Se si pensa al Medioevo, lo si descrive come un momento
della storia dell’umanità caratterizzato dal decadimento spirituale e
culturale. Volando con la fantasia agli inizi del secondo millennio, siamo
stati abituati ad immaginare il mondo di quei tempi buio e avvolto da una
fitta nebbia, immerse nella quale, vagavano ombre scure con sembianze
simil-umane.
E’ il quadro che nel Rinascimento viene fatto del periodo
precedente. Ad un millennio circa di distanza, il giudizio su quell’epoca è
totalmente diverso.
Ora, però, si avvicina all’orizzonte un Medioevo di
vecchia concezione: è l’era della GLOBALIZZAZIONE.
Dice Lucio Levi (Federalismo nel mondo): “Globalizzazione
è la parola che circola con insistenza sulla bocca di tutti e suscita l’inquietudine
che provocano i cambiamenti profondi e inevitabili”.
Se il timore della globalizzazione è a livelli alti,
quello che preoccupa è che il fenomeno sia “inevitabile”. Vale a
dire che bisogna provare orrore perché non esiste più l’individuo,
soprattutto come essere pensante, e quindi capace, con le sue scelte, con il
suo pensiero, con la sua presenza di partecipare alla dialettica delle scelte
socio-politiche.
Che voi leggiate “Il secolo breve” di Eric J. Hobsbawn
o “La crisi del capitalismo globale” di George Soros o Lucio Levi o
Giorgio Bocca su “La Repubblica” del 14 settembre 1999, il ritornello è
sempre lo stesso: il crollo del comunismo nel 1989 ha fatto si che il
capitalismo si affermasse come ideologia vincente.
Se non altro, dobbiamo ringraziare questo pseudocomunismo
per aver fatto da argine, per anni, alla dittatura imperialista delle lobbies
economiche.
Lo stesso Soros, che si definisce un filantropo oltre che
un magnate della finanza, dice che il pericolo attuale proviene dal “fondamentalismo
del mercato” che, con l’abolizione delle democrazie nazionali, vuole
imporre i valori del mercato sulle scelte politiche; quasi l’inverso di
quello che si prefiggeva il comunismo.
Soros si avvicina all’idea di Popper sull’organizzazione
della società: quella della cosiddetta “società aperta”.
Secondo questa teoria, i regimi nazisti e comunisti
partivano dal presupposto comune di rappresentare la verità ultima e perciò
imponevano al mondo le loro idee con l’uso della forza. La società aperta
è una società, continua Soros, che è perfettibile e che ha come nemici i
regimi autoritari. Tradotto in poche parole, sembra si parli di una sorta di
capitalismo “buono”.
Ma la legge del profitto impone, senza alternative,
che chi possiede denaro debba guadagnarne dell’altro a dismisura, senza
limiti. Il raggiungimento di questo scopo prescinde da regole moralistiche di
comportamento. Se il sistema del profitto fosse posto sotto il controllo dello
stato, non sarebbe più un sistema del profitto nella sua accezione
originaria.
Peraltro, e forse anche questo è bene venga ricordato, l’ideologia
marxista non è stata ancora applicata così come era nelle intenzioni di chi
l’ha pensata. Quindi non possiamo parlare di esperienze comuniste e di
crollo di queste esperienze. Lo stesso Lenin, nei mesi successivi al 1917
dovette fare i conti con i suoi contadini russi che rappresentavano la
preponderante forza lavoro dell’Unione Sovietica. A questi, Lenin dovette
garantire la proprietà dei terreni agricoli perché la rivoluzione potesse
avere successo.
Se, come dicevamo, il controllo statale del profitto nega
il presupposto su cui si basa la legge del profitto, è altrettanto vero che
la proprietà privata è la negazione dell’ideologia comunista. Gli anni
successivi alla morte di Lenin fino ai nostri giorni hanno dimostrato che i
regimi politici in Russia e nei paesi confratelli altri non erano che parenti
poveri dell’imperialismo.
