Intorno alla rappresentanza sindacale: diversi profili per un approfondimento
Arturo Salerni
Maria Rosaria Damizia
Riprendiamo, in questo numero della rivista, alcune questioni relative alle regole in tema di rappresentanza sindacale. E’ la seconda parte del dossier curato per Proteo dall’Associazione Progetto Diritti e dal Comitato per una legge sui diritti e la rappresentanza sindacale: peraltro l’importanza di questo lavoro sta anche nell’attualità dell’argomento. Oltre all’articolo curato da Arturo Salerni e Maria Rosaria Damizia, che riprende ed utilizza schede e relazioni curate da alcuni collaboratori del Comitato per una legge sui diritti e la rappresentanza sindacale, pubblichiamo infatti la proposta approvata a seguito dell’ esame degli emendamenti dalla Commissione lavoro della Camera dei Deputati nel mese di settembre e che dovrà affrontare l’esame dell’aula. Su tale proposta, soprattutto in relazione alla necessità di una rapida approvazione della legge, il giudizio è globalmente positivo. Riteniamo peraltro che su alcune questioni fondamentali la proposta possa essere emendata e migliorata. Anche per discutere di questo il Cestes, l’Associazione Progetto Diritti, la rivista Proteo, il Comitato per una legge sui diritti e la rappresentanza sindacale, ed il Centro di Ricerca ed Elaborazione per la Democrazia organizzeranno un convegno di studio e di proposta per il mese di dicembre chiamando come interlocutori le forze politiche, sindacali e parlamentari.Nell’articolo che segue ci si soffermerà sulla evoluzione nel corso degli ultimi decenni degli istituti di rappresentanza sindacale (riprendendo una scheda elaborata da Laura De Rose), lanceremo uno sguardo a ciò che succede in altri paesi (grazie al minuzioso contributo offertoci dal Dott. Simonluca Dettori), vedremo quanto il concetto di maggiore rappresentatività sindacale incida su istituti di grande rilevanza sociale (utilizzando in ciò una scheda elaborata da Rosa de Sanctis), ripercorreremo velocemente proposte e disegni di legge presentati nel corso delle ultime legislature (sulla base di una ricerca della Dott.ssa Barbara Frateiacci) ed infine torneremo a qualche valutazione sull’attuale assetto normativo post-referendario (anche per l’utile contributo predisposto dal Dott. Andrea Volpini). Intendiamo peraltro doverosamente ringraziare i giovani studiosi che abbiamo indicati per l’impegno e l’intelligenza con cui si sono accostati ad una questione democratica che si tende ad occultare e che invece deve tornare ad occupare un ruolo centrale nel dibattito politico nella difficile fase di transizione che viviamo. |
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1. Evoluzione storica degli istituti di rappresentanza sindacale nei
luoghi di lavoro
Per portare un contributo alla riflessione e al dibattito
sulle proposte di riforma dell’attuale sistema, abbiamo ritenuto utile
evidenziare il tipo di soluzione che le forme di rappresentanza fino ad oggi
realizzatesi hanno offerto ad alcune questioni fondamentali. Si tratta di
questioni inevitabilmente connesse alla stessa esistenza di un organismo
rappresentativo degli interessi dei lavoratori a livello aziendale. Una prima
questione è ovviamente quella degli spazi di agibilità sindacale. La questione
cioè degli strumenti e degli spazi di cui questi diversi organismi hanno goduto
nello svolgimento della loro attività di rappresentanza e tutela dei
lavoratori: spazi ottenuti in una prima fase -anteriore al 1970- in forza della
contrattazione collettiva, e nella fase successiva anche in forza delle norme
contenute nello Statuto dei Lavoratori .L’approvazione dello Statuto è da
considerarsi una tappa essenziale perché da questo momento, pur nel
riconoscimento formale della libertà dell’attività sindacale sul luogo di
lavoro per ogni aggregazione sindacale, si instaura una situazione per cui
esistono attività e associazioni sindacali dotate di strumenti e garanzie ed
attività invece prive di strumenti (se si fa eccezione per la tutela prevista
contro gli atti discriminatori e per il generico riconoscimento della libertà
di proselitismo). Si pone quindi il problema del diritto ad accedere al sostegno
legislativo nello svolgimento dell’attività sindacale sul luogo di lavoro,
cioè il problema dell’individuazione degli organismi titolari dei diritti
riconosciuti dal titolo III dello Statuto. Ma la questione dell’agibilità
sindacale e della legislazione di sostegno non è che uno degli aspetti legati
all’organizzazione sindacale dei lavoratori nell’impresa. Altre questioni
fondamentali sono quella della natura dell’organismo aziendale di
rappresentanza dei lavoratori (è il problema dell’alternativa tra modello di
organismo unitario elettivo, espressione anche dei lavoratori non iscritti al
sindacato, e il modello associativo), quella del rapporto che deve intercorrere
tra l’organismo aziendale e le associazioni sindacali esterne all’azienda, e
quella inerente i poteri che deve avere l’organismo aziendale, ovvero se esso
debba avere poteri contrattuali.
