potenze “sono
diventate oneste e non vogliono più lottare tra loro”, tuttavia, continuano
ad essere obbligate ad “esportare stabilità e libertà agli altri paesi”.
Da queste relazioni gerarchiche nescerebbero le tre forme
attuali di imperialismo esistenti nel mondo. Un “imperialismo cooperativo”,
che regolerebbe le relazioni tra il mondo anglo-sassone ed il resto dei paesi
sviluppati; un “imperialismo basato sulla legge della foresta”, proprio
delle relazioni tra questo gruppo di paesi che “sono diventati onesti” e gli
“stati pre-moderni” o “fracassati”, incapaci di assicurare i loro
territori nazionali; ed in fine, “l’imperialismo volontario dell’economia
globale, gestita da un consorzio internazionale di istituzioni finanziarie come
il FMI e la Banca Mondiale”, proprio per i paesi che adottano “la nuova
teologia dell’aiuto, che enfatizza la governabilità e difende l’appoggio
agli stati che si aprano ed accettino pacificamente l’interferenza delle
organizzazioni internazionali e degli stati stranieri”. In sintesi, un
progetto di “ultra-imperialismo” tra le Grandi Potenze, la “legge della
giungla” per gli stati “pre-moderni” e l’imperialismo del “libero
commercio” per i paesi che Adam Smith chiamò i “nostri alleati più fedeli,
affezionati e grati”.
[1] COOPER,
R. (1996), THE POST-MODERN STATE AND THE WORLD ORDER, DEMOS, LONDON.