La demonizzazione voluta dagli occidentali delle ideologie
di “oltre cortina” ha avuto la funzione (Hobsbawn) di stimolare il
capitalismo a riprendersi dalla crisi del 1929 e ad accrescersi negli anni
successivi fino ad arrivare al 1991, con il cosiddetto crollo del comunismo,
legittimandosi come verità ultima dato che, nel frattempo, il capitale aveva
raggiunto connotati sovrannazionali.
Questi connotati fanno si che oggi tutti parlino di
globalizzazione del sistema economico.
Questa nuova pestilenza, tanto per ricordare il Medioevo,
sta creando situazioni di tensione tra gli stati nazionali e le lobbies
economiche anche se la maggior parte dei paesi occidentali nulla può o vuole
fare per opporsi allo strapotere del dio denaro.
Il pericolo imminente di questa situazione si sintetizza in
ciò che dice Lucio Levi in “Globalizzazione e democrazia internazionale”:
“......La conseguenza più grave di questa situazione è il declino della
democrazia. La più acuta contraddizione della nostra epoca risiede nel fatto
che i problemi dai quali dipende il destino dei popoli, come il controllo
della sicurezza e dell’economia o la protezione dell’ambiente, hanno
assunto dimensioni internazionali, un terreno dove non esistono istituzioni
democratiche (efficienti ed efficaci -n.d.r.), mentre la democrazia si ferma
tuttora ai confini degli stati, entro i quali si decide ormai su aspetti
secondari della vita politica. Così il controllo delle questioni determinanti
per l’avvenire dei popoli, sfuggito alle istituzioni democratiche, sta
saldamente nelle mani delle grandi potenze e delle gigantesche concentrazioni
capitalistiche multinazionali”.
In fondo, un epifenomeno di ciò è stata l’ultima guerra
nei Balcani, che ha sottinteso anche uno scontro tra sistemi capitalistici
sfumatamente diversi ovverosia quello anglo-americano e quello europeo.
L’interesse, infatti, di chi muove le fila della
globalizzazione è la frantumazione degli stati per ridurne l’importanza
politica ed economica.
Un’operazione analoga fu compiuta alla fine della I
guerra mondiale, crando così ulteriori presupposti perché scoppiasse la
seconda.
In effetti, per contrastare la globalizzazione economica,
occorrerebbe la creazione di stati anch’essi sovrannazionali: un principio
sostenuto dal già citato Lucio Levi e da Gianpaolo Salvini in “Globalizzazione
economica e paesi del sud del mondo” (la rivista Emmaus).
Questa operazione intellettualmente e democraticamente di
ampio respiro è ovvio che trovi degli ostacoli, sia per volontà delle
lobbies economiche, sia per la scarsa onestà intellettuale delle classi
politiche. L’intoppo è rappresentato dai paesi del terzo mondo. Per il
potere economico sono terreni di sfruttamento sia come mercato di
investimenti, sia come mercato di lavoro schiavistico. Per il potere politico,
c’è l’ottusità e la pervicacia di continuare l’ideologia della
supremazia delle potenze occidentali nei confronti dei paesi in via di
sviluppo. Enrico Mattei è morto proprio inutilmente!
La globalizzazione economica viene affiancata dalla “globalizzazione
culturale”; con un termine rubato alla Biologia, si può dire che si sta
creando una simbiosi mutualistica, ovverosia un mutuo soccorso per il
raggiungimento dei loro scopi.
Ad agosto di quest’anno è uscito un numero di National
Geographic interamente dedicato alla “Cultura Globale”. Edita negli
U.S.A., è questa una di quelle riviste che parlano principalmente per mezzo
delle fotografie di cui sono ricche.
Analizzando proprio queste foto e quel po’ di scritto che
vale la pena considerare, si intuisce bene qual’è il senso che il termine
di cultura globale è impresso nella ideologia degli americani.
Si comincia con l’articolo: “Una sola cultura” dove ,
sulle due pagini iniziali troviamo 11 volte riprodotta la foto di un’immagine
di un film di Marilyn Monroe. Si prosegue con: “Un solo mondo”; la foto è
quella della collina sovrastante Hollywood; una didascalia dice: “Collegàti
da Jet, e.mail, cellulari e FILM, “noi tutti”, dice il sociologo
inglese Mike Featherstone, “siamo vicini di casa”.
