L’ALCA: più che un’area di libero commercio, una ridefinizione del progetto egemonico degli Stati Uniti d’America
Marcos Costa Lima
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Introduzione
Non si può, oggi, capire con chiarezza il processo di
consolidamento dell’ALCA, senza osservare il suo sviluppo storico, che si
inserisce nel contesto dei sostanziali mutamenti che ci sono stati nell’economia
politica dell’ultimo decennio del secolo XX. È quindi fondamentale
comprenderlo come articolazione di uno dei più importanti fenomeni della
mondializzazione, che altera radicalmente le relazioni di produzione, del
commercio e degli investimenti internazionali, nella misura in cui si impone
come forza che condiziona tutto un sistema.
L’intenso sviluppo della mondializzazione, ha fatto in modo
che il contesto nel quale è stata decisa la realizzazione del NAFTA, all’inizio
del 1990, si sia profondamente alterato in questo principio di secolo. Da un
lato, la disputa commerciale tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea ha una
parte di rilievo, ma anche le differenze che si sono accumulate tra gli
interessi geopolitici nordamericani e gli sforzi di maggior autonomia dell’Unione
Europea, le quali caratterizzano la disputa per un’egemonia politica mondiale,
fino a ora guidata dalla supremazia militare nordamericana (anche se questa oggi
non può dare, in nessuna ipotesi, garanzie di pace per i prossimi venti anni).
Dall’altro lato - in relazione al continente americano - abbiamo il
fallimento, durante gli anni ‘90, delle politiche macro economiche di
aggiustamento imposte dall’FMI e dalla Banca Mondiale, sfociato nelle crisi
ricorrenti dei cosiddetti paesi emergenti e culminato nel violento disfacimento
argentino. L’aggiustamento fiscale, la privatizzazione e la liberalizzazione
del mercato, ovvero i tre pilastri della riforma, hanno acutizzato le
disuguaglianze sociali e la povertà, motivo importante di un “mea culpa”
fatto da uno dei promotori di questa politica, il quale, piuttosto ingenuamente,
ha affermato di avere sempre saputo che tanto la promozione della crescita
quanto la guerra contro la povertà erano delle questioni difficili da
affrontare, ma che mai avrebbe immaginato che “uno dei principali ostacoli
che le nazioni in via di sviluppo dovevano affrontare fosse stato creato dall’uomo
e si trovasse dall’altro lato della strada -nella mia istituzione “sorella”
l’FMI” [1].
Il 7 febbraio 1992, venne firmato il Trattato di Maastricht,
raggiungendo l’obiettivo iniziale della Comunità Europea, che era quello di
realizzare un mercato comune e di attribuirgli una vocazione politica con ampie
implicazioni. Il Trattato ha segnato una nuova tappa nel processo di
unificazione sempre più forte tra i popoli d’Europa: al momento della sua
entrata in vigore nel gennaio 1993, l’Unione Europea era una comunità formata
da 12 Stati Membri, che sono passati ad essere 15 nel 1995. Questo Trattato ha
permesso di aggregare tre elementi basilari, conosciuti come i “3 pilastri”
dell’Unione:
- La Comunità Europea - che ha sostituito la Comunità
Economica Europea - ha acquistato competenze sovranazionali ampliate;
- la cooperazione in materia di politica estera e di
sicurezza comune;
- la cooperazione in materia di affari interni e di
giustizia.
Tra le altre attribuzioni, il Trattato [2] riconosce una cittadinanza europea,
il diritto di circolare e risiedere liberamente nei paesi della comunità, la
protezione degli stranieri da parte di ambasciate e consolati di qualsiasi stato
membro, il diritto di votare e di essere votato tramite elezioni europee; il
diritto di petizione davanti al Parlamento Europeo, il diritto di reclamare, di
fronte a un mediatore europeo prescelto, per il funzionamento inadeguato
della amministrazione comunitaria. Ancora, stabilisce la decisione di creare, a
partire dal 1 gennaio 1999, una moneta unica sotto la garanzia della Banca
Centrale Europea.
