<<Ricerca valori la sinistra “senz’anima”>>
titola il Messaggero del 20 Novembre 1999 nella pagina politica il giorno di
apertura dell’incontro di Firenze sul “Riformismo del XXI secolo” tra i
leader della sinistra europea e delle forze democratiche americane.
Indubbiamente il titolo del noto quotidiano coglie con estrema chiarezza e
comunica con grande incisività una sensazione piuttosto diffusa. E tale
incisività assume un significato oltremodo marcato e simbolico a distanza di
appena due giorni dall’abbandono della politica da parte di Nilde Iotti, “donna
al servizio della Repubblica” [1] che ha rappresentato una delle figure più importanti della
storia della sinistra italiana.
Sicché si può dire che sia stato proprio il bisogno di
sicurezza concettuale programmatica che ha portato all’incontro di
Firenze [2]. Ma ciò che viene
da domandarsi è come e su quali basi la sinistra italiana abbia affrontato il
confronto con i suoi interlocutori. Giacché costituisce un dubbio legittimo
quello di coloro, primo tra tutti lo studioso Mauro Fotia, autore di un
recente saggio dal titolo “Debole come una quercia. Il neoliberismo di
sinistra”, Dedalo, Bari, 1999, che si domandano se la sinistra italiana,
comprensiva di tante e variegate forze politiche, sia stata o meno pronta a
cogliere finalmente l’occasione dell’incontro di Firenze - occasione
comunque tardiva - per aprire un vero e proprio dibattito, ancor prima che con
gli interlocutori internazionali e comunitari, all’interno dei suoi apparati
direttivi e soprattutto della sua base. E ciò allo scopo di gettare le basi per
una politica diretta a realizzare le attese nuove aperture alle domande che,
insistenti, salgono dalla società.
Nell’analisi di quelle che dovrebbero essere le direttrici
di tale dibattito, non si può prescindere dalla individuazione chiara e
definita di quella che oggi viene denominata genericamente sinistra italiana. E
all’uopo ciò che si impone è l’esigenza di ripercorrere in maniera
analitica e disinibita il percorso attraverso cui la “sinistra italiana” è
giunta a coincidere con la formazione dei Democratici di sinistra.
A tale proposito Fotia nel citato saggio offre un quadro
molto interessante e complesso. Ancora una volta il politologo meridionale non
perde l’occasione per offrire un valido modello di approccio empirico allo
studio delle dinamiche che caratterizzano la vita del nostro Paese.
Partendo dal presupposto che l’avvio della formazione del
nuovo Partito Democratico della Sinistra, poi Democratici di Sinistra, non ha
assolutamente soddisfatto l’esigenza, successiva alla scomparsa del Pci, di
ridefinizione delle categorie concettuali, di idee-forza e di valori, oltre che
di linee strutturali ed organizzative, egli - si direbbe quasi per una profonda
esigenza interiore - apre una ricca riflessione sulle cause e gli eventi che
hanno portato la sinistra italiana a giungere alle soglie del terzo millennio
priva di una sua specifica identità.
In primo luogo, emerge quale causa principale di tale
peculiare stato di cose - spiega Fotia - il fatto che il Pci già da epoca
piuttosto remota si è rivelato distratto rispetto al bisogno di rinnovamento e
di risposta alle esigenze di progresso e modernizzazione della società.
Sicché, nel momento in cui, all’indomani del collasso delle economie e dei
regimi dell’Est, definita da molti come caduta del Comunismo, i leader
comunisti si sono trovati impreparati. La loro preoccupazione preminente è
stata quella di contestare e demolire il proprio passato, e con esso la propria
identità. Senza tenere conto del fatto - continua Fotia - che le teorizzazioni
del Pci, da Gramsci a Berlinguer, si erano da tempo già distanziate e
differenziate per la loro originalità dalle esperienze sovietiche, e che
pertanto il collasso dei regimi comunisti non avrebbe dovuto costituire per il
Pci un avvenimento del quale sentirsi corresponsabili e comunque di cui
vergognarsi.
