Rubrica
Lo sviluppo socialmente sostenibile

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Rita Martufi
Articoli pubblicati
per Proteo (36)

Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

Argomenti correlati

Nella stessa rubrica

Un percorso verso uno sviluppo socialmente sostenibile

Un percorso verso uno sviluppo socialmente sostenibile
Rita Martufi


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Un percorso verso uno sviluppo socialmente sostenibile

Rita Martufi

BILANCIO ECO-SOCIALE contabilizzare l’impatto socio-ambientale dell’attività produttiva

Formato per la stampa
Stampa

Sviluppo sostenibile: per gli imprenditori o per i lavoratori?

La teoria sistemica considera l’impresa come parte del macro-sistema sociale, influenzata dall’ambiente esterno e capace di condizionarlo a sua volta; ciò perché nell’impostazione liberista l’impresa riveste un ruolo centrale e determinante per l’insieme delle relazioni di carattere sia economico sia sociale. Pur essendo chiaro che per sopravvivere e svilupparsi l’impresa deve privilegiare la propria funzione economico-gestionale che si esplicita nel raggiungimento degli obiettivi di redditività, è altrettanto vero che diventano sempre più gli obiettivi di socialità e di salvaguardia dell’ambiente i perni fondamentali di una nuova progettualità strategica d’impresa nell’ottica di uno sviluppo socialmente sostenibile.

La variabilità degli ecosistemi, la qualità del suolo, la stabilità dell’ambiente, le politiche del lavoro, le politiche di distribuzione del reddito e della ricchezza prodotta, diventano condizioni indispensabili da rispettare in un’ottica di sviluppo qualitativo capace di coniugare crescita economica per tutti e raggiungimento di obiettivi equidistributivi in termini di reddito monetario e di benessere sociale collettivo.

Se da un lato la funzione economico-aziendale consente di ottenere dei prodotti mercantili con un valore superiore rispetto alle risorse utilizzate, dall’altro la funzione etico-socio-ambientale deve permettere di valutare la politica seguita dall’impresa fornendo delle risposte alla sempre più sentita esigenza di preservare il patrimonio naturale, umano, culturale, accrescendo la dotazione sociale complessiva a carattere non mercantile che appartiene alla collettività nel suo complesso.

Ci troviamo in una fase di emergenza in cui sono sempre più grandi i fenomeni di distruzione ad opera del capitale di ogni forma di legame con la natura, con l’ambiente, con le compatibilità sociali. La globalizzazione dei mercati, delle produzioni sta portando sempre più l’uomo verso una fase di annientamento di ogni forma di spazio vitale, a partire dalla crescente alienazione del lavoro umano che viene ad essere sempre più spesso sostituito con macchinari sofisticati. Ciò oltre a provocare la completa e irresponsabile devastazione del patrimonio naturale collettivo, colpiscono la qualità della vita, accrescendo le varie forme di accumulazione del capitale, distruggendo lavoro attraverso gli incrementi di produttività che si traducono solo in profitti senza migliorare i salari, aumentare l’occupazione e diminuire realmente l’orario di lavoro complessivo producendo tempo liberato.

Poche grandi strutture transnazionali ( le imprese multinazionali, le grandi Banche ecc.) dominano completamente la scena internazionale ed impongono ai popoli la propria logica di raggiungimento del profitto ad ogni costo; questo stato di cose ha portato alla progressiva eliminazione di ogni forma di garanzia sociale, di Stato sociale che tuteli i settori più emarginati, i non garantiti, gli esclusi dai processi di produzione incentrati sulle leggi di mercato.

È ovvio infatti che la corsa sfrenata all’arricchimento dei pochi, sta portando l’umanità verso strade catastrofiche che possono avere conseguenze umane e sociali non più controllabili. Basti pensare al disastro legato allo sfruttamento e neo-colonizzazione del Terzo Mondo, in cui non esiste alcun tipo di protezione del lavoro e dell’ambiente, per comprendere quale sia l’effettiva portata del problema.