Nel 1990, l’allora presidente degli Stati Uniti, G. Bush,
lanciò l”Iniziativa per le Americhe”, che, nella scacchiera delle relazioni
internazionali, significava una risposta all’avanzamento e al consolidamento
del processo regionale europeo. In quel periodo si sviluppavano l’egemonia
liberale e il NTIC, le nuove tecnologie di informazione e di comunicazione, l’avanzamento
della finanziarizzazione del capitale (soprattutto attraverso i fondi di
investimento istituzionali, come i fondi pensione, fondi mutui e d’assicurazione,
che, nel 1996, erano pari al 138% del PIL nordamericano [3]), con effetto deleterio sull’economia
mondiale fino alla recente crisi del 2000 [4], della quale parleremo brevemente in
seguito.
L’embrione del ALCA, pertanto, si distacca dalle vecchie
politiche estere degli Stati Uniti verso l’America Latina; non tende più all’azione
paternalista dell’”aiuto” alimentare; non ci sono più l’”Alleanza per
il Progresso” dei vecchi Kennedy, e le azioni militari “anti insurrezionali”
del periodo reaganomics. Ora si tratta di realizzare “affari”, di
liberalizzare il commercio come meccanismo assoluto di promozione dello sviluppo
regionale [5]. La dottrina liberale spiega dunque, con pretese di
universalità, che non esiste altra economia all’infuori di quella di mercato,
e che questa condizione è nella natura della società e, pertanto, un ordine
naturale. Un nuovo orientamento è stato formalmente seguito da W. Clinton
quando invitò al Vertice di Miami (1994), tutti i 34 paesi dell’America
Continentale e del Caraibico, ad eccezione di Cuba. Evidentemente, questa nuova
iniziativa riguardava un insieme di misure macro economiche, che dovevano essere
adottate dai paesi latino-americani inglobati nel “ Consenso di Washington”
[6], e che, da una parte, sostenevano un’ampia
deregolamentazione del sistema finanziario e di quello del lavoro; dall’altra
agivano sotto forma di stretto controllo monetario e di riduzione sistematica
dell’interferenza dello Stato nell’economia, attraverso un considerevole
processo di privatizzazione degli attivi pubblici.
È stato in questo contesto di ultra liberalismo economico,
che sono state progettate le nuove frontiere di espansione del capitale
nordamericano, e l’ALCA è una parte importante di questo nuovo ordine,
soprattutto ora, nell’attuale momento di crisi, che non vede la sua origine
solo nel grande crollo di Wall Street, iniziato nel marzo 2000, ma, e, forse,
soprattutto nell’attentato terrorista dell’11 settembre 2001, che ha posto
il pianeta in una grande instabilità e incertezza, con la cosiddetta “guerra
infinita” annunciata dagli Stati Uniti con le invasioni dell’Afganistan
e dell’Irak.
E, sebbene non abbiamo intenzione di approfondire la
dimensione militare, è importante sottolineare che si tratta di un aspetto
fondamentale del contesto delle relazioni internazionali. Come afferma Anatol
Lieven, “ il progetto di base generalmente accettato, è la dominazione del
mondo da parte di una superiorità militare assoluta” [7]. La conferma della frase di Lieven ci avvicina, attraverso il PNAC [8], a un documento intitolato Progetto per il Nuovo
Secolo Americano (Project for the New American Century), elaborato da
Dick Cheney e Rumsfeld, ancora prima che Bush figlio venisse eletto presidente,
o che venisse giustificato l’intervento militare in Irak come risposta all’11
settembre.
Questo nazionalismo conservatore che impregna il governo
Bush, strutturato a partire dalla potente lobby petrolifera nordamericana,
pregiudica le ancora timide misure prese dalla comunità internazionale, per
realizzare investimenti in fonti rinnovabili di energia, contraddette dal
disprezzo del governo USA nei confronti del Trattato di Kyoto. Come segnala
Lieven, “questa guerra è inscritta nella straregia di lasciare al mondo i
costi ecologici dell’economia nordamericana, senza nessuna contropartita per
gli Stati Uniti” [9].