Noi tutti chi? Quelli che viaggiano in Jet, dialogano con
e-mail e vivono in simbiosi con il cellulare. Non ci sembra che ci si rivolga
al mondo intero. Forse ne resterebbe fuori qualche bambino brasiliano delle
favelas, o qualche indigeno australiano o africano; chissà cosa ne pensano i
bambini del sud est asiatico intenti a lavorare sfruttati dalle grosse ditte
occidentali in cambio di una manciata di riso.
Le altre pagine scorrono via tempestate da foto di
argomento cinematografico. Colpiscono, tra l’altro, le immagini di un gruppo
di acrobati cinesi in un atteggiamento che non fa onore alle migliaia di anni
di civiltà che quel popolo esprime. I redattori non dimenticano di ritrarre
un gruppo di monaci tibetani intenti a bere Coca-Cola seduti in un ristorante
di Los Angeles in California.
Tra pubblicità alla Coca-Cola e sorrisi demenziali da
pseudofelicità ecco apparire una bella foto di tramonto africano campeggiata
dal titolo: “Culture al tramonto” in cui si annuncia che, con la
distruzione di migliaia di culture, entro 100 anni, dalle 6000 lingue parlate
oggi passeremo a 3000.
Quello che si ricava da National Geographic è che, per
mezzo della cinematografia americana, il mondo intero dovrà subire un
mutamento socio-culturale propagandato come paese di Bengodi.
Questo per quanto riguarda la carta patinata e le belle
foto.
Nei giorni successivi all’uscita della rivista sono
apparsi sui mass media una serie di articoli che rappresentano un po’ meglio
la realtà culturale che dobbiamo importare da oltre oceano.
La Repubblica - Giovedì 19 agosto 1999:
“Ragazzi, salvatevi così: al liceo lezione di strage.
Metal detector, telecamere, genitori-vigilantes e bidelli armati, assalti
simulati: dopo l’assalto di Columbine l’America blinda gli istituti. Nel
1998, in America, ci sono stati 4730 episodi di violenza” (nelle scuole
n.d.r.).
Televideo Rai di settembre o ottobre 1999:
Nel 1996, negli U.S.A., sono morte per armi da fuoco oltre
30.000 persone. Il 25% di queste avevano meno di 24 anni.
Liberazione - 1 settembre 1999:
“La salute non è merce”. Un medico di Rovereto
recensisce un articolo apparso sul New England Journal of Medicine a cura di
due ricercatori americani. Conclusione: negli ospedali U.S.A. for profit
(privati) la missione è il denaro e nella nostra società (americana n.d.r.)
“l’assistenza sanitaria è troppo preziosa, intima, corruttibile per
affidarla al mercato”. In questi ospedali privati la percentuale dei morti
aumenta rispetto a quella dei non profit (pubblici), specialmente nei casi di
malati più gravi.
La Repubblica - 26 ottobre 1999:
“U.S.A., tema shock a scuola: come uccideresti un vip?”.
Tema proposto da un professore dell’Ohio.
TV americana - 26 novembre 1999:
Tre ore di diretta televisiva per una caccia all’uomo.
Protagonista la Polizia ed un automobilista che non si è fermato all’alt
dei poliziotti. L’uomo è stato ucciso appena è sceso dall’auto, sempre
in diretta televisiva. Ovvero, la morte vera come show!
Così sono state ristabilite le giuste misure.
La cultura globale non può essere sopraffazione di altre
culture. Non può essere quella delle armi in pugno. Non può essere quella
basata sulle monete.
Per ricordare cosa significa evoluzione della cultura in
senso globale e dialettico basta ripensare alla storia dei popoli del
Mediterraneo e a quale sintesi culturale ha portato in un continuum di cui,
ancor oggi, per fortuna godiamo.
La voce della cultura globale si scontra con iniziative ben
più illuminate.