I vari settori produttivi provocano impatti socio-ambientali molto diversi; il settore agricolo, ad esempio, è caratterizzato da un elevato effetto negativo sull’ambiente sia che si consideri la realtà dei paesi a capitalismo avanzato sia quelli in via di sviluppo sottoposti a forme varie di moderna colonizzazione. Basti pensare alle varie forme di inquinamento fortemente causato dall’uso indiscriminato di pesticidi e fertilizzanti, all’erosione dei territori, ai problemi legati alla desertificazione e distruzione delle grandi foreste. Se si analizza l’attività industriale ci si rende conto che il problema è ancora più grande; gli effetti di impatto ambientale della produzione riguardano l’aria, il rumore, i rifiuti, l’acqua. In questo settore è ancora più marcata la differenza comportamentale tra i diversi paesi, poiché i vari modelli di capitalismo utilizzano, o meglio determinano, i fattori di sviluppo compatibilmente ai locali rapporti di forza fra lavoro e capitale, assoggettando e modellando i vari sistemi di legislazione ambientale e sociale in modo che gli ostacoli ai processi di accumulazione siano inesistenti o comunque poco condizionanti. In tale contesto anche le tecnologie impiegate e l’evoluzione dei processi produttivi sono determinati senza tener in alcun conto la necessità di sviluppare processi di miglioramento qualitativo del lavoro e del vivere collettivo, ostacolando qualsiasi intento di mirare alla conservazione del patrimonio naturale e all’incremento di valore sociale della ricchezza anche non direttamente monetizzabile o quantificabile attraverso parametri tipici dell’economia di mercato (valore aggiunto, PIL, ecc.)

Anche alcune organizzazioni internazionali che hanno tentato di esaminare i problemi derivanti da una politica non attenta alle tematiche socio-ambientali e alle risorse immateriali, non sono riuscite a tutt’oggi neppure a dare delle iniziali soluzioni che riescano ad affrontare il problema in modo globale e sufficientemente attento alle modalità della crescita economica collettiva [1]. Gli strumenti adottati si sono per ora limitati a

risolvere le situazioni in modo parziale e legati ai singoli casi, realizzando provvedimenti di facciata rivolti comunque a mantenere e rafforzare il modello di sviluppo liberista, magari rendendolo in qualche misura più sostenibile e compatibile, sempre però rispetto alle esigenze di incremento di profitto e di accumulazione.

Da ciò la necessità ormai imprescindibile di cercare degli strumenti che seppur iniziali e parziali analizzino il problema dello sviluppo socialmente sostenibile, cioè sostenibile per i cittadini, per i lavoratori, in modo che le tematiche ambientali e sociali siano associate in maniera organica, sistematica e coerente alla ricerca di un diverso modello di sviluppo. Ad esempio bisogna creare immediatamente le condizioni sociali e di attenzione da parte della ricerca scientifica non omologata alle regole della divinità del pensiero unico neo-liberista, per giungere a legiferare in tema di impatto socio-ambientale dell’attività produttiva.

Si può così concorrere a spostare il baricentro dalla centralità dell’efficienza di impresa al condizionamento forzato delle linee di pianificazione strategica aziendale, in modo da imporre di programmare obiettivi tali da assicurare un sistema produttivo in cui diventi prioritario e fondamentale investire in risorse intangibili e capitale umano capace di relazionare la propria attività lavorativa ad un positivo impatto sul sociale, sull’ambiente, sulla redistribuzione. Intraprendere questa strada significa allargare le tematiche rivendicative in tema di equità distributiva, poiché si tratta di socializzare non solo il reddito prodotto, ma anche l’accumulazione di ricchezza monetaria e sociale qualitativa, derivante dal grado di sviluppo delle forze produttive, ricchezza determinata e quindi dovuta al fattore produttivo lavoro, immediato o anticipato, confluito nell’innovazione tecnologica del capitale.

Premesso che si pone ormai come inderogabile incanalare la ricerca scientifica e il dibattito politico-economico verso problematiche, modalità di scelta e processi decisori che collochino come centrale la costruzione di un diverso modello di sviluppo che si ponga immediatamente su un terreno qualitativo fuori mercato, si possono da subito sviluppare temi di riflessione e di ricerca che almeno realizzino ipotesi di controtendenza rispetto alla scelta di sviluppo dello Stato-Impresa.

2. Politiche gestionali d’impresa e sistemi di autoregolamentazione

Anche in un’ottica che rispetti semplicemente le compatibilità di efficienza aziendale va ricordato che se si considera l’ambiente come fattore di sviluppo, anche attraverso l’introduzione di nuove tecnologie più avanzate, si possono ottenere delle riduzioni di costi aziendali e sociali, con particolare riguardo al risparmio di energia, di materie prime, di creazione di nuove opportunità di lavoro“ [2].