E così, nel momento in cui, all’indomani della caduta dei
regimi dell’Est, i comunisti italiani si sono trovati sotto i riflettori delle
altre forze politiche e dell’opinione pubblica, stante la trascuratezza ormai
consumata nella ridefinizione delle loro linee strutturali, di valori e
categorie concettuali, si sono trovati come unica via d’uscita - uscita questa
che si potrebbe definire di emergenza - quella di formare un nuovo partito, il
Pds. Un partito che non ha saputo trovare altra soluzione di sopravvivenza che
quella di arrivare ad esprimere sempre più “un modello riformista debole di
palese stampo neoliberista”.
Ciò non ha portato - rileva Fotia - a risultati
soddisfacenti. In quanto, per dirla con le recenti parole di Edgar Morin, si è
pensato “solo ad introdurre qualche correttivo al capitalismo, quando il
problema è decisamente un altro” [3].
Tale atteggiamento nei confronti del capitalismo diviene
prevedibile già quando, a seguito della trasformazione del Pci in Pds, Pietro
Ingrao, capo della corrente di sinistra del neonato Partito Democratico della
Sinistra, decide di uscire dal partito, lasciando le sorti della nuova
formazione nelle mani delle correnti di destra e del centro, i cui maggiori
esponenti sono rispettivamente Giorgio Napolitano da una parte e Achille
Occhetto, Massimo D’Alema e Antonio Bassolino dall’altra. Il primo, infatti,
con i suoi seguaci sottolinea “la necessità di un raccordo fra capitalismo e
democrazia ed afferma che la posta in gioco storica di tutte le forze di
sinistra dev’essere il controllo sociale del primo al fine di eliminarne i
difetti”. I secondi “vedono la democrazia come una condizione storica nella
quale gli interessi ed i conflitti economici e sociali si organizzano
liberamente” [4].
E laddove dimenticare Berlinguer è divenuto un imperativo
categorico, le pratiche trasformistiche hanno continuato a consolidarsi senza
soluzione di continuità. Così da una parte il Pds/Ds ha sposato in pieno il
pensiero neoliberista, dall’altra le pratiche trasformistiche hanno reso
sempre più sfumato il discrimine tra gli schieramenti.
Sono queste le principali direttrici sulle quali si snoda l’analisi
dello studioso dell’Ateneo romano “La Sapienza”. Indubbiamente il suo
saggio ha il merito di segnare una tappa molto importante nella comprensione sia
delle problematiche strettamente riguardanti i Democratici di sinistra, sia più
in generale dell’attuale fase socio-politica che sta affrontando il nostro
Paese. Gli stimoli e gli interrogativi che vengono suscitati dalla lettura del
saggio sono molteplici, così come molteplici sono i problemi scaturiti dall’attuale
stato delle cose. Sicché, al di là di ogni sorta di pregiudizio, gli spunti
che si traggono dalla sua lettura abbracciano diversi aspetti di sicuro
interesse. E ciò in quanto il metodo scientifico seguito dal politologo
meridionale è attento a non trascurare nessuno dei fattori fondanti delle
dinamiche che sono sottoposte all’esame.
Sulla base di queste premesse - è bene ribadire - i problemi
e le perplessità che scaturiscono dalla analisi di Fotia non sono pochi. E non
potrebbe essere altrimenti. Dopotutto, ogni volta che un intellettuale di un
certo rilievo si assume finalmente, e soprattutto pubblicamente, la
responsabilità di rompere il silenzio, non può non scontrarsi con una
complessità di situazioni che a volte può risultare sconcertante.
In primo luogo, viene da domandarsi cosa distingua ormai
maggioranza di centro-sinistra da opposizione di centro-destra.
La risposta a tale interrogativo si può considerare semplice
e allo stesso tempo difficile. Basti pensare che a Firenze si sono incontrati i
tanti socialismi europei con gli esponenti di sinistra americani. Vale a dire si
sono collocati, almeno negli intenti, sotto un’unica stella le sinistre dell’Europa
continentale, la sinistra laburista di Tony Blair e la cosiddetta sinistra di
Bill Clinton. E tale circostanza appare prima facie piuttosto normale.
Ma il fatto singolare è che forse sarebbe stato più
congeniale al leader americano, per lo meno a giudicare dalle
dichiarazioni rese nel corso dell’incontro di cui parliamo, incontrare Silvio
Berlusconi, capo di un movimento il cui bagaglio ideologico dichiaratamente di
destra è sembrato assai più vicino a quello del Presidente degli Stati Uniti
di quanto non avrebbe dovuto apparire quello degli esponenti dei Ds. Eppure
Clinton si è incontrato con i rappresentanti delle sinistre dell’Europa
continentale, per cercare con loro un’improbabile <<terza Via>>.