Di recente, ad opera dell’Academie Universelle des
Cultures, è stata redatta una “Carta” che ha lo scopo di difendere
ogni tipo di cultura.
L’Academie (e-mail: www.academie.asso.fr) ha prodotto un
manuale ad opera, tra l’altro, di Furio Colombo, Umberto Eco e Jacques Le
Goff. Questo manuale (Accepter la diversité) ha la caratteristica di
essere interattivo perché tramite Internet si può dialogare con gli autori
per la sua stesura. E’ rivolto principalmente agli studenti e ai loro
professori ed ha lo scopo di insegnare che le diversità esistono (sesso,
religione, handicap, ecc.) ma che nella diversità si è uguali. Il principio
base è che la diversità è un dato di fatto ed è per questo che ogni
individuo va rispettato: il mezzo per raggiungere questo fine è la
tolleranza.
Come si è visto, che si tratti di globalizzazione dell’economia
o della cultura o di entrambe, chi ne farà le spese sarà l’individuo. L’evoluzione
culturale a cui stiamo assistendo pone in un angolo le persone ed i loro
diritti (perdita della democrazia); in fondo, il passaggio dal Welfare State,
che aveva come presupposto la tutela dei singoli, al Profit State che ha come
presupposto la tutela delle sole imprese economiche è la logica conseguenza
della globalizzazione.
Non tenendo in debita considerazione questo passaggio,
diventa impossibile la rivendicazione di una società giusta.
Quando i nostri politici accusano i pensionati di essere
troppi; oppure quando tolgono le ultime briciole all’assistenza sanitaria; o
quando cercano di far passare come buoni-libro i finanziamenti alla scuola
privata, altro non fanno che adeguarsi allo spirito della globalizzazione.
L’isolamento dell’individuo rappresenta un pericolo
ulteriore per la società. I singoli sono costretti a trovare dei succedanei
ad una organizzazione societaria. In questo si muovono per proprio conto e,
per lo più, in antitesi o in aperto scontro con il resto dell’umanità. Si
favoriscono così gli odi razziali, gli odi religiosi, i contrasti
generazionali, la ricerca del privilegio con il solo risultato di generare una
moltitudine di individui insoddisfatti. Tale moltitudine, frastornata dal
carpe diem, non riconosce più gli artefici della propria insoddisfazione e,
nello stesso tempo, in conflitto reciproco, può essere facile preda di
ideologie autoritarie come ci insegna la storia passata (v. Nazismo e
Fascismo) e la storia recente con i successi dell’estrema destra in Svizzera
e Austria.
Vi è poi una crescente sensazione che la globalizzazione
economica sottintenda una crisi del sistema capitalistico.
I continui accorpamenti, a livello mondiale, dei grossi
gruppi bancari, finanziari e industriali, cui si assiste giornalmente possono
essere il sintomo di una cattiva salute del sistema del profitto.
I paesi del terzo mondo non possono più rappresentare un
terreno di espansione dei mercati perché stritolati da un debito estero
spropositato.
Le monete più forti: Dollaro, Euro e Yen, continuano ad
urtarsi tra loro come vasi di coccio su un carro che percorra una strada
sterrata.
Il 15 settembre del 1998 George Soros offriva la sua
testimonianza dinanzi al Congresso U.S.A. affermando tra l’altro che il
sistema capitalistico globale, artefice dei successi economici americani è in
via di disgregazione. Nel frattempo accadono crolli economici, come quello
asiatico e russo che sono di livello ben superiore a quello di Wall Street del
1929.
Questo quadro apocalittico, descritto da un magnate della
finanza, è lecito supporre che sia una realtà prossima a venire.
Ma se il crollo del 1929 ha avuto gli effetti globali che
ha avuto; se la presenza di regimi non capitalistici ha avuto l’effetto di
stimolare la ripresa in forza dello spauracchio e dell’alternativa che
rappresentavano; oggi, in cui non esiste più il pericolo di oltre cortina;
oggi in cui non esiste una dialettica ideologica da contrapporre e a cui fare
riferimento; oggi, quali scenari stanno per abbattersi sul mondo globalizzato?