Una moderna e più socializzante concezione dell’attività gestionale deve nel suo complesso, sia riguardo alle relazioni interne sia a quelle esterne, preservare, nell’ottica della salvaguardia ambientale, il patrimonio che l’azienda ha in “prestito” e che è tenuta a gestire accrescendone il valore complessivo. L’impresa incrementa così anche il proprio valore, che poi dovrebbe essere chiamata a redistribuire secondo regole di equità fra tutte le soggettualità sociali costituenti a vario titolo i fattori produttivi.

La valutazione del patrimonio e del reddito d’impresa sono ormai ampiamente condizionati dal rispetto di alcune normative ambientali. Il DLgs n.127 del 9 aprile 1991 introduce nuovi principi generali da rispettare nella redazione del bilancio d’esercizio; tra questi vanno considerate sicuramente le “passività potenziali” ed in particolare quelle legate al rispetto dell’ambiente; ci si riferisce in particolare alle passività ambientali del sito produttivo (e ai danni all’ambiente che una alterazione della zona in cui questo si trova può causare all’ambiente) e alle passività legate all’area produttiva (impianti non rispondenti alle caratteristiche di salvaguardia ambientale).

I diversi atteggiamenti tenuti dall’impresa nei confronti degli enormi cambiamenti socio-ambientali avvenuti negli ultimi anni consentono di fare una prima classificazione in: imprese adattive, imprese reattive e imprese attive.

Le prime, rispondendo a politiche di “controllo e comando” da parte degli operatori pubblici, agiscono in base alle normative vigenti in materia e alla conseguenti soluzioni consolidate; vi è in questo caso una condizione preventiva consistente in una chiarezza normativa e nella presenza nell’organizzazione dell’impresa di un management intermedio anche esperto in problematiche ambientali.

Le imprese reattive invece sono influenzate nel loro operato sia dalle leggi in materia socio-ambientale sia da una sensibilità alle varie sollecitazioni provenienti dal mercato; queste imprese hanno un atteggiamento innovativo e si affidano per le loro decisioni all’esperienza di uno “management ambientale” presente nell’alta direzione.

Infine vi è l’impresa attiva; in questo caso si tratta di imprese dinamiche e moderne che si caratterizzano per la forte motivazione in campo sociale. Queste imprese agiscono in base alle opportunità competitive offerte dal mercato per prodotti ecocompatibili e di alta qualità; è chiaro che diventa indispensabile avere al loro interno specialisti in problematiche ambientali in ogni settore.

Questa suddivisione comporta una ulteriore distinzione delle imprese in base al loro comportamento; si avranno così aziende con comportamento passivo che attuano una gestione basata comunque sulla minimizzazione dei costi provocati dalla propria attività; imprese con comportamento adattativo che gestiscono l’incertezza sul verificarsi del danno attraverso il meccanismo assicurativo. Infine si hanno le imprese con comportamento attivo, in questo caso vi è nel contempo una strategia di gestione razionale del rischio socio-ambientale e di minimizzazione dello stesso; queste aziende affrontano e gestiscono direttamente i costi socio-ambientali relativi all’attività produttiva. [3]

Va considerato comunque che, quale che sia la posizione assunta in base alle precedenti distinzioni, compito principale di ogni impresa che intenda non solo sopravvivere ma anche e soprattutto svilupparsi è ormai quello di valutare realisticamente il rapporto con l’intero macrosistema ambientale, naturale e sociale, che la circonda e considerare attentamente le interdipendenze e le ricadute che i suoi output provocano sugli altri soggetti economici.

Si parla spesso a questo proposito di sviluppo sostenibile ed ecocompatibile come primo passo per innescare almeno processi di diversificazione nel modello di sviluppo economico.

In questo ambito il sistema politico e istituzionale riveste un ruolo determinante, poiché potrebbe da subito controllare e condizionare le strategie aziendali con l’imposizione di vincoli o divieti che tendano a salvaguardare l’ambiente naturale promuovendo nel contempo nuove dinamiche di crescita sociale; ad esempio creando nuove opportunità di lavoro, di un diverso lavoro socialmente e ambientalmente utile.