Il presidente Bush giustifica il carattere indispensabile del
dominio nordamericano, con un vecchio discorso missionario, e facendo passare il
suo paese come “Nazione Morale”, che esercita il suo potere senza volontà
di conquista, come un sacrificio, in nome della libertà delle altre nazioni.
Gli interventi militari sono stati definiti “indispensabili”. In verità,
pratica la “guerra preventiva”, il che giustifica la presenza, oggi, di
quaranta basi militari nordamericane all’estero, alle quali si sommano decine
di accordi di cooperazione, dando agli Stati Uniti facilitazioni militari in
tutti i continenti.
Soprattutto la posizione divergente di Francia e Germania, al
momento dell’attacco all’Iraq, ci porta al problema di consolidamento di uno
“spazio europeo di difesa” (che si sovrapponga alla Nato) che, prima
o poi, dovrà essere affrontato dai paesi dell’Unione Europea [10].
Concluso questo sforzo di contestualizzazione, necessario a
comprendere l’ambiente all’interno del quale si va strutturando l’ALCA, dividiamo
questa nostra riflessione in tre parti: in primo luogo, faremo una
breve caratterizzazione dell’attuale momento di mondializzazione, dominato dal
settore finanziario, dove l’America Latina, tanto dal punto di vista
continentale quanto in termini di riserva di mercato, di provviste di alimenti
basici, di mano d’opera a basso costo e di biodiversità, è una componente
fondamentale dell’ALCA, che è una delle espressioni della nuova politica
regionale condotta dagli USA. In secondo luogo, analizzaremo i principali
contenuti del Progetto ALCA, che implicano aspetti che oltrepassano, di molto,
il campo di un accordo commerciale, e ne evidenziano altri di lesa sovranità,
clausole abusive relative agli investimenti, alle proprietà intellettuali e
alla spesa pubblica, che di fatto favoriscono gli interessi nordamericani. In
tutti i punti della discussione, esiste una costante che ci porta ad avanzare l’ipotesi
che questa è un’area di libero commercio priva di reciprocità e con un forte
carattere impositivo. E, in terzo luogo, presenteremo la possibilità di
costruire l’ alternativa di un MERCOSUL rafforzato, che sia capace di
incorporare il Patto Andino, di consolidare un’Area di Libero Commercio dell’America
del Sud (ALCSA) e di verificare le intenzioni dei nuovi governi dell’Argentina
e, soprattutto, del Brasile su questi temi, o, anche, di verificare se ci sono
spazi di manovra per ritirarsi dall’ALCA.
Infine, osservando le reazioni dei paesi e dei gruppi sociali
in concreto, al gennaio 2005, faremo due indagini centrate: i) sulla
possibilità di costruire, con i nuovi governi eletti, un modello di sviluppo
per l’America del Sud nel suo insieme differente dal neoliberalismo e, ii)
sulla misura in cui il progetto dell’ALCA dipende dalla ripresa della crescita
economica nordamericana, il che permetterebbe agli USA di fare concessioni
importanti ai paesi della regione.
1. Una mondializzazione disuguale
Non è un compito facile stabilire in poche righe lo stato
attuale della mondializzazione, soprattutto perché si corre il rischio di
trattare con leggerezza questioni rilevanti. Tenteremo quindi di riparare alle
omissioni, seguendo le indicazioni dei lavori essenziali scritti sull’argomento [11].
Il processo di mondializzazione si basa su tre forti vettori
nei quali siamo implicati: i) un’internazionalizzazione ampliata dalle imprese
multinazionali, realizzata a partire dall’apertura delle economie nazionali
alle transazioni esogene e all’ampliamento del commercio mondiale dei beni e
dei servizi (Tabelle 1 e 2); ii) le trasformazioni prodotte dalle nuove
tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, che alterano profondamente
e radicalmente i processi di produzione delle imprese [12] che passano a
produrre in rete, riducendo il tempo di produzione e la durata di vita dei
prodotti e alterando le relazioni di lavoro, nel senso dell’innovazione e
della flessibilità delle regole lavorative; e iii) la globalizzazione
finanziaria, che può essere definita come un processo di interconnessione dei
mercati di capitale a livelli nazionali e internazionali, che porta alla
conformazione di un mercato unificato dei capitali su scala planetaria [13]. L’aspetto distintivo di questa evoluzione, avvenuta
negli anni 90, è il modello di leadership assunto dal sistema finanziario, che
è passato a condurre e a determinare la dinamica e il ritmo delle aziende e
dell’innovazione tecnologica, inaugurando, come chiarisce il lavoro di
François Chesnais, un regime di accumulazione a dominazione
finanziaria [14], e posteriormente definito da Aglietta
come “economia dei mercati finanziari liberalizzati” [15].