* * * * *
Appare opportuno iniziare una storia della rappresentanza dei
lavoratori all’interno dell’impresa accennando brevemente alle vicende delle
commissioni interne, storicamente i primi organismi diretti a garantire
rappresentanza e tutela dei dipendenti sul posto di lavoro. Si tratta di vicende
risalenti nel tempo, ma che dimostrano come alcune delle questioni sopraindicate
costituiscano una costante nella storia degli istituti di rappresentanza sul
luogo di lavoro. Nate come organismi occasionali in seguito a profonde ed estese
agitazioni, ricevono il loro primo riconoscimento dal contratto collettivo
Fiom-Itala nel 1906. Da questo momento la diffusione delle c.i. vede il
tentativo del sindacato di farne uno strumento di controllo sul piano aziendale.
In alcuni casi il tentativo ha successo: un accordo del 1919 tra Fiom e
Consorzio torinese dell’industria delle automobili riconosce le c.i. e esclude
dal diritto di voto per la composizione dell’organismo i non iscritti al
sindacato. La questione è appunto se le c.i. debbano continuare ad essere
organismi eletti da tutti i dipendenti, compresi i non iscritti al sindacato, o
se debbano essere espressione del sindacato stesso. E’ chiaro che ciò che è
in gioco è l’esistenza e la natura del collegamento tra l’organizzazione
dei lavoratori dentro la fabbrica e il sindacato esterno. Ciò appare evidente
nella polemica interna allo stesso sindacato tra i sostenitori e gli avversari
del movimento torinese dei consigli di fabbrica , in cui un rilievo fondamentale
ha la figura di Antonio Gramsci. Il movimento tendeva al superamento della c.i.
e alla sua sostituzione con il Consiglio di fabbrica, organismo che si
distingueva dalla c.i. per la natura rivoluzionaria dei suoi obiettivi e per il
suo essere distinto dal sindacato. I suoi membri venivano eletti reparto per
reparto, ed esso rappresentava la generalità dei lavoratori. Commissioni
interne e Consigli di fabbrica saranno i protagonisti del biennio rosso del
1919/20, culminato nell’occupazione delle fabbriche.
Le commissioni interne negli accordi dal dopoguerra al 1966. La struttura di
organismi unitari elettivi. La diffidenza dei sindacati e la progressiva
riduzione dei poteri dell’organismo.
E’ un accordo tra Cgl e Confindustria del 1943, il c.d.
accordo Buozzi-.Mazzini, a reintrodurre le c.i. dopo che l’ordinamento
corporativo fascista le aveva abrogate. Negli anni seguenti l’istituto viene
nuovamente e a più riprese disciplinato tramite accordi interconfederali: così
nel 1947, nel 1953, fino all’accordo- formalmente ancora in vigore - del 1966.
Che si tratti di un organismo di origine e disciplina contrattuale, e che tale
rimarrà - nonostante venga più volte formulata la proposta di disciplinare l’istituto
per via legislativa - è fatto importante, perché ciò ne consentirà il
congelamento ad opera dei sindacati negli anni settanta. Gli accordi in
questione disciplinano la struttura dell’istituto senza variazioni. La c.i -
definita organo di rappresentanza dei lavoratori dell’azienda nei confronti
della direzione- è costituita in ciascuna unità produttiva all’ interno di
imprese industriali in cui siano occupati più di 40 lavoratori. E’ un
organismo elettivo unitario, composto di operai e impiegati eletti separatamente
in rappresentanza delle rispettive categorie. La consultazione elettorale
avviene secondo il sistema elettorale proporzionale, per liste contrapposte, con
voto diretto e segreto. Il riconoscimento del potere di indire le elezioni - in
via sussidiaria rispetto alla c.i. uscente che è tenuta a farlo- spetta alle
associazioni sindacali e a gruppi di lavoratori che dichiarino preventivamente
di voler presentare delle liste. La presentazione delle liste è aperta ad ogni
gruppo di lavoratori; solo l’accordo del 1966 richiede per le unità
lavorative con più di 500 occupati che la presentazione della lista sia
accompagnata dalla firma di un numero di elettori pari al 3% del totale. Il
diritto dei sindacati di presentare liste di propri candidati non presuppone
comunque un rapporto organico tra c.i. e sindacati: infatti i sindacati
presentatori non hanno potere di revoca o di sostituzione dei membri della c.i.
eletti nelle proprie liste. E’ interessante notare come sia previsto invece un
meccanismo di revoca prima della scadenza del mandato (art. 8 dell’accordo del
1966) su deliberazione conforme del 51% dei dipendenti dell’unità aziendale.
