Un percorso verso uno sviluppo socialmente sostenibile
Rita Martufi
BILANCIO ECO-SOCIALE contabilizzare l’impatto socio-ambientale dell’attività produttiva
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Sviluppo sostenibile: per gli imprenditori o per i
lavoratori?
La teoria sistemica considera l’impresa come parte del
macro-sistema sociale, influenzata dall’ambiente esterno e capace di
condizionarlo a sua volta; ciò perché nell’impostazione liberista l’impresa
riveste un ruolo centrale e determinante per l’insieme delle relazioni di
carattere sia economico sia sociale. Pur essendo chiaro che per sopravvivere e
svilupparsi l’impresa deve privilegiare la propria funzione economico-gestionale
che si esplicita nel raggiungimento degli obiettivi di redditività, è
altrettanto vero che diventano sempre più gli obiettivi di socialità e di
salvaguardia dell’ambiente i perni fondamentali di una nuova progettualità
strategica d’impresa nell’ottica di uno sviluppo socialmente sostenibile.
La variabilità degli ecosistemi, la qualità del suolo, la
stabilità dell’ambiente, le politiche del lavoro, le politiche di distribuzione
del reddito e della ricchezza prodotta, diventano condizioni indispensabili da
rispettare in un’ottica di sviluppo qualitativo capace di coniugare crescita
economica per tutti e raggiungimento di obiettivi equidistributivi in termini di
reddito monetario e di benessere sociale collettivo.
Se da un lato la funzione economico-aziendale consente di
ottenere dei prodotti mercantili con un valore superiore rispetto alle risorse
utilizzate, dall’altro la funzione etico-socio-ambientale deve permettere di
valutare la politica seguita dall’impresa fornendo delle risposte alla sempre
più sentita esigenza di preservare il patrimonio naturale, umano, culturale,
accrescendo la dotazione sociale complessiva a carattere non mercantile che
appartiene alla collettività nel suo complesso.
Ci troviamo in una fase di emergenza in cui sono sempre più
grandi i fenomeni di distruzione ad opera del capitale di ogni forma di legame
con la natura, con l’ambiente, con le compatibilità sociali. La
globalizzazione dei mercati, delle produzioni sta portando sempre più l’uomo
verso una fase di annientamento di ogni forma di spazio vitale, a partire dalla
crescente alienazione del lavoro umano che viene ad essere sempre più spesso
sostituito con macchinari sofisticati. Ciò oltre a provocare la completa e
irresponsabile devastazione del patrimonio naturale collettivo, colpiscono la
qualità della vita, accrescendo le varie forme di accumulazione del capitale,
distruggendo lavoro attraverso gli incrementi di produttività che si traducono
solo in profitti senza migliorare i salari, aumentare l’occupazione e diminuire
realmente l’orario di lavoro complessivo producendo tempo liberato.
Poche grandi strutture transnazionali ( le imprese
multinazionali, le grandi Banche ecc.) dominano completamente la scena
internazionale ed impongono ai popoli la propria logica di raggiungimento del
profitto ad ogni costo; questo stato di cose ha portato alla progressiva
eliminazione di ogni forma di garanzia sociale, di Stato sociale che tuteli i
settori più emarginati, i non garantiti, gli esclusi dai processi di produzione
incentrati sulle leggi di mercato.
È ovvio infatti che la corsa sfrenata all’arricchimento dei
pochi, sta portando l’umanità verso strade catastrofiche che possono avere
conseguenze umane e sociali non più controllabili. Basti pensare al disastro
legato allo sfruttamento e neo-colonizzazione del Terzo Mondo, in cui non esiste
alcun tipo di protezione del lavoro e dell’ambiente, per comprendere quale sia
l’effettiva portata del problema.
