Rubrica
Continente rebelde

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Marcos Costa Lima
Articoli pubblicati
per Proteo (3)

Prof.Dr. del Programma di Dottorato in Scienze Politiche dell’Università Federale di Pernambuco-Recife-Brasil. Attualmente compie studi di post-dottorato presso l’Università di Parigi XIII-Villetaneuse

Argomenti correlati

America Latina

Imperialismo

Stati Uniti

Nella stessa rubrica

L’ALCA: più che un’area di libero commercio, una ridefinizione del progetto egemonico degli Stati Uniti d’America
Marcos Costa Lima

Il Brasile nel cambiamento mondiale: spazi in disputa
José Luis Fiori

Riflessioni su “L’Europa vista dai sud”
Carlo Batà

 

Tutti gli articoli della rubrica "Continente rebelde"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

L’ALCA: più che un’area di libero commercio, una ridefinizione del progetto egemonico degli Stati Uniti d’America

Marcos Costa Lima

Formato per la stampa
Stampa

Per concludere questa parte, presentiamo un insieme di tabelle, con le quali si può verificare l’evoluzione dei flussi degli Investimenti Diretti Esteri (IDE) dei principali paesi dell’OCDE e del mondo; la partecipazione percentuale del commercio mondiale tra il 1980 e il 2001 e, infine, la struttura mondiale dei flussi commerciali, per quanto riguarda la destinazione e l’origine dei prodotti.

La Tabella 1 evidenzia la crescita vertiginosa dei flussi d’investimento esteri diretti a partire dalla seconda metà degli anni ‘90, e che si esprimono sia tramite la dislocazione delle imprese, sia tramite fusioni e acquisti, che, sebbene vincolate alla produzione, sono anche legate alla finanziarizzazione. Mettiamo in risalto, in rosso, l’accentuata caduta di questi valori a partire dal 2000, soprattutto in funzione al crack dell’”e-commerce”, posteriormente ampliato a tutta l’economia, che ha ridotto della metà i flussi mondiali dell’IDE, che nell’Unione Europea raggiungevano il 60%, e che negli Stati Uniti ha portato a una riduzione di questi investimenti del 75,8% [1].

In termini di commercio internazionale (Tabella 2), si verifica, in primo luogo, una forte concentrazione tra i paesi industrializzati, che attingono all’auge degli anni ‘90, quando questi paesi realizzavano in media il 71,8% degli scambi internazionali, che si sono successivamente ridotti al 67,0% nel 1996, e al 67,1% nel 2001.

La disgregazione a livello regionale, merita un’attenzione particolare: la crescita sistematica del deficit commerciale nordamericano; un miglioramento del commercio europeo, che si chiude in attivo già nel 1990 e che cresce ancora nel 2001; un’America in via di sviluppo che aumenta il proprio deficit commerciale a partire dagli anni ‘90, e che riduce la sua partecipazione al commercio mondiale, già al 3,2% nel 1980, per arrivare al 2,5% nel 2001, con una tendenza esattamente opposta a quella dell’Asia, che ha incrementato in maniera sostanziale la sua partecipazione al commercio mondiale, salendo da un valore medio del 15,5% del totale nel 1980, al 22,35% nel 2001, e che pur vedendo ridurre i propri surplus commerciali, evidenzia una maggiore integrazione nell’economia mondiale.

Analizzando le due tabelle, si nota che la sorprendente crescita dei flussi di investimento produttivi non ha implicato un corrispondente aumento degli scambi internazionali. Ora, se si osserva la situazione del commercio mondiale, a partire dalla struttura delle esportazioni dei principali paesi dell’OCSE e di due paesi in via di sviluppo (Tabella 3), Cina e Brasile, per regione di destinazione dei prodotti, si notano alcune importanti specificità. In primo luogo, Germania, Francia e Regno Unito, esportano soprattutto in Europa, con valori percentuali equivalenti, rispettivamente 60,5%, 64,6% e 57,7%. In più, se prendiamo come misura il totale delle esportazioni di questi tre paesi verso i paesi in via di sviluppo, abbiamo, nel 2001, un 75,7% per la Germania, un 76,9% per la Francia e un 80,3% per il Regno Unito, il che evidenzia un accumulo di commercio concentrato all’interno della Triade. Dei tre paesi in questione, il Regno Unito è quello che maggiormente esporta verso gli Stati Uniti e il Canada, ossia il 17,7% delle sue esportazioni totali, seguito dalla Germania con l’11,4%, e dalla Francia con il 9,5%, nel 2001.

Gli Stati uniti hanno una struttura di esportazioni più diversificata, essendo per il 57,0% dirette verso i paesi sviluppati, soprattutto perché mantengono una forte relazione commerciale con le regioni in via di sviluppo dell’Asia Orientale (16,9%) e dell’America Latina (21,8%). Qui ci interessano particolarmente le esportazioni verso i paesi implicati nell’ALCA. Se sommiamo le esportazioni degli Stati Uniti verso l’America Latina con quelli destinati al Canada, non verifichiamo solo l’importanza del mercato delle esportazioni statunitense all’interno dell’ALCA, ma anche la sua crescita nel tempo, dato che è passato dal 33,4% del 1980 al 44,2% del 2001 delle esportazioni mondiali.

Il volume del mercato europeo (23,5%) equivale praticamente a quello del mercato canadese (22,4%) (in relazione all’andamento del flusso commerciale di questo paese). Un simile commento si può fare in relazione alla struttura dell’ esportazione del Giappone, con la differenza che il maggior flusso delle esportazioni di quest’ultimo si dirige verso i paesi dell’Asia Orientale (40,3%), seguiti da Stati Uniti e Canada (32,0%), essendo minore il suo commercio con l’Europa (16,8%).

Il mercato sudamericano, invece, è divenuto, rispetto alle esportazioni provenienti dai paesi dell’OCSE, via via meno importante, al contrario dei flussi provenienti dagli Stati Uniti, per i quali esiste una relazione inversa. La Francia, che esportava il 3,6% del totale delle sue esportazioni in America Latina, le ha ridotte al 3,0% nel 2001; la Germania dal 3,3% al 2,6%, il Regno Unito dal 3,1% all’1,7%, e il Giappone, con una caduta ancora più accentuata, dal 6,55 al 4,0%, il che, in altri termini, vuol dire che gli Stati Uniti sono il maggior fornitore della regione.


[1] UNCTAD, Handbook of Statistics, 2002.