I vari accordi si differenziano per quanto attiene alla definizione dei compiti
e dei poteri delle c.i., con una progressiva riduzione dei compiti di questo
organismo. L’accordo Buozzi-Mazzini prevedeva il potere delle c.i. di
stipulare contratti collettivi relativi alla dimensione dell’impresa , sia
pure previa autorizzazione della locale associazione sindacale. Questo potere
scompare nell’accordo del 1947, attraverso cui peraltro alle c.i. vengono
riconosciuti importanti poteri limitativi del potere dell’imprenditore in
materia di licenziamenti collettivi e individuali, poteri che verranno
trasferiti alle associazioni sindacali nel 1950. Il ridimensionamento
progressivo del ruolo delle c.i. si spiega proprio con la loro natura di
organismi unitari ed elettivi, e con le implicazioni che ciò comporta sul piano
del rapporto con il sindacato esterno. Un organismo i cui componenti sono eletti
dalla totalità dei lavoratori, iscritti e non al sindacato, ha perciò stesso
una legittimazione forte a rappresentare la collettività che lo ha eletto: e
questo comporta in potenza un contrasto con l’associazione sindacale esterna e
con la sua pretesa di rappresentatività. Questo spiega sia perchè gli accordi
sulle c.i. dal 1947 in poi neghino potere negoziale alle c.i., riservando alle
organizzazioni sindacali la disciplina collettiva dei rapporti di lavoro e le
relative controversie, sia perché tale riserva sia finita inosservata non di
rado, e siano numerosi nel corso degli anni cinquanta i casi di contratti
aziendali stipulati dalle c.i.(e spiega anche perché non si sia mai arrivati ad
un riconoscimento legislativo delle c.i.). La c.i., priva quindi - almeno
formalmente - di poteri contrattuali, assolve ad una serie di compiti di
carattere preventivo (la c.i vigila sull’applicazione del contratto collettivo
e degli accordi sindacali, della legislazione sociale e delle norme sull’igiene
e la sicurezza sul lavoro), conciliativo (tenta in prima istanza il componimento
delle controversie collettive e individuali sorte tra prestatori e
imprenditore), propulsivo (formula proposte per il migliore andamento dei
servizi aziendali e il perfezionamento dei metodi di lavoro), deliberativo
(contribuisce all’elaborazione degli statuti e dei regolamenti interni di
carattere sociale, previdenziale, assistenziale, culturale, ricreativo) e
consultivo (esamina con la direzione in via preventiva gli schemi di regolamenti
interni, l’epoca delle ferie, la determinazione dell’orario di inizio e di
cessazione del lavoro nei vari giorni della settimana). Per consentire lo
svolgimento delle attività strumentali rispetto ai compiti in questione gli
accordi dettano regole che impegnano le imprese a mettere a disposizione delle
c.i. locali per le riunioni e spazi per le affissioni. Si rimanda invece ad
accordi tra la c.i. e la direzione per quanto attiene alle riunioni dei
lavoratori e si condiziona la possibilità per i membri della c.i. di assentarsi
durante l’orario per espletare i propri compiti alla concessione dell’autorizzazione
da parte della direzione. Gli accordi contengono infine norme dirette alla
tutela dei componenti della c.i. in caso di trasferimento o di licenziamento,
norme che peraltro richiedono il nulla osta delle associazioni sindacali
territoriali.
Nate in una fase di unità sindacale le c.i. sopravvivono
alla scissione della CGL nel 1948 e alla nascita di CGIL ,CISL e UIL.
Sopravvivono come organismi unitari ma la competizione esistente tra le tre
confederazioni fa si che ciascuna di esse tema di divenire minoritaria nella
singola impresa: una simile dinamica non può ovviamente che contribuire alla
svalorizzazione del ruolo delle c.i..
L’esperienza delle sezioni sindacali aziendali. Il modello associativo di
rappresentanza sindacale aziendale.
Espressione dell’intera collettività aziendale, lavoratori
non sindacalizzati compresi, e organismo a carattere unitario in regime di
divisione sindacale: ragioni sufficienti per far considerare le c.i. non
sufficientemente affidabili, specialmente da parte della CISL, organizzazione
con un radicamento nelle fabbriche assai inferiore rispetto a quello della CGIL.