A questo proposito l’Unione Europea in varie direttive recepisce l’esigenza di una crescita sostenibile che tuteli l’ambiente, la salute umana, le risorse naturali; ciò è disposto e previsto anche nel Trattato di Maastricht (Titolo XVI, Parte III). Va rilevato però che nonostante le “buone intenzioni” dalla lettura del Trattato si capisce chiaramente che ancora non vi è un organico disegno di reale politica intesa come scelta economica e sociale strategica orientata verso uno sviluppo sostenibile per i cittadini e non solo per le imprese. Anche in questo caso, infatti, le politiche socio-ambientali sono sacrificate a favore di finalità economiciste di rafforzamento dell’attuale modello economico. Dal Trattato non si recepisce una seria volontà di superamento degli squilibri sociali ed ecologici causati dalla logica del “profitto a tutti i costi”; la crisi socio-ambientale in atto renderebbe, invece, necessario legiferare affinchè i vari paesi membri dell’Unione Europea possano operare per realizzare delle linee di politica economica in grado di considerare le scelte in funzione di una distribuzione equa del lavoro, del reddito e della ricchezza, nel rispetto di un ambiente vivibile e del diritto ad un nuovo equilibrio sociale ed ecologico.

Ciò che in sostanza al momento è in corso di realizzazione nell’ambito della determinazione di uno sviluppo sostenibile, che allo stato delle cose rimane sostenibile solo nell’ottica degli imprenditori, sono state delle direttive attuate dai vari Paesi dell’Unione Europea, che a partire dalla semplice constatazione e consapevolezza della necessità di un bilanciamento tra interessi aziendali ed ecologici, hanno introdotto degli strumenti nuovi di autoregolamentazione molto spesso volontari. Pur in presenza di una certa confusione tra i diversi sistemi di misura e controllo della gestione ambientale si è compreso che è diventato fondamentale approfondire la conoscenza di strumenti a volte ancora usati ed esaminati solo da esperti del settore: ci si riferisce a termini quali certificazione, audit, assestments, approcci a non meglio identificate costruzioni di rapporti e bilanci ambientali.

A questo punto è fondamentale operare una prima distinzione tra le cosiddette tasse ambientali [4] che, rappresentando il “costo dell’ambiente”, possono a volte essere “disincentivanti”, in quanto attraverso l’imposizione di oneri influiscono sul comportamento dei produttori, e tasse redistributive che consentono di raccogliere fondi per l’ambiente. Va effettuata una distinzione anche tra gli incentivi finanziari e fiscali riconosciuti dai vari Stati per migliorare la situazione ambientale, come ad esempio i depositi con cauzione, ossia le tasse sui prodotti, rimborsate al momento della consegna, che consentono di limitare l’inquinamento senza gravare eccessivamente sui contribuenti (es. i contenitori di bevande, le batterie e gli oli usati). Infine vanno ricordati i cosiddetti diritti-permessi di emissione che consistono un una concessione fornita dalle amministrazioni pubbliche ai vari soggetti aziendali riguardante, ad esempio, il massimo livello di emissione che si può raggiungere in funzione delle aree geografiche e della tecnologia esistente.

Nel Quinto Programma d’azione ambientale ( regolamento CEE n. 880/1992), è stato istituito l’Ecolabel, uno “strumento volontario” consistente in un marchio di qualità ambientale, una eco-etichetta che permette di segnalare ai consumatori la qualità ambientale dei prodotti che rispettano il patrimonio naturale. Questo strumento si ispira all’Angelo Azzurro, istituito in Germania nel 1977 e conosciuto ormai dai consumatori di tutto il mondo; l’obiettivo è quello di creare un unico simbolo all’interno dei Paesi dell’Unione Europea per consentire una più libera circolazione dei prodotti ecocompatibili ed effettuando al contempo un’opera di sensibilizzazione verso i consumatori sulle problematiche del rispetto ambientale.

L’Ecolabel, oltre a rispondere all’esigenza di ottenere dei prodotti dichiarati “puliti”, è soprattutto una vera e propria opportunità di marketing per le imprese, in quanto tende a realizzare una strategia di prevenzione; rappresenta cioè una ipotetica garanzia di qualità, trattandosi di un marchio registrato per permettere l’immissione sul mercato di produzioni “verdi”. Si tratta in definitiva di uno strumento volontario che dovrebbe in teoria garantire una qualità superiore rispetto agli standard legali.

Tutte le imprese che ottengono l’eco-etichetta assicurano una migliore informazione sui loro prodotti a tutti i consumatori in quanto:

“La misura dell’impatto ambientale si basa sul principio from cradle to grave, < dalla culla alla tomba >, poiché deve essere riferita all’intero ciclo di vita dei prodotti che vengono sottoposti al sistema”. [5]

Nel Marzo 1992, la Commissione CEE, all’interno del Quinto Programma di azione ha approvato il regolamento riguardante l’istituzione dell’Audit ambientale, uno schema volontario che persegue l’obiettivo di promuovere un miglioramento delle performance ambientali nelle attività industriali.