Senza entrare nei dettagli di questo processo, che inizia nel
1979 con il mutamento dell’andamento della politica monetaria degli Stati
Uniti, si può individuare nel debito pubblico un motore di propulsione della
finanziarizzazione, fenomeno generalizzato dovuto a una riduzione del ritmo
della crescita economica e al concomitante rialzo dei tassi di interesse.
Secondo Phlion, il debito pubblico dei principali paesi industrializzati, che
rappresentava in media il 20,5% del PIL nel 1980, è passato al 31,7% nel
decennio successivo, e ha infine raggiunto il 44,6% nel 1995. Gli alti
indebitamenti statali, che non possono più essere affrontati con le risorse
interne, hanno fatto ricorrere agli investitori internazionali, specialmente a
quelli istituzionali. In questo modo, i principali paesi industrializzati
intraprendono delle politiche di deregolamentazione e liberalizzazione
finanziaria. A partire da quì si consolida un mercato finanziario mondiale,
alterando la ragione primaria della sua esistenza che era quella di
salvaguardare il commercio mondiale e le bilance dei pagamenti. I flussi
finanziari hanno una crescita esplosiva, e ignorano ciò che già venne
stabilito da molto tempo, tanto da Marx quanto da Keynes, sugli effetti nocivi
della speculazione economica, e arriveranno a raggiungere 50 volte i valori
relativi al commercio internazionale.
È importante segnalare che nel suo sviluppo, il capitale
finanziario inverte il suo ruolo e mira ad una nuova gestione dell’impresa [16], capace di remunerare, in breve tempo, gli investitori
istituzionali [17], e esigendo tassi di
interesse reali (non contando l’inflazione) del 10%. Questi fondi scoraggiano
gli investimenti produttivi delle ditte, che preferiscono collocare i propri
liquidi nella speculazione. Oltre a ciò, si è verificato il cosiddetto
fenomeno della palla di neve, che altro non è che la crescita del debito
pubblico, che, per essere pagato, esige tassi sempre più alti. Il fenomeno è
perverso, poiché il carico del debito pubblico aumenta più dell’incasso
fiscale dello Stato. Il risultato è stato una forte riduzione dei consumi delle
famiglie e degli investimenti produttivi.
La “cultura” dell’investimento in Borsa, secondo
Plihon [18], si è propagata nel primo mondo, e ha messo in
risalto la Francia, dove una famiglia su tre detiene attivi finanziari e dove c’è
chi destina più della metà del proprio patrimonio, che è costituito da attivi
istituzionali, alla Borsa; nel 1970 nessuno investiva più di 1/3 del proprio
patrimonio. Allo stesso tempo, l’ultima relazione delle Nazioni Unite,
intitolata “La sfida delle bidonvilles: relazione Globale sull’Abitazione
Umana” [19], ci informa che senza cambiamenti radicali nell’attuale
tasso di crescita delle bidonvilles, il loro numero duplicherà entro il 2030,
passando da una popolazione di 1 miliardo nel 2003, a 2 miliardi. La popolazione
globale degli abitanti del pianeta sarà dunque costituita da 8 miliardi di
essere umani. Quanto alla distribuzione geografica degli abitanti delle
bidonvilles, oggigiorno, il 60% si trova in Asia - principalmente in India,
Pakistan e Bangladesh. In Africa si trova il 24% degli abitanti delle
bidonvilles e in America Latina il 14%, dove il primato lo detiene il
Brasile [20]. Dominique Phlion introduce alcuni
dati statistici, che seguono la stessa direzione dei numeri scioccanti riportati
dall’ONU, e che riportano a una questione importante, ovvero all’approfondimento
delle disuguaglianze tra i paesi industrializzati e le classi sociali, lungo l’egemonia
della dottrina: a parte due paesi, secondo la Banca Mondiale, la presenza dei
paesi in via di sviluppo sui mercati finanziari internazionali è passata dal
9,7% del totale nel 1991, al 5,5% nel 2000, nonostante rappresentassero l’85%
della popolazione mondiale in questo ultimo anno. Allo stesso tempo, gli
investimenti produttivi diretti alla costruzione di fabbriche e, soprattutto,
all’acquisto di imprese locali, si sono ridotti dal 22,3% nel 1991, al 15,9%
nel 2000 [21].