I vari settori produttivi provocano impatti socio-ambientali
molto diversi; il settore agricolo, ad esempio, è caratterizzato da un elevato
effetto negativo sull’ambiente sia che si consideri la realtà dei paesi a
capitalismo avanzato sia quelli in via di sviluppo sottoposti a forme varie di
moderna colonizzazione. Basti pensare alle varie forme di inquinamento
fortemente causato dall’uso indiscriminato di pesticidi e fertilizzanti,
all’erosione dei territori, ai problemi legati alla desertificazione e
distruzione delle grandi foreste. Se si analizza l’attività industriale ci si
rende conto che il problema è ancora più grande; gli effetti di impatto
ambientale della produzione riguardano l’aria, il rumore, i rifiuti, l’acqua. In
questo settore è ancora più marcata la differenza comportamentale tra i diversi
paesi, poiché i vari modelli di capitalismo utilizzano, o meglio determinano, i
fattori di sviluppo compatibilmente ai locali rapporti di forza fra lavoro e
capitale, assoggettando e modellando i vari sistemi di legislazione ambientale e
sociale in modo che gli ostacoli ai processi di accumulazione siano inesistenti
o comunque poco condizionanti. In tale contesto anche le tecnologie impiegate e
l’evoluzione dei processi produttivi sono determinati senza tener in alcun conto
la necessità di sviluppare processi di miglioramento qualitativo del lavoro e
del vivere collettivo, ostacolando qualsiasi intento di mirare alla
conservazione del patrimonio naturale e all’incremento di valore sociale della
ricchezza anche non direttamente monetizzabile o quantificabile attraverso
parametri tipici dell’economia di mercato (valore aggiunto, PIL, ecc.)
Anche alcune organizzazioni internazionali che hanno tentato
di esaminare i problemi derivanti da una politica non attenta alle tematiche
socio-ambientali e alle risorse immateriali, non sono riuscite a tutt’oggi
neppure a dare delle iniziali soluzioni che riescano ad affrontare il problema
in modo globale e sufficientemente attento alle modalità della crescita
economica collettiva [1]. Gli strumenti adottati si sono per ora limitati a
risolvere le situazioni in modo parziale e legati ai singoli casi, realizzando
provvedimenti di facciata rivolti comunque a mantenere e rafforzare il modello
di sviluppo liberista, magari rendendolo in qualche misura più sostenibile e
compatibile, sempre però rispetto alle esigenze di incremento di profitto e di
accumulazione.
Da ciò la necessità ormai imprescindibile di cercare degli
strumenti che seppur iniziali e parziali analizzino il problema dello sviluppo
socialmente sostenibile, cioè sostenibile per i cittadini, per i lavoratori, in
modo che le tematiche ambientali e sociali siano associate in maniera organica,
sistematica e coerente alla ricerca di un diverso modello di sviluppo. Ad
esempio bisogna creare immediatamente le condizioni sociali e di attenzione da
parte della ricerca scientifica non omologata alle regole della divinità del
pensiero unico neo-liberista, per giungere a legiferare in tema di impatto
socio-ambientale dell’attività produttiva.
Si può così concorrere a spostare il baricentro dalla
centralità dell’efficienza di impresa al condizionamento forzato delle linee di
pianificazione strategica aziendale, in modo da imporre di programmare obiettivi
tali da assicurare un sistema produttivo in cui diventi prioritario e
fondamentale investire in risorse intangibili e capitale umano capace di
relazionare la propria attività lavorativa ad un positivo impatto sul sociale,
sull’ambiente, sulla redistribuzione. Intraprendere questa strada significa
allargare le tematiche rivendicative in tema di equità distributiva, poiché si
tratta di socializzare non solo il reddito prodotto, ma anche l’accumulazione di
ricchezza monetaria e sociale qualitativa, derivante dal grado di sviluppo delle
forze produttive, ricchezza determinata e quindi dovuta al fattore produttivo
lavoro, immediato o anticipato, confluito nell’innovazione tecnologica del
capitale.
Premesso che si pone ormai come inderogabile incanalare la
ricerca scientifica e il dibattito politico-economico verso problematiche,
modalità di scelta e processi decisori che collochino come centrale la
costruzione di un diverso modello di sviluppo che si ponga immediatamente su un
terreno qualitativo fuori mercato, si possono da subito sviluppare temi di
riflessione e di ricerca che almeno realizzino ipotesi di controtendenza
rispetto alla scelta di sviluppo dello Stato-Impresa.
2. Politiche gestionali d’impresa e sistemi di
autoregolamentazione
Anche in un’ottica che rispetti semplicemente le
compatibilità di efficienza aziendale va ricordato che se si considera
l’ambiente come fattore di sviluppo, anche attraverso l’introduzione di nuove
tecnologie più avanzate, si possono ottenere delle riduzioni di costi aziendali
e sociali, con particolare riguardo al risparmio di energia, di materie prime,
di creazione di nuove opportunità di lavoro“ [2].
Una moderna e più socializzante concezione dell’attività
gestionale deve nel suo complesso, sia riguardo alle relazioni interne sia a
quelle esterne, preservare, nell’ottica della salvaguardia ambientale, il
patrimonio che l’azienda ha in “prestito” e che è tenuta a gestire accrescendone
il valore complessivo. L’impresa incrementa così anche il proprio valore, che
poi dovrebbe essere chiamata a redistribuire secondo regole di equità fra tutte
le soggettualità sociali costituenti a vario titolo i fattori produttivi.