E’ certo che le differenze sia di presupposti che di linee
programmatiche sono emerse, e senza dubbio nessuno ha cercato di nasconderle.
Però è anche certo che il forte modello neoliberista statunitense viene
percepito dai molti presenti all’incontro di Firenze, soprattutto nella
quotidianità delle politiche nazionali, come un punto cui approdare, seppure
progressivamente.
Davvero, quindi, non è facile scegliere per l’elettore
italiano. Ma il problema derivante dall’attuale stato di cose non coinvolge
solamente il problema della scelta elettorale. Implica anche, ed anzi in primo
luogo, un interrogativo sulle sorti della sinistra italiana, e più in generale
del sistema partitico, nonché un interrogativo sulle sorti dell’intero Paese.
Quanto al futuro della sinistra italiana e più in
particolare dei Ds, risulta imprescindibile per essi - e Fotia si rende primo
potavoce di tale necessità - una profonda pratica introspettiva. Infatti,
osserva il noto studioso, “pur dopo intense, estenuanti negoziazioni, il
partito post-comunista italiano non sembra essere approdato a risultati
convincenti o comunque in grado di sbloccare le sue tante ansie e incertezze.
Alla ricerca di un nuovo polo liberal-socialista che fuoriesca dalla tradizione
comunista, non riesce a trovarlo; e perciò, da una parte dà l’impressione d’aver
concluso che esso semplicemente non esiste, che è un luogo geometrico astratto,
un’escogitazione strumentale, e che quindi importante rimane solo l’impegno
sui programmi concreti per la trasformazione della società italiana; dall’altra,
sembra ancora cercarlo” [5].
Tale analisi introspettiva è necessaria in quanto ad oggi i
Ds non hanno mostrato la capacità di prospettare, nell’ottica di un processo
costituente di una nuova sinistra nel Paese e di un nuovo grande partito
socialista di tipo europeo, una reale ristrutturazione della società e dello
Stato per la riforma forte del capitalismo. Ed in più nel quadro di un’economia
globalizzata che dimostra di livellare i livelli salariali sempre più verso il
basso, portando a nuove emarginazioni sociali e diffondendo a dismisura la massa
dei disoccupati [6].
L’analisi di Fotia ad un certo punto sembra auspicare l’apertura
di una fase di maggiore coinvolgimento nella riflessione di altri intellettuali.
Per questo risulta attenta a contestualizzare in ambito comunitario ed
internazionale le problematiche che coinvolgono i Ds. E di conseguenza, a
valutare le reali peculiarità delle sinistre d’oltre confine, ponendo quindi
in evidenza anche le strumentali e variegate interpretazioni che di queste
ultime danno gli esponenti dei Democratici di sinistra. Come se, per
rafforzarsi, si debba arrivare a giustificare le proprie posizioni, mostrando
che anche negli altri Paesi le posizioni vincenti siano analoghe alle proprie.
Esempio emblematico di tale atteggiamento sono le posizioni
assunte da Veltroni e D’Alema nei confronti delle politiche e dei successi di
Blair. Il primo infatti ha sostenuto che “la vittoria di Blair è l’ennesima
conferma della validità dell’esperienza dell’Ulivo, al cui progetto
politico il leader inglese si sarebbe ispirato”, il secondo invece “pensa
che se Blair abbia vinto perché è riuscito a far capire all’elettorato
inglese che una sinistra può cambiare radicalmente , aprendosi ai ceti
moderati, senza perdere la sua identità” [7].
Senza entrare nel merito di tali valutazioni in ordine alle
politiche e ai successi di Blair, ciò che viene spontaneo domandarsi è se l’attenzione
mostrata nei confronti dei leader d’oltre confine, e soprattutto la
contesa che continuamente si instaura in seno ai Ds per apparire il più
possibile assimilabili agli altri leader vincenti, non sia già di per
sé sintomo di debolezza ed insicurezza. Così come sintomo di insicurezza
potrebbe rivelarsi la costante ricerca di analogie e somiglianze solo ed
esclusivamente con quelli che appaiono i Paesi più “sviluppati”.