Da queste ragioni origina il tentativo della CISL (seguito poi dalla CGIL e
dalla UIL) - a metà anni cinquanta - di lanciare le s.a.s., sezioni sindacali
aziendali , organismi incardinati nell’organizzazione sindacale. Era il
tentativo di creare organismi di rappresentanza sul luogo di lavoro secondo il
modello associativo, alternativo rispetto a quello dell’organismo unitario
elettivo. Doveva consentire a ciascuna organizzazione sindacale di dotarsi di
una propria struttura rappresentativa a livello di impresa . In realtà, là
dove vengono create, le s.a.s. più che strutture di base del
sindacato-associazione si rivelano organi decentrati in azienda del sindacato
territoriale. Non hanno autonomia rispetto ad esso; gli organi sociali -
assemblea degli iscritti, direttivo e segretario- funzionano poco e male. Anche
i compiti loro riconosciuti sono scarsi, ed essi non hanno potere negoziale.
Viene loro negato il ruolo di agenti contrattuali a livello di azienda anche nel
momento in cui, all’inizio degli anni 60, si riconosce la contrattazione
aziendale- sia pure riservandole un ruolo integrativo rispetto alla
contrattazione di livello superiore- con l’avvio del sistema della
contrattazione articolata. Le s.a.s. sono un’esperienza che riflette in modo
esemplare lo spirito di un sindacalismo che concepisce il raccordo con la base
in termini di controllo dall’alto, anziché di partecipazione della stessa ai
processi decisionali. Il tentativo di creare organismi alternativi alle
commissioni interne fallisce. Il carattere necessariamente parziale della
rappresentanza rivestito dalla s.a.s. a fronte dell’universalità della
rappresentanza della c.i. fa sì che la commissione interna continui ad essere
il punto di riferimento in azienda per i lavoratori e interlocutore privilegiato
per gli imprenditori.
Il superamento delle tradizionali forme di organizzazione dei lavoratori
nelle imprese. I delegati, il consiglio di fabbrica, l’assemblea dei
lavoratori.
La fine degli anni sessanta vede una ripresa di attivismo
operaio nelle fabbriche, che trova le sue ragioni nei radicali mutamenti che
investono il sistema produttivo e la composizione stessa della classe operaia,
nonché nell’aggravarsi del disagio sociale proprio dei grandi centri
industriali. Questa ripresa è segnata dall’insoddisfazione verso il
sindacalismo confederale, la cui politica viene vissuta dai lavoratori come
distante dal luogo di lavoro. Le tradizionali strutture rappresentative entrano
in crisi. Appaiono inadeguate le s.a.s., perché espressioni di una rigida
logica associativa e della divisione sindacale, e le c.i. perché svuotate di
poteri. Sulle c.i. pesano anche le modalità di elezione e composizione che non
consentono un’articolazione della rappresentanza in grado di riflettere la
realtà delle condizioni di lavoro e dunque degli interessi dei lavoratori.
Questa situazione spinge verso la ricerca di nuovi canali organizzativi. Da
questa spinta nascono sia l’esperienza dei Comitati unitari di base, sia
quella dei delegati. Le nuove forme di autorganizzazione si caratterizzano per
il loro essere unitarie: l’unità di organizzazione ha il suo fondamento nell’omogeneità
degli interessi dei lavoratori, omogeneità che a sua volta discende dalla
organizzazione della processo produttivo. Ad una comune collocazione nel
processo produttivo corrisponde una comune condizione di lavoro, e dunque un
interesse collettivo, che deve trovare nuove forme di organizzazione e tutela.
La figura del delegato - nella prima fase della sua esistenza- assolve proprio a
tale esigenza: è espressione di un gruppo omogeneo di lavoratori, che lo nomina
informalmente in assemblea (presto si afferma il metodo dell’elezione su
scheda bianca, con esclusione di liste predeterminate, al di fuori delle
indicazioni di vertice); il delegato non è necessariamente sindacalizzato.
Riceve un mandato relativamente ad una concreta vertenza e può essere revocato
in ogni momento da parte dell’assemblea che lo ha nominato. E’ l’assemblea
,in forza dello stretto rapporto che ha con il delegato, che conduce la
contrattazione sugli aspetti del lavoro legati alla realtà del gruppo omogeneo.