La valutazione del patrimonio e del reddito d’impresa sono
ormai ampiamente condizionati dal rispetto di alcune normative ambientali. Il
DLgs n.127 del 9 aprile 1991 introduce nuovi principi generali da rispettare
nella redazione del bilancio d’esercizio; tra questi vanno considerate
sicuramente le “passività potenziali” ed in particolare quelle legate al
rispetto dell’ambiente; ci si riferisce in particolare alle passività
ambientali del sito produttivo (e ai danni all’ambiente che una alterazione
della zona in cui questo si trova può causare all’ambiente) e alle passività
legate all’area produttiva (impianti non rispondenti alle caratteristiche di
salvaguardia ambientale).
I diversi atteggiamenti tenuti dall’impresa nei confronti
degli enormi cambiamenti socio-ambientali avvenuti negli ultimi anni consentono
di fare una prima classificazione in: imprese adattive, imprese
reattive e imprese attive.
Le prime, rispondendo a politiche di “controllo e comando” da
parte degli operatori pubblici, agiscono in base alle normative vigenti in
materia e alla conseguenti soluzioni consolidate; vi è in questo caso una
condizione preventiva consistente in una chiarezza normativa e nella presenza
nell’organizzazione dell’impresa di un management intermedio anche esperto in
problematiche ambientali.
Le imprese reattive invece sono influenzate nel loro operato
sia dalle leggi in materia socio-ambientale sia da una sensibilità alle varie
sollecitazioni provenienti dal mercato; queste imprese hanno un atteggiamento
innovativo e si affidano per le loro decisioni all’esperienza di uno “management
ambientale” presente nell’alta direzione.
Infine vi è l’impresa attiva; in questo caso si tratta di
imprese dinamiche e moderne che si caratterizzano per la forte motivazione in
campo sociale. Queste imprese agiscono in base alle opportunità competitive
offerte dal mercato per prodotti ecocompatibili e di alta qualità; è chiaro che
diventa indispensabile avere al loro interno specialisti in problematiche
ambientali in ogni settore.
Questa suddivisione comporta una ulteriore distinzione delle
imprese in base al loro comportamento; si avranno così aziende con
comportamento passivo che attuano una gestione basata comunque sulla
minimizzazione dei costi provocati dalla propria attività; imprese con
comportamento adattativo che gestiscono l’incertezza sul verificarsi del
danno attraverso il meccanismo assicurativo. Infine si hanno le imprese con
comportamento attivo, in questo caso vi è nel contempo una strategia di
gestione razionale del rischio socio-ambientale e di minimizzazione dello
stesso; queste aziende affrontano e gestiscono direttamente i costi
socio-ambientali relativi all’attività produttiva. [3]
Va considerato comunque che, quale che sia la posizione
assunta in base alle precedenti distinzioni, compito principale di ogni impresa
che intenda non solo sopravvivere ma anche e soprattutto svilupparsi è ormai
quello di valutare realisticamente il rapporto con l’intero macrosistema
ambientale, naturale e sociale, che la circonda e considerare attentamente le
interdipendenze e le ricadute che i suoi output provocano sugli altri soggetti
economici.
Si parla spesso a questo proposito di sviluppo sostenibile ed
ecocompatibile come primo passo per innescare almeno processi di
diversificazione nel modello di sviluppo economico.
In questo ambito il sistema politico e istituzionale riveste
un ruolo determinante, poiché potrebbe da subito controllare e condizionare le
strategie aziendali con l’imposizione di vincoli o divieti che tendano a
salvaguardare l’ambiente naturale promuovendo nel contempo nuove dinamiche di
crescita sociale; ad esempio creando nuove opportunità di lavoro, di un diverso
lavoro socialmente e ambientalmente utile.