Le procedure di Audit ambientale sono nate in Canada nei primi anni ’70 con lo scopo di assicurare l’igiene e la sicurezza nei luoghi di lavoro; successivamente si sono estese a tutti i temi di sicurezza ambientale. Nel regolamento CEE è previsto che, per realizzare la partecipazione volontaria a questa procedura di certificazione, le imprese dovranno introdurre dei programmi di gestione ambientale che saranno poi revisionati sistematicamente.

Inoltre l’efficienza ambientale dell’azienda dovrà essere resa pubblica attraverso le informazioni riportate nel report ambientale e poi certificate da parte di accreditati verificatori. Si tratta in sostanza di effettuare una valutazione sistematica, obiettiva e documentata della gestione aziendale, con particolare riguardo alle sue politiche ambientali [6]. Le imprese dovranno a tal fine pianificare nel “capital budget” i propri investimenti ambientali, anche se risulta molto complesso determinare il loro ritorno economico. Anche tale strumento può rivelarsi soltanto un semplice approccio ad una più moderna concezione del marketing in quanto l’impresa ottiene un miglioramento della propria immagine aziendale nei confronti dei mercati nei quali i prodotti vengono immessi; miglioramento che porta anche a un più alto consenso all’impresa da parte della comunità sociale del luogo dove questa ha sede [7], ma ciò non necessariamente si trasforma in un diverso approccio alla qualità della produzione funzionale ad uno sviluppo sostenibile ad alta caratterizzazione sociale.

In sostanza l’Audit ambientale comporta il riconoscimento dell’importanza e della necessità di rendere minime le ricadute ambientali delle attività produttive; ma le imprese dovrebbero finalizzare la propria gestione al perseguimento di obiettivi a forte connotato sociale, verificando le ricadute complessive della propria attività in termini di qualità del prodotto, qualità e quantità di occupazione, qualità ambientale e della vita dei cittadini, di redistribuzione complessiva del reddito. Solo in tal modo perseguire gli obiettivi indicati dall’audit può condurre a preservare il più possibile il patrimonio ambientale, riuscendo nel contempo ad accrescerne il valore d’impresa e del Paese in funzione di una redistribuzione sociale della ricchezza prodotta che investa il territorio, tutti i soggetti economici, comprendendo fra questi oltre ai lavoratori anche coloro che, per motivi diversi, sono esclusi o ai margini del circuito produttivo.


[1] Cfr. Lanza A., “Lo sviluppo sostenibile”, “Farsi un’idea” ,Il Mulino, Bologna, 1997.

[2] L’opzione ambientale costa, non c’è dubbio; ma quanto costa l’opzione contraria? Così come, a proposito di qualità, si parla abitualmente non del costo della qualità, ma del costo della “non qualità”, così si dovrebbe parlare di un costo del “non ambiente”....Il consumo di risorse, il consumo di energia costano. Investimenti ambientali che comportino una riduzione nell’impiego di risorse, naturalmente a parità di altri fattori, comportano invece un ritorno...Buoni investimenti ambientali in attività di produzione possono anche comportare vantaggi in termini di efficienza degli impianti esistenti, di valorizzazione di sottoprodotti, ecc.” in Longo E.,” Ambiente e Impresa. Scenari, organizzazione, normative e controlli”, ETASLIBRI, Milano, 1993, pp.15-16.

[3] 4 Cfr. Pesaro G., ”L’impresa e la responsabilità per danno ambientale”, in “Economia delle fonti di energia e dell’ambiente”, n.1/1994.

[4] Le tasse ambientali sulle emissioni sono diffuse nella maggior parte dei Paesi europei (Germania, Danimarca, Italia, Belgio, Francia ecc.) e sono imposte ai produttori e/o ai consumatori, con disponibilità a pagare prezzi più alti per prodotti ecologici.

[5] Cfr. E. Sassoon, Rapisarda Sassoon C., “Management dell’ambiente”, Il Sole 24Ore, Milano, 1993, p. 134.

[6] Cfr. E. Sassoon, Rapisarda Sassoon C., “Management....”, op. cit. p.143.

[7] Fiano F., Oggioni A., Colagrande F., “L’Audit ambientale”, in “Amministrazione & Finanza”, n.2, 1993.