I delegati, e in ciò sta una delle differenze fondamentali rispetto alla c.i.,
svolgono il ruolo di agenti contrattuali. La loro attività di contrattazione
investe tutti i principali aspetti della condizione di lavoro specifica del
gruppo omogeneo, ma anche alcuni aspetti già disciplinati dal contratto
nazionale. La contrattazione collettiva di questo periodo disciplina l’attribuzione
di diritti sindacali ai delegati (tutela da licenziamenti e trasferimenti,
permessi, riunioni). In un secondo momento i delegati si unificano in organismi
più ampi, per organizzare un’azione in grado di superare la dimensione
specifica del reparto. Nasce il consiglio di fabbrica, organismo unitario e
rappresentativo di tutto il personale occupato nell’impresa, costituito dall’insieme
di tutti i delegati dell’impresa stessa e in esso si concentrano i poteri
contrattuali già direttamente attribuiti ai delegati. Le figure dei delegati e
del cdf sono nate come fenomeni di autorganizzazione operaia nel corso delle
lotte degli anni 1968-69, a fronte dell’inadeguatezza delle tradizionali
strutture rappresentative e, spesso, in polemica con il sindacalismo
confederale. Ma le confederazioni riescono a recuperare il ritardo politico e
organizzativo che ha portato allo sviluppo di queste esperienze di base,
attraverso un processo che non è lineare nè facile da illustrarsi, se non a
costo di semplificazioni enormi. Momenti essenziali di questo processo di
raccordo tra movimento e organizzazioni sindacali tradizionali - di recupero del
movimento in seno al sindacalismo confederale- sono l’approvazione dello
Statuto dei lavoratori nel 1970 e il Patto federativo tra Cgil, Cisl e Uil nel
1972. Con lo Statuto si detta una normativa di sostegno allo svolgimento dell’attività
sindacale all’interno dell’impresa. Ma chi gode del sostegno consistente in
una serie di diritti sindacali (riunioni, permessi, affissioni, potere di indire
i referendum) nonché in importanti garanzie in caso di trasferimenti o
licenziamenti dei dirigenti sindacali sono solo le rappresentanze sindacali
aziendali che rispondono ai criteri dettati dall’art19. Solo, cioè, quelle
costituite nell’ambito del sindacalismo confederale maggiormente
rappresentativo sul piano nazionale o di sindacati firmatari di contratti
sovraziendali applicati nell’ unità produttiva. Il riconoscimento dell’iniziativa
dal basso nella costituzione della rappresentanza sindacale come condizione per
l’accesso al sostegno legislativo (art.19) viene così ridimensionato dai
criteri selettivi previsti dall’articolo: l’organizzazione spontanea che
voglia giovarsi della tutela offerta dallo Statuto è spinta in sostanza a
confluire nell’organizzazione sindacale tradizionale.
Con il Patto federativo siglato nel 1972 Cgil ,Cisl e Uil
riconoscono i cdf come istanze di base con poteri di contrattazione sui posti di
lavoro. Accolgono cioè i cdf nel loro ambito, per usare l’espressione dello
Statuto dei lavoratori, ma al tempo stesso si preoccupano di delineare un
modello di consiglio di fabbrica nettamente collegato all’organizzazione
sindacale esterna.
Leggiamo dal documento del Patto federativo: “in tale
organismo [cioè nel cdf] e, ove esiste, nell’Esecutivo, deve essere
assicurata la rappresentanza delle forze sindacali che operano nell’azienda
stessa e che costituiscono la Federazione.” Per raggiungere quest’obiettivo
lo strumento da utilizzare è il sistema elettorale: “A tale fine le
Confederazioni si impegnano a concordare un modello elettorale che dovrà
garantire l’applicazione del principio suindicato”. Meccanismi adottati
saranno per esempio l’allargamento del collegio elettorale oltre il gruppo
omogeneo, così da consentire la presenza di più tendenze sindacali, o la
previsione di membri del cdf nominati direttamente ad opera del sindacato
provinciale. La strategia di riassorbimento delle nuove strutture da parte del
sindacalismo confederale non elimina il fatto che attraverso di esse si realizzi
un forte allargamento della partecipazione e un effettivo decentramento del
potere decisionale dal punto di vista delle politiche contrattuali. Ma la
stagione in cui i Consigli svolgono un ruolo di primo piano nelle lotte
sindacali non è lunga; già a metà degli anni 70 si innesca una serie di
fattori che porteranno alla crisi di questa esperienza.
