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Antonio Di Stasi
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Ricercatore, Università di Ancona

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Globalizzazione per chi e contro chi

Antonio Di Stasi

Il recepimento della direttiva europea sul contratto a termine può essere l’occasione per modificare l’attuale e permissiva disciplina legislativa e riaffermare fondamentali tutele del lavoratore

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L’anno, o poco più, che ci divide dalla data (10 luglio 2001) entro cui deve essere recepita la direttiva europea n. 1999/70/Ce del 28 giugno 1999, che fa proprio l’accordo quadro europeo sul lavoro a tempo determinato stipulato dalle parti sociali il 18 marzo 1999, è già visto da giuristi e forze politiche padronali come l’occasione per rendere, sempre più, il contratto di lavoro a tempo determinato la regola e il contratto a tempo indeterminato l’eccezione (RENDINA, 1999). Eppure questa può essere l’occasione per iniziare nuovamente a capire l’importanza della limitazione del ricorso ai contratti a termine proprio per difendere lo stesso diritto del lavoro. Se fosse ulteriormente ampliata la possibilità di ricorrere ai contratti a termine il diritto del lavoro sarebbe svuotato dal di dentro: la tutela del rapporto
 formalmente identica a quella del lavoratore a tempo indeterminato - rischierebbe di diventare ineffettiva di fronte ad un lavoratore che dal primo giorno di lavoro conosce la data del suo licenziamento e che è cosciente che la possibilità di avere un ulteriore contratto di lavoro dipende dal gradimento che egli come lavoratore e come persona mantiene nei confronti dell’impresa.

Nei rapporti di lavoro precario, l’assenza di stabilità dell’occasione lavorativa, e la condizione di incertezza che ne deriva, pongono il lavoratore in una situazione di “maggiore subordinazione” rispetto al lavoratore assunto a tempo indeterminato (BALLESTRERO, 1987) con il rischio di tramutare la flessibilità in precarizzazione assoluta del rapporto di lavoro. Le ricadute sul persona-lavoratore sono più che ovvie con la possibilità che nei soggetti più esposti socialmente si verifichi una condizione di soggezione assoluta, quasi una forma di “sottomissione”.

I risvolti connessi a tale situazione di instabilità sono facilmente individuabili: marginalizzazione delle attività sindacali, privazioni di tutele, maggiore disponibilità dei lavoratori precari di fronte alle richieste imprenditoriali, nella speranza di vedersi trasformare a tempo indeterminato il rapporto di lavoro.

Il semplice dato della caduta verticale di sindacalizzazione dei lavoratori con contratto a termine è ulteriore corollario, eppure le confederazioni sindacali hanno un ruolo non indifferente nell’allargare sempre più la possibilità di ricorrere al contratto a termine.

 

2. Il ruolo deregolamentante della contrattazione collettiva

 

La legge n. 230 del 1962, sulle cui ragioni e sul cui significato tornerò oltre, ha per più di un ventennio evitato il ricorso fraudolento al contratto a tempo determinato attraverso la limitazione tassativa ed eccezionale dei casi leciti di contratti a termine (stagionalità, sostituzione di lavoratori assenti, straordinarietà e occasionalità di un’attività predeterminata nel tempo, lavorazioni limitate ed altamente specializzate) e con un apparato sanzionatorio efficace (trasformazione del rapporto a tempo indeterminato fin dal suo sorgere).

Il primo significativo intervento erosivo della disciplina limitativa si è avuto a fine anni ’70 quando, con la l. n. 18 del 1978, si è introdotta una nuova ipotesi di assunzione a termine in aggiunta a quelle indicate nella legge n. 230 del 1962. La nuova ipotesi, limitatamente ai settori del commercio e del turismo, permetteva di stipulare contratti di lavoro a termine “quando si verifichi in determinati e limitati periodi dell’anno, una necessità di intensificazione dell’attività lavorativa, cui non sia

possibile sopperire con il normale organico”.