E’ certo che nell’ipotesi in cui si debba dare a tali
interrogativi una risposta affermativa, le grandi occasioni come l’incontro di
Firenze, non possono non apparire sedi in cui “cerca valori la sinistra senz’anima”.
Vale a dire circostanze in cui la sinistra italiana, anziché andare a costruire
spazi per la cooperazione con gli altri Paesi, va in avanscoperta alla ricerca
della propria identità.
Dopo aver sentito D’Alema accomunare sotto l’area
democratica di centrosinistra idee scaturenti da esperienze come la
democratico-liberale, la cattolico-cristiana, l’ambientalista e la
socialista [8],
qualche dubbio è legittimo. Così come legittimo è il dubbio di coloro che non
sono più sicuri delle accezioni da offrire alla formule “seconda Repubblica”,
“riformismo” e “sistema maggioritario”, imposte più o meno di recente
nel vocabolario della politica italiana con significati ambigui e sempre
mutevoli.
E sulla parola “trasformismo” le idee sono più chiare?
Indubbiamente sì! I Ds, secondo Fotia, hanno superato nel merito il giolittismo
ed il doroteismo che ne fu la prosecuzione.
A parte ciò, comunque è interessante notare come la grande
attenzione mostrata dagli esponenti dei Ds verso le altre socialdemocrazie
europee non possa ritenersi molto proficua. Giacché, a giudizio di Fotia, in
Europa la situazione non cambia.
Il suo lavoro infatti analizza i tre modelli di
socialdemocrazia europea: l’inglese, il francese e il tedesco. E dalla sua
analisi emerge come la crisi di identità che caratterizza i Ds sia comune alle
altre formazioni socialdemocratiche presenti in Europa.
Sono questi, infatti, modelli che seppure provenienti da
esperienze differenti e dotati ognuno di aspetti peculiari, risultano accomunati
dall’essere portatori (con qualche eccezione forse per quello francese di
Jospin) di un progetto riformista debole e di palese stampo neoliberista. E ciò
perché il neoliberismo è stato eretto ormai a modello culturale che,
travalicando i confini che sono propri della scienza economica, è entrato in
poco tempo nei circuiti delle scienze giuridiche, della politologia, della
sociologia ed infine della filosofia morale e politica, stravolgendo ogni
fondamentale visione autenticamente ispirata ad un umanesimo sociale.
A questo proposito, è utile non poco richiamare l’attenzione
su un altro saggio di Fotia dedicato a “Il Neoliberismo in Italia” [9]. Questo unitamente
a “Debole come un quercia”, compone un quadro completo ed approfondito.
Partendo dal presupposto che gli attori principali sulla
scena economica, politica e sociale, sono i singoli individui, la dottrina
neoliberista individua nello scambio effettuato in condizioni di libertà - e
quindi nel libero mercato - la chiave di volta per il raggiungimento dell’efficienza
economica e della soddisfazione equanime degli interessi di tutti i componenti
della collettività. La razionalità, che è propria sia dell’homo
oeconomicus che dell’homo politicus, nonchè la propensione
ostinata, ma non prevaricatoria verso l’utilità individuale, quali unici
criteri di selezione degli scambi di tutti gli individui garantiscono, infatti,
equilibrio al mercato, offrono cioè a tutti i soggetti l’opportunità di
appagare i propri bisogni nel rispetto delle esigenze altrui e della
collettività.
Ma su questi assiomi Fotia manifesta notevoli perplessità.
Egli infatti sostiene che la funzione equilibratrice ed unificante del sistema
esercitata dal mercato, alla quale aspirano i teorici neoliberisti, è destinata
a fallire sia a livello micro che a livello macroeconomico. A livello
microeconomico sia perché <<la ricerca individuale della propria utilità
porta all’affermazione prevaricatoria dell’io>>, sia ancora perché
<<molti degli scambi individuali non sono paritari ma sono dominati da uno
scambista>>, sia infine perché rimane tutta da dimostrare la capacità
dei singoli individui di agire razionalmente (la irrazionalità delle scelte
individuali, rileva Fotia, è dovuta in primo luogo alla mancanza di
informazioni chiare ed affidabili). A livello macroeconomico, poi, innanzitutto
perché il libero mercato a tutto soggiace fuorché alla regola della
concorrenza, ed in secondo luogo perché, come dimostrano i modelli del free
rider e del dilemma del prigioniero, sono moltissimi i problemi
riguardanti il rapporto tra il principio della razionalità e la capacità di
coordinare le azioni degli individui all’interno della società [10].