La crisi dei consigli unitari
Un primo fattore sta nel mutamento di ruolo del sindacato,
che da attore del conflitto di classe si fa compartecipe e responsabile delle
scelte di politica economica. Questo processo, che ha inizio già a metà degli
anni ‘70 con la crisi economica conseguente allo shock petrolifero, comporta
necessariamente una compressione delle istanze di base, in favore di una
rinnovata centralizzazione nella determinazione e nell’attuazione delle
politiche sindacali. Un momento “simbolo” di questo percorso di
mutamento del sindacalismo italiano è dato dalla c.d. svolta dell’Eur del
1978. Si sostiene che è una necessità nazionale difendere la produzione in sé
e si accetta di scambiare una politica di sacrifici con la partecipazione del
sindacato a scelte di politica economica che dovrebbero portare ad una ripresa
degli investimenti e della produzione. Il primo accordo nella storia della
negoziazione trilaterale , il c.d. Protocollo Scotti sul costo del lavoro,
siglato nel 1983, dimostra come concertazione e centralizzazione della
contrattazione collettiva vadano di pari passo. L’accordo impone infatti forti
limitazioni alla contrattazione aziendale, affermando che “la
contrattazione a livello aziendale non potrà avere per oggetto materie già
definite in altri livelli di contrattazione.” Assistiamo ad una tendenza
opposta a quella che a fine anni 60 aveva portato alla fine del sistema di
contrattazione articolata e alla affermazione di una contrattazione aziendale
che non aveva limiti né rispetto ai temi né con riguardo alle possibilità di
carattere economico.
Un altro fattore che accelera la crisi dei c.d.u. è da
rinvenirsi nella rottura del Patto federativo, verificatasi in seguito al
rifiuto della CGIL di aderire al c.d. accordo di S.Valentino del 1984. In alcuni
casi i cdu si scioglieranno per la fuoriuscita di componenti che daranno vita a
proprie rsa, in base al diritto loro riconosciuto dall’art.19 dello Statuto
dei Lavoratori.
La riforma della rappresentanza sindacale di base. Dal mancato accordo sui
Cars all’intesa sulle Rsu del 1991. L’accordo del 1993.
I tentativi delle tre confederazioni storiche di intervenire
sulla questione della rappresentanza aziendale dettando una disciplina uniforme
delle stesse risalgono alla fine degli anni ottanta. E’ del 1989 la bozza di
accordo sui Consigli aziendali delle rappresentanze sindacali (Cars), del 1991 l’intesa
tra le tre confederazioni sulle Rsu, del dicembre ‘93 l’accordo
interconfederale per la disciplina delle Rsu. L’analisi del contenuto dei tre
accordi - il primo dei quali non si è concluso, ma costituisce un precedente
interessante dell’accordo del ‘93- consente di capire in che modo le stesse
questioni che hanno influito sulla crisi dei cdu condizionano la ricerca da
parte delle tre confederazioni di nuove forme di rappresentanza a livello
aziendale. Nella definizione di nuove regole per la rappresentanza le
Confederazioni intendono affrontare e risolvere essenzialmente tre questioni:
una interna ai rapporti tra le tre Confederazioni, conseguente alla rottura del
patto federativo; una che possiamo riassumere nell’esigenza di individuare un
soggetto negoziale all’interno dell’azienda certo e riconoscibile, problema
che si pone in relazione al negoziato sull’assetto contrattuale in corso con
la Confindustria, un’altra riguardante la definizione del rapporto tra
organismi di base e generalità dei lavoratori (questione che origina anche da
un’esigenza di recupero di legittimazione da parte del sindacalismo
confederale, ma non si esaurisce in questo, come appare evidente dalle soluzioni
adottate). La bozza di accordo sui Cars affrontava le questioni sul tappeto in
un modo un po’ “grossolano ma chiaro” (come scrive Alleva): l’organo
di rappresentanza doveva essere composto per metà da membri eletti dalla
generalità dei lavoratori, iscritti o meno al sindacato, e per metà da membri
designati pariteticamente dai sindacati di categoria aderenti alle tre
Confederazioni. Per poter presentare liste e partecipare alla competizione
elettorale i lavoratori non affiliati a C.G.I.L., C.I.S.L. e U.I.L. avrebbero
dovuto raccogliere un numero di firme elevatissimo: dal 20% al 10% degli aventi
diritto al voto, a seconda che la votazione si riferisse a singole aree o all’intera
unità produttiva. All’organismo così formato l’accordo riconosceva il
potere contrattuale all’interno dell’unità produttiva. In questo modo si
sarebbero raggiunti più risultati: la divisione paritetica tra Cigl, Cisl e Uil
della quota non elettiva (che avrebbe consentito il rafforzamento delle riemerse
tendenze unitarie tra le tre Confederazioni), l’adozione di un criterio di
proporzionalità quanto alla ripartizione del monte ore complessivo dei permessi
sindacali , la composizione del Consiglio aziendale, per metà elettivo e per
metà, come è stato detto, “di nomina regia”, col tentativo quindi
di risolvere la questione del rapporto con i lavoratori non iscritti,
riconoscendo ad essi un canale di espressione, senza che questo peraltro
pregiudicasse un più che saldo controllo delle O.O.S.S. sugli organismi di