Da allora l’allargamento delle maglie limitative del ricorso al tempo determinato si sono estese sempre di più anche con il consenso delle confederazioni sindacali dei lavoratori registrandosi una certa convergenza di opinioni sulla opportunità di introdurre forme di impiego flessibile della manodopera. L’intervento legislativo, e segnatamente la l. 25 marzo 1983 n. 79, ha recepito quanto previsto dal protocollo di intesa tra Governo e parti sociali (il c.d. Accordo Scotti del 1983) e cioè, a fronte di un diritto di precedenza del lavoratore nelle assunzioni con la medesima qualifica e presso la stessa azienda, la possibilità di ricorrere ai contratti a termine da parte delle aziende di “tutti i settori economici quando si verifichi, in determinati e limitati periodi dell’anno, una intensificazione dell’attività produttiva cui non sia possibile sopperire con il normale organico”.

Il processo di delegificazione che agli inizi degli anni ’80 aveva portato ad una prima apertura nei confronti del rapporto di lavoro a tempo determinato è continuato ancora nel corso degli anni permettendo, con la legge n. 56 del 1987, un passaggio dal sistema della tipizzazione alla liberalizzazione del contratto a termine. Con l’art. 23 della suddetta legge “l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro, oltre che nelle ipotesi di cui all’art. 1 della legge 18 aprile 1962, n. 230 e successive modificazioni ed integrazioni, ... è consentiva nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale” prevedendo soltanto una limitazione del numero dei lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato, la cui quantificazione percentuale è pure rimessa all’autonomia contrattuale.

Dall’esame dei contratti collettivi vigenti risulta che attraverso la via contrattuale sono stati stravolti i limiti ed i paletti posti con la legge n. 230 del 1962. E’ oggi possibile, ad esempio, assumere con contratto a termine per l’esecuzione di un’opera, di un servizio o di un appalto definiti o predeterminati nel tempo, per incrementi di attività produttiva in dipendenza di ordini, commesse o progetti straordinari, per punte di più intensa attività derivanti dall’acquisizione di commesse o per il lancio di nuovi prodotti, per sostituire lavoratori in ferie.

E’ di tutta evidenza, pertanto, come la contrattazione collettiva, sfruttando a pieno la delega concessa dall’art. 23 l. 56/87, abbia riproposto delle previsioni sulla cui legittimità, si era molto discusso in passato e su cui oggi occorre una nuova riflessione.

Fin d’ora, però, va sottolineata l’aberrazione delle assunzioni a termine per sostituire i lavoratori assenti per ferie. Sulla non giustificabilità e sulla illegittimità del ricorso a contratti a termine per sostituire lavoratori in ferie, dopo l’emanazione della legge n. 230 del 1962, si espresse da subito lo stesso Ministero del lavoro, interpretazione confermata dalla giurisprudenza (v, per tutte Cass. 24 ottobre 1980 n. 5733, in Riv. Giur. Lav., 1981, II, 335). Ed, in effetti, non sfugge ai più che niente di più ordinario incontra l’impresa nel gestire le ferie dei lavoratori, anzi il più delle volte la decisione di quando e come mettere in ferie i lavoratori è lasciata alla sua discrezionalità con ciò rendendo veramente evidente la possibilità dell’azienda di organizzarsi e organizzare il ciclo produttivo.

Il caso della sostituibilità in ferie è eclatante ma anche la giustificazione che le stesse parti sociali danno nell’estendere il ricorso al tempo determinato non sembra fondata.

 

 

3. Le resistibili opinioni dei fautori dei contratti a termine

 

Gli argomenti che vengono portati per giustificare l’eliminazione delle ben poche, ormai, disposizioni limitanti il ricorso al contratto a termine, sono essenzialmente due. Da un lato si enfatizza la teorica secondo cui accanto a coloro che desiderano un’occupazione stabile e duratura, si presentano sempre più nuovi soggetti (donne studenti, anziani), più aperti a soluzioni di lavoro parziale o temporaneo (MARESCA, 1987, 187) che volontariamente scelgono di essere precari per “reinventare il rapporto vita-lavoro” (BENEDETTI, 1987,337).