A questo proposito l’Unione Europea in varie direttive
recepisce l’esigenza di una crescita sostenibile che tuteli l’ambiente, la
salute umana, le risorse naturali; ciò è disposto e previsto anche nel Trattato
di Maastricht (Titolo XVI, Parte III). Va rilevato però che nonostante le “buone
intenzioni” dalla lettura del Trattato si capisce chiaramente che ancora non vi
è un organico disegno di reale politica intesa come scelta economica e sociale
strategica orientata verso uno sviluppo sostenibile per i cittadini e non solo
per le imprese. Anche in questo caso, infatti, le politiche socio-ambientali
sono sacrificate a favore di finalità economiciste di rafforzamento dell’attuale
modello economico. Dal Trattato non si recepisce una seria volontà di
superamento degli squilibri sociali ed ecologici causati dalla logica del
“profitto a tutti i costi”; la crisi socio-ambientale in atto renderebbe,
invece, necessario legiferare affinchè i vari paesi membri dell’Unione Europea
possano operare per realizzare delle linee di politica economica in grado di
considerare le scelte in funzione di una distribuzione equa del lavoro, del
reddito e della ricchezza, nel rispetto di un ambiente vivibile e del diritto ad
un nuovo equilibrio sociale ed ecologico.
Ciò che in sostanza al momento è in corso di realizzazione
nell’ambito della determinazione di uno sviluppo sostenibile, che allo stato
delle cose rimane sostenibile solo nell’ottica degli imprenditori, sono state
delle direttive attuate dai vari Paesi dell’Unione Europea, che a partire dalla
semplice constatazione e consapevolezza della necessità di un bilanciamento tra
interessi aziendali ed ecologici, hanno introdotto degli strumenti nuovi di
autoregolamentazione molto spesso volontari. Pur in presenza di una
certa confusione tra i diversi sistemi di misura e controllo della gestione
ambientale si è compreso che è diventato fondamentale approfondire la conoscenza
di strumenti a volte ancora usati ed esaminati solo da esperti del settore: ci
si riferisce a termini quali certificazione, audit, assestments, approcci
a non meglio identificate costruzioni di rapporti e bilanci ambientali.
A questo punto è fondamentale operare una prima distinzione
tra le cosiddette tasse ambientali [4] che, rappresentando il “costo
dell’ambiente”, possono a volte essere “disincentivanti”, in quanto attraverso
l’imposizione di oneri influiscono sul comportamento dei produttori, e tasse
redistributive che consentono di raccogliere fondi per l’ambiente. Va
effettuata una distinzione anche tra gli incentivi finanziari e fiscali
riconosciuti dai vari Stati per migliorare la situazione ambientale, come ad
esempio i depositi con cauzione, ossia le tasse sui prodotti, rimborsate al
momento della consegna, che consentono di limitare l’inquinamento senza gravare
eccessivamente sui contribuenti (es. i contenitori di bevande, le batterie e gli
oli usati). Infine vanno ricordati i cosiddetti diritti-permessi di emissione
che consistono un una concessione fornita dalle amministrazioni pubbliche ai
vari soggetti aziendali riguardante, ad esempio, il massimo livello di emissione
che si può raggiungere in funzione delle aree geografiche e della tecnologia
esistente.
Nel Quinto Programma d’azione ambientale ( regolamento CEE n.
880/1992), è stato istituito l’Ecolabel, uno “strumento volontario”
consistente in un marchio di qualità ambientale, una eco-etichetta che
permette di segnalare ai consumatori la qualità ambientale dei prodotti che
rispettano il patrimonio naturale. Questo strumento si ispira all’Angelo
Azzurro, istituito in Germania nel 1977 e conosciuto ormai dai consumatori
di tutto il mondo; l’obiettivo è quello di creare un unico simbolo all’interno
dei Paesi dell’Unione Europea per consentire una più libera circolazione dei
prodotti ecocompatibili ed effettuando al contempo un’opera di sensibilizzazione
verso i consumatori sulle problematiche del rispetto ambientale.
L’Ecolabel, oltre a rispondere all’esigenza di ottenere dei
prodotti dichiarati “puliti”, è soprattutto una vera e propria opportunità di
marketing per le imprese, in quanto tende a realizzare una strategia di
prevenzione; rappresenta cioè una ipotetica garanzia di qualità, trattandosi di
un marchio registrato per permettere l’immissione sul mercato di produzioni
“verdi”. Si tratta in definitiva di uno strumento volontario che dovrebbe in
teoria garantire una qualità superiore rispetto agli standard legali.
Tutte le imprese che ottengono l’eco-etichetta assicurano una
migliore informazione sui loro prodotti a tutti i consumatori in quanto:
“La misura dell’impatto ambientale si basa sul principio from
cradle to grave, < dalla culla alla tomba >, poiché deve essere riferita
all’intero ciclo di vita dei prodotti che vengono sottoposti al sistema”. [5]
Nel Marzo 1992, la Commissione CEE, all’interno del Quinto
Programma di azione ha approvato il regolamento riguardante l’istituzione dell’Audit
ambientale, uno schema volontario che persegue l’obiettivo di promuovere un
miglioramento delle performance ambientali nelle attività industriali.