base. I limiti imposti alla presentazione delle liste avrebbero fortemente
limitato la possibilità che l’organismo rappresentasse tendenze sindacali
esterne alle Confederazioni firmatarie dell’accordo. Il riconoscimento ad un
organismo così composto del potere contrattuale risultava compatibile con l’assetto
contrattuale verso il quale ci si avviava, caratterizzato dalla rinnovata
imposizione di vincoli alla contrattazione aziendale. L’accordo sui Cars non
va comunque in porto. L’intesa tra le tre Confederazioni del 1991 segna da
questo punto di vista un passo avanti, perchè in essa è previsto che i membri
della Rsu siano tutti elettivi. Resta il Patto interno in base al quale Cgil,
Cisl e Uil si ripartiscono in maniera paritaria il 33% dei loro eletti. Viene
anche abbassata la soglia di adesioni richiesta per la presentazione delle liste
da parte dei lavoratori non affiliati alle tre confederazioni. Va notato
comunque che per Cgil ,Cisl e Uil non è prevista alcuna soglia minima per
procedere alla presentazione delle liste. L’intesa del 1991 è stipulata tra
le Confederazioni in vista di un successivo accordo con la controparte
datoriale. L’accordo interverrà due anni dopo, nel dicembre ‘93, preceduto
da due intese cruciali, il Protocollo del 31 luglio ‘92 e il Protocollo d’intesa
del luglio ‘93. Passaggi cruciali anche per capire perché la disciplina delle
Rsu contenuta nell’accordo del dicembre ‘93 si discosti dall’intesa tra le
Confederazioni del ‘91 su un punto importante, relativo alla composizione
delle Rsu: la presenza del “terzo” riservato alle associazioni
stipulanti.
Il Protocollo del luglio ‘92 - nella parte in cui prevede
il blocco della contrattazione aziendale- e quello del luglio ‘93 nella parte
dedicata agli assetti contrattuali, delineano il nuovo ruolo della
contrattazione. Leggiamo nel testo dell’ultima intesa che la contrattazione di
secondo livello riguarda le materie oggetto di rinvio da parte del CCNL..E
ancora che “la contrattazione aziendale riguarda materie e istituti diversi
e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del CCNL”. Si torna
in sostanza ad un ruolo puramente integrativo della contrattazione aziendale. Un
assetto contrattuale di questo genere richiede necessariamente il controllo
sulle strutture di base. E’ in questione la “solvibilità del sindacato”.
Lo pensano chiaramente anche i firmatari dell’intesa. Per questo non stupisce
che nella parte dell’intesa relativa alla rappresentanza sindacale aziendale
si trovi espressamente affermato che “al fine di assicurare il necessario
raccordo tra le organizzazioni stipulanti i contratti nazionali e le
rappresentanze aziendali titolari delle deleghe assegnate dai medesimi, la
composizione delle rappresentanze deriva per 2/3 dall’elezione da parte di
tutti i lavoratori, e per 1/3 da designazione da parte delle organizzazioni
stipulanti il CCNL, che hanno presentato liste in proporzione ai voti ottenuti.”
Formula che è alla base della disciplina delle Rsu dettata con l’accordo
interconfederale del dicembre ‘93.
2. Il ruolo dei Sindacati maggiormente rappresentativi e “minori”
durante la fase della contrattazione collettiva. Una visione comparativistica
L’ambito europeo
La nascita della CEE nel 1958 ha costituito un punto
importante nelle vicende del sindacalismo del vecchio continente. Nel corso di
tre decenni l’integrazione europea ha favorito il diffondersi di aziende con
produzione di beni e servizi in più di un Paese CEE, ed i paesi europei hanno
al contempo sviluppato alcune politiche comuni. Si è arrivati nel 1989 alla
formulazione della Carta Sociale Europea che detta precise disposizioni in
materia di libertà di associazione, contrattazione collettiva, informazione,
consultazione e partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa in cui
prestano la loro opera. All’articolo 11 della Carta Sociale, infatti, si
prevede che i datori di lavoro e i lavoratori della Comunità europea hanno il
diritto di associarsi liberamente allo scopo di costituire le organizzazioni
professionali o sindacali di loro scelta per la difesa dei loro interessi
economici e sociali. Ogni datore di lavoro ed ogni lavoratore ha la facoltà di
aderire o di non aderire a queste organizzazioni senza che ne possa derivare un
danno personale o professionale. I datori di lavoro o le organizzazioni dei
datori di lavoro, da un lato, e le organizzazioni dei lavoratori, dall’altro,
hanno il diritto, alle condizioni previste dalle legislazioni e dalle prassi
nazionali, di negoziare e concludere contratti collettivi. Il dialogo che deve
instaurarsi tra le parti sociali a livello europeo può giungere a rapporti
contrattuali, soprattutto su scala interprofessionale e settoriale. L’articolo
13 stabilisce, inoltre, che il diritto di ricorrere, in caso di conflitti di
interessi, ad azioni collettive comprende il diritto di sciopero, fatti salvi
gli obblighi risultanti dalle regolamentazioni nazionali e dai contratti
collettivi. Per favorire la composizione della vertenza di lavoro occorre
incoraggiare, conformemente alle prassi nazionali, l’istituzione e l’impiego,
ai livelli appropriati di procedure di conciliazione, mediazione e arbitrato.