[1] STIGLITZ, Joseph E. (2002)
[2] Il Trattato di
Amsterdam del 2 ottobre 1997, entrato in vigore nel 1999, ha realizzato una
revisione, già prevista a Maastricht, che aveva come scopo principale quello di
assicurare una maggiore efficacia delle istituzioni comunitarie, tenendo di
vista la futura politica di allargamento.
[3] Negli Stati Uniti, gli
attivi dei Fondi di Pensione raggiunsero i 4.752 miliardi di dollari, ovvero il
62% del PIL nel 1996. I Fondi Mutui, 3.539 miliardi di dollari, equivalenti al
46% del PIL, e le Compagnie di Assicurazione , 3.052 miliardi di dollari, cioè
il 30% del PIL. In: IMBERT, P. (1999), p.44
[4] CHESNAIS, François e Dominique
PLIHON (2003),La trampa e Gadrey, Jean
[5] GIRAULT (2003)
[6] WILLIAMSON, J (1990)
[7] LIEVEN, Anatol
(2003)
[8] Il
documento PNAC sostiene il “predominio globale degli USA, precludendo il
sorgere di una grande potenza rivale,così da creare un ordine di sicurezza
internazionale,in linea con i principi e gli interessi americani”. Secondo
il documento, questa “grande strategia americana” deve essere proiettata nel
“futuro il prima possibile”. C’è inoltre un appello agli USA per “lottare
e vincere multipli e simultanei teatri di guerra”. Il rapporto descrive l’esercito
americano come “la cavalleria della nuova frontiera americana”. Il
documento PNAC sostiene un precedente documento scritto da Wolfwitz e Libby, che
afferma che si deve “scoraggiare l’avanzamento industriale delle nazioni che
sfidano la nostra leadership o addirittura aspirano a un ruolo regionale o
globale più ampio”.
[9] LIEVEN, op. cit. p. 7
[10] Laurent
ZECCHINI (2003).
[11] CHESNAIS,
François, 1994, 1997; PLIHON, Dominique (2003), VELTZ P. ; ADDA, Jaques
(2002)
[12] Si veda, per esempio, le
trasformazione della Eriksson, della Sueca o della Alcatel, francese, che
chiudono le loro filiali sparse per il mondo, assumendo ditte in sub-appalto,
per concentrare gli sforzi nelle attività di alta tecnologia e di forte valore
aggregato, come la concezione, il marketing e le vendite.
[13] PLIHON,
Dominique (2003), p.20
[14] CHESNAIS, François (1997)
[15] AGLIETTA
(2000)
[16] PLIHON,
idem, p.30
[17] in: Agencia Carta Maior, 7/10/2003; “Un sesto della popolazione
mondiale vive nelle bidonvilles, a detta dell’ONU”
[18] Allo stesso modo, il rappresentante dell’ONU per il Diritto all’Alimentazione,
Jean Zigler, ha affermato che “ogni 7 secondi, in qualche parte del mondo,
muore un bambino di meno di 10 anni, direttamente o indirettamente, di fame”.
In: 5/10/2003, Fhola on line.
[19] Banque Mondiale. Rapport sur le financement du développement,
2001. In: PLIHON. P.29
[20] Cf. COSTA LIMA (2001), pp.202, 204
[21] Cf. ROMERO (2002)