Le procedure di Audit ambientale sono nate in Canada nei
primi anni ’70 con lo scopo di assicurare l’igiene e la sicurezza nei luoghi di
lavoro; successivamente si sono estese a tutti i temi di sicurezza ambientale.
Nel regolamento CEE è previsto che, per realizzare la partecipazione volontaria
a questa procedura di certificazione, le imprese dovranno introdurre dei
programmi di gestione ambientale che saranno poi revisionati
sistematicamente.
Inoltre l’efficienza ambientale dell’azienda dovrà essere
resa pubblica attraverso le informazioni riportate nel report ambientale
e poi certificate da parte di accreditati verificatori. Si tratta in sostanza di
effettuare una valutazione sistematica, obiettiva e documentata della gestione
aziendale, con particolare riguardo alle sue politiche ambientali [6]. Le imprese
dovranno a tal fine pianificare nel “capital budget” i propri investimenti
ambientali, anche se risulta molto complesso determinare il loro ritorno
economico. Anche tale strumento può rivelarsi soltanto un semplice approccio ad
una più moderna concezione del marketing in quanto l’impresa ottiene un
miglioramento della propria immagine aziendale nei confronti dei mercati nei
quali i prodotti vengono immessi; miglioramento che porta anche a un più alto
consenso all’impresa da parte della comunità sociale del luogo dove questa ha
sede [7], ma ciò non necessariamente si trasforma in un diverso approccio alla
qualità della produzione funzionale ad uno sviluppo sostenibile ad alta
caratterizzazione sociale.
In sostanza l’Audit ambientale comporta il riconoscimento dell’importanza
e della necessità di rendere minime le ricadute ambientali delle attività produttive;
ma le imprese dovrebbero finalizzare la propria gestione al perseguimento di
obiettivi a forte connotato sociale, verificando le ricadute complessive della
propria attività in termini di qualità del prodotto, qualità e quantità di occupazione,
qualità ambientale e della vita dei cittadini, di redistribuzione complessiva
del reddito. Solo in tal modo perseguire gli obiettivi indicati dall’audit può
condurre a preservare il più possibile il patrimonio ambientale, riuscendo nel
contempo ad accrescerne il valore d’impresa e del Paese in funzione di una redistribuzione
sociale della ricchezza prodotta che investa il territorio, tutti i soggetti
economici, comprendendo fra questi oltre ai lavoratori anche coloro che, per
motivi diversi, sono esclusi o ai margini del circuito produttivo.
[1] Cfr. Lanza A., “Lo sviluppo sostenibile”, “Farsi un’idea”
,Il Mulino, Bologna, 1997.
[2] L’opzione ambientale costa, non c’è dubbio; ma quanto
costa l’opzione contraria? Così come, a proposito di qualità, si parla
abitualmente non del costo della qualità, ma del costo della “non qualità”, così
si dovrebbe parlare di un costo del “non ambiente”....Il consumo di risorse, il
consumo di energia costano. Investimenti ambientali che comportino una riduzione
nell’impiego di risorse, naturalmente a parità di altri fattori, comportano
invece un ritorno...Buoni investimenti ambientali in attività di produzione
possono anche comportare vantaggi in termini di efficienza degli impianti
esistenti, di valorizzazione di sottoprodotti, ecc.” in Longo E.,” Ambiente e
Impresa. Scenari, organizzazione, normative e controlli”, ETASLIBRI, Milano,
1993, pp.15-16.
[3] 4 Cfr. Pesaro G., ”L’impresa e la responsabilità per danno
ambientale”, in “Economia delle fonti di energia e dell’ambiente”, n.1/1994.
[4] Le tasse ambientali sulle emissioni sono diffuse nella
maggior parte dei Paesi europei (Germania, Danimarca, Italia, Belgio, Francia
ecc.) e sono imposte ai produttori e/o ai consumatori, con disponibilità a
pagare prezzi più alti per prodotti ecologici.
[5] Cfr. E. Sassoon, Rapisarda Sassoon C., “Management
dell’ambiente”, Il Sole 24Ore, Milano, 1993, p. 134.
[6] Cfr. E. Sassoon, Rapisarda Sassoon C., “Management....”,
op. cit. p.143.
[7] Fiano F., Oggioni A., Colagrande F., “L’Audit ambientale”,
in “Amministrazione & Finanza”, n.2, 1993.