Dall’altro si drammatizza la situazione economica e produttiva delle aziende, la fluttuazione quantitativa e qualitativa della domanda, le pressioni competitive globali, con l’evidente scopo di presentare come unica ricetta quella di aumentare gli spazi di flessibilità della forza lavoro, rendendo il lavoro sempre più precario nel tempo.

Entrambi gli argomenti prestano il fianco a critiche.

Certamente, in passato la vita sociale e individuale era tutta modellata sui ritmi e tempi della fabbrica, mentre oggi il tempo di lavoro-tempo di vita è mutato e, nel tentativo di migliorare la qualità della loro vita, gli individui hanno cercato di “liberare” una parte del tempo di lavoro per poterlo dedicare ai bisogni individuali e collettivi. Ricerche sociologiche, però, hanno evidenziato che i lavoratori non aspirano in generale ad un tempo di lavoro flessibile, ma piuttosto ad un tempo di lavoro “svincolato” (CHIESI, 1986). Ciò significa che “tempo della prestazione lavorativa” e “durata del contratto di lavoro” sono due aspetti ben distinti che non possono essere confusi.

Se da un lato, una gestione più flessibile degli orari di lavoro, con strumenti come il part time, gli orari variabili, può rappresentare una risposta alle richieste di flessibilità, nel senso inteso dai lavoratori, altrettanto non può dirsi per il rapporto a tempo determinato. In questo secondo caso l’interesse alla flessibilità non è certo del lavoratore che vivrà con incertezza il suo futuro, peggiorando la sua qualità della vita.

Inoltre, non sono mancati autori che da tempo hanno evidenziato come il confine fra “posto stabile non più desiderato” e “adattamento ad una situazione di scarsità di posti di lavoro” sia molto incerto (GIUGNI, 1986), confermando l’opinione per cui i lavori temporanei vengono svolti per lo più involontariamente.

In altre parole, la flessibilità auspicata dai lavoratori ha una natura ben diversa rispetto alla flessibilità ricercata dalle imprese, funzionale non a “scelte personali”, quanto ad esigenze produttive rispondenti alla logica di inglobare il lavoro “solo dove e quando serve”, in modo da adeguare l’apparato lavorativo alle flessibili e mutevoli esigenze lavorative (ROCCELLA, 1988).

Ma è proprio vero che il ricorso al lavoro precario da parte dell’impresa è conditio sine qua non per rimanere competitiva?

Anche questo argomento va “sfatato”. Studi aziendalistici hanno dimostrato come l’evoluzione del sistema competitivo può essere affrontato a breve termine, ma senza prospettiva, attraverso l’utilizzo di forza lavoro precaria e sottopagata, mentre, più organicamente, e con prospettive di crescita a medio e lungo termine, attraverso nuovi modelli organizzativi-produttivi in cui, anziché svilire, viene accresciuto il rilievo dato alle “risorse umane”.

Anzi, in questa ottica, le risorse umane rappresentato un elemento del vantaggio competitivo al pari del sistema tecnologico e delle risorse finanziarie, fisiche ed organizzative (MCMAHAN E MCWILLIAMS, 1994). Attraverso il riconoscimento e la valorizzazione delle competenze individuali le risorse umane diventano fonte di vantaggio competitivo in quanto viene legata la prestazione alla strategia aziendale e al tempo stesso alle caratteristiche “complessive” di una persona (CARRETTA 1993). Alcuni autori hanno evidenziato come la gestione delle risorse umane deve considerarsi strategica in due sensi: in senso strumentale e in senso costitutivo (CAMUFFO e COSTA, 1993). La gestione delle risorse umane è strumentale alla strategia quando serve a far funzionare la struttura organizzativa in modo coerente con gli obiettivi strategici, cioè le politiche di gestione delle risorse umane sono uno strumento di “adattamento” della struttura alla strategia, e rappresentano quindi una variabile organizzativa residuale. La gestione delle risorse umane è costitutiva della strategia quando è concepita come una attività di “general management”, quindi le politiche di gestione del personale non sono più una variabile residuale, rispetto a quelle strutturali anzi ne possono costituire il presupposto.