Per l’articolo 14 l’ordinamento giuridico interno degli Stati membri
determina a quali condizioni e in quale misura i diritti previsti agli articoli
11, 12 e 13 siano applicabili all’esercito, alla polizia e al pubblico
impiego. Secondo gli articoli 17 e 18 occorre sviluppare l’informazione, la
consultazione e la partecipazione dei lavoratori secondo modalità adeguate,
tenendo conto delle prassi vigenti nei diversi Stati membri. Ciò vale, in
particolare, nelle imprese o nei gruppi che hanno stabilimenti o imprese situati
in più Stati membri della Comunità europea. L’informazione, la consultazione
e la partecipazione devono essere realizzate tempestivamente e in particolare al
momento dell’introduzione nelle imprese di mutamenti tecnologici aventi
incidenze notevoli per i lavoratori in ordine alle condizioni di lavoro e all’organizzazione
dello stesso ed in occasione di ristrutturazioni o fusioni di imprese che
incidono sull’occupazione dei lavoratori, in occasione di procedure di
licenziamenti collettivi, ed inoltre quando determinate politiche occupazionali
seguite dall’impresa hanno ripercussioni sui lavoratori della stessa, in
particolare, su quelli transfrontalieri.
La Direttiva 94/45/CE
La Direttiva 94/45/CE adottata dal Consiglio il 22 settembre
1994 istituisce nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie
un comitato aziendale europeo o una procedura per l’informazione e la
consultazione dei lavoratori. Per impresa di dimensioni comunitarie si intende
un’impresa che impiega almeno 1000 lavoratori negli Stati membri e almeno 150
lavoratori per Stato membro in almeno due Stati. Per favorire il più possibile
il diritto all’informazione e alla consultazione dei lavoratori la suddetta
direttiva stabilisce che la procedura per costituire i comitati possa essere
iniziata dalla direzione centrale dell’impresa o attraverso una richiesta
scritta presentata da almeno 100 lavoratori di almeno due imprese o stabilimenti
situati in non meno di due Stati membri diversi.
Il diritto di associazione come fondamentale diritto umano
Il diritto di associazione è un diritto sociale di base
riconosciuto in vari documenti internazionali quali la Dichiarazione Universale
dei Diritti Umani dell’ONU e l’accordo n. 87 dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro (OIL) sulla Libertà di Associazione. In ambito
europeo, in particolare, va rammentato che la Convenzione europea per i diritti
umani stabilisce, all’articolo 11, che ogni individuo ha il diritto di libera
e pacifica assemblea e il diritto di associarsi con altri, incluso il diritto di
formare e aderire a sindacati per la protezione dei propri interessi. Secondo lo
stesso articolo nessuna restrizione potrà essere posta all’esercizio di
questi diritti se non quelle prescritte dalla legge in casi ben determinati.
Quest’articolo non impedisce l’imposizione di restrizioni di legge sull’esercizio
di questi diritti per i membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione
dello Stato. A questo proposito la Corte Europea per i Diritti Umani nel 1982
con la sentenza Young, James and Webster v. UK, stabilisce che vi è violazione
della Convenzione Europea dei Diritti Umani nel caso in cui dei dipendenti siano
licenziati perché si rifiutano di aderire a un determinato sindacato nell’ambito
del sistema anglosassone del closed shop. La Corte non solo decreta che il
licenziamento è in contrasto con l’art.11 della Convenzione ma sottolinea che
la parola “sindacati” (al plurale) contenuta in questo articolo è
una chiara dimostrazione della necessità di una pluralità di sindacati all’interno
di una impresa.