Sicché, l’apporto della dottrina neoliberista non produce
per Fotia - gli effetti sperati. E tanto sia a causa dei limiti intrinseci
propri di tale dottrina, sia a causa dell’atteggiamento che nei confronti di
essa assumono i post-comunisti.
Così, in contrapposizione al modello patrocinato dall’inglese
Anthony Giddens, ispiratore di Tony Blair che guarda a quello statunitense come
all’unico modello cui l’Europa può aspirare, si pone il modello proposto da
Fotia, in particolare nelle dense pagine dedicate al progetto sociale e a quello
politico nel quale dovrebbero impegnarsi i Ds. Naturalmente per approdare a
quella che Fotia definisce “riforma forte del capitalismo”.
Torna quindi ad imporsi l’interrogativo: ”Riuscirà
possibile ai Ds realizzare, oltre alla regolazione tecnica dei processi
produttivi, l’effettivo dominio dei fenomeni sociali derivanti da tali
processi, sì da determinare un minimo irrinunciabile di riforme capaci
finalmente di condurre al riequilibrio delle due aree territoriali del Paese, ad
una vera ridistribuzione dei redditi, al miglioramento sostanziale della
qualità della vita?” [11].
A questo proposito non sono pochi coloro che rimangono
smarriti proprio negli ambienti della sinistra. Per questo, afferma Fotia, ciò
che si impone è innanzitutto una revisione radicale del bagaglio culturale
della sinistra stessa.
E’ importante però a questo punto domandarsi se questo
lavoro di revisione che dovrebbe portare i Ds a proporre qualcosa di più di una
politica di riformismo debole subalterno alle teorie neoliberiste, ormai che il
neoliberismo sembra eretto a modello culturale unico, sia ancora possibile.
E’ possibile ma è impresa ardua. Per questo Fotia, in un
capitolo dedicato appunto al dilemma “Neo-riformismo o riforma forte del
capitalismo?, auspica in primo luogo la presa di coscienza dei limiti che sono
propri della dottrina neoliberista, ed in secondo luogo che venga effettivamente
intrapreso un coraggioso cammino in controtendenza.
Certo, rileva il nostro studioso, su tale questione da parte
dei Ds è palese una pesante caduta di impegno.
Fotia comunque è molto attento a non minimizzare i termini
del problema relativo alle impostazioni del pensiero neoliberista, non
escludendo a priori un assetto radicalmente nuovo dell’economia capitalistica,
in qualche misura rispondente alle esigenze di giustizia sociale dell’uomo
contemporaneo.
“Dal mercato - si legge in “Debole come una quercia” -
vengono lezioni di efficienza che sarebbe sciocco sottovalutare. I suoi
sostenitori hanno buone ragioni quando insistono nel sottolinearle (...). Ma
esagerano quando presumono di poterle fornire a scatola chiusa: prendere o
lasciare” [12].
In conclusione, l’analisi condotta dal nostro politologo
mostra grande modernità di prospettive, uscendo fuori dai tradizionali schemi
di analisi.
[1] Giorgio Frasca Pollara, “l’Unità”
19.11.1999.
[2] Gian Enrico Rusconi, “La Stampa” 19.11.1999.
[3] Intervista concessa a Roberto Zuccolini,
“La Stampa”, 22.11.1999.
[4] Debole come una quercia, o.c., pp. 19-20.
[5] Debole come una quercia, o.c. p. 291.
[6] Debole come una quercia, o.c. p. 296.
[7] Debole come una quercia, o.c. p.
132.
[8] Intervista concessa a Luigi La Spina, “La Stampa” 18.11.1999
[9] Mauro
Fotia e Antonio Pilieri, Il Neoliberismo in Italia, verso nuove forme della
società e dello Stato, Città Nuova, Roma, III ed., 1998.
[10] Il
neoliberismo, o.c. pp. 56 e segg.
[11] Debole come una quercia, o.c. p. 296.
[12] Debole come una quercia, o.c. p. 207.