La nuova strategia aveva un duplice impatto stagnazionistico.
Sul piano interno essa presupponeva la creazione tendenziale di un esercito di
disoccupati al fine di moderare gli aumenti salariali. La disoccupazione
abbinata alla ridotta dinamica salariale si sarebbe poi ripercossa negativamente
sulla domanda interna. Sul piano europeo la lenta dinamica della domanda interna
tedesca riducendo la domanda di beni importati avrebbe finito per frenare l’insieme
della dinamica europea. Dal canto loro i surplus esteri della Germania, generati
in un contesto di domanda interna stagnante, avrebbero agito nei confronti degli
altri paesi europei come dei vincoli difficilmente sormontabili [1]. Questo scenario si
materializzò negli anni settanta acuendosi nel decennio successivo. La
flessibilità del lavoro era la chiave di volta di tale linea ideata dalla
socialdemocrazia tecnocratica prima ancora che i grandi gruppi ne fossero
pienamente convinti. La severità della Bundesbank, erroneamente individuata
come sola fonte delle politiche di austerità, serviva da paravento e strumento
per ottenere uno strato di disoccupati da gettare sul piatto della bilancia
della contrattazione salariale e normativa. Con la moderazione salariale si
poteva anche ottenere la partecipazione sindacale alla strategia delle
esportazioni subordinandovi sia le promesse di un’eventuale ripresa
occupazionale che gli aumenti salariali.
E le cose andarono proprio così. Dopo alcuni atteggiamenti
radicali i sindacati, che negli anni settanta farfugliarono di rilancio
keynesiano e agli inzi degli anni ottanta balbettarono qualche cosa in favore di
un Keynes plus plan (ove il plus stava per concertazione aziendale), si
allinearono a tutti gli effetti sulla strategia Bundesbank-socialdemocrazia.
Essi si collocarono quindi volontariamente in una posizione subalterna -
dignitosissima se paragonata alla resa incondizionata della CGIL alla Fiat nel
1980 - rispetto ad un blocco di potere che trasformava il nesso banca-industria
del capitalismo tedesco da forza propulsiva in forza stagnazionistica. In questo
quadro la Bundesbank rappresentava l’architrave della volta su cui poggiava il
potere di tale blocco come organismo garante e supervisore della coerenza del
sistema finanziario industriale [2]. Permaneva però un elemento di vulnerabilità costituito dal fronte
monetario europeo in un contesto in cui il dollaro si stava svalutando. L’Europa
è la zona ove la Germania ha sempre ottenuto il grosso delle eccedenze sull’estero.
La svalutazione del dollaro pur stimolando gli investimenti negli Stati Uniti
minacciava le eccedenze da cui dipendevano gli stessi investimenti esteri
tedeschi. La minaccia diventava ancor più seria se altre monete europee (la
lira italiana) svalutavano rispetto al marco. La formazione nel 1979 del sistema
monetario europeo (SME) legando, dapprima in forma elastica poi vieppiù
rigidamente, le altre monete al marco funzionò da strumento di protezione dell’export
germanico. Furono i socialdemocratici e non la Bundesbank a volere lo SME e -
come già nel periodo 1966-69 - la SPD si rivelò il partito che coglieva in
anticipo rispetto agli stessi interessati ove dovessero dirigersi gli interessi
del capitale. Da questo punto di vista la politica democristiana del cancelliere
Helmut Kohl, al potere dal 1983 al 1997, si mosse fino sulla falsa riga della
strategia inaugurata nel 1969.
Concepito nella fase della svalutazione del dollaro degli
anni settanta, lo SME aiutò la Germania anche durante il periodo 1980-85,
apertosi con una nuova impennata dei prezzi del greggio (1979) seguita dalla
forte rivalutazione del dollaro causata dalla politica di alti tassi di
interesse praticata da Washington assieme al rilancio della spesa pubblica
militare. La rivalutazione del dollaro ed il rilancio militaristico stimolavano
le esportazioni europee verso gli Stati Uniti, tuttavia il rincaro della moneta
USA accentuava l’onere finanziario dovuto all’aumento dei costi energetici.
Infine gli alti tassi di interesse americani imponevano un comportamento simile
alle altre banche centrali pena un forte deflusso di capitali. L’asimmetria
tedesca si manifestò nel fatto che nel 1982 l’economia aveva già sormontato
il deficit estero dovuto al rincaro energetico mentre gli altri paesi
arrancavano. Il resto dell’Europa poteva beneficiare del rilancio americano ma
contrariamente al periodo antecedente la formazione dello SME - non poteva
intaccare la supremazia germanica nell’export intraeuropeo. Infine, dopo la
decisione americana, concordata con i paesi industrializzati all’Hotel Plaza
di New York nel settembre del 1985, di ridurre i saggi di interesse USA e quindi
il valore del dollaro, lo SME generò un poderoso effetto serra per la bilancia
dei pagamenti tedesca.
Complessivamente dal 1982 al 1989 le eccedenze con l’estero
non fecero che crescere fino a toccare quasi il 5% del prodotto interno lordo
della RFT. Questo costituiva il valore più alto nell’arco dell’intero
decennio per l’insieme dei paesi dell’Ocse ad eccezione di alcune punte
toccate dalla Svizzera. La composizione delle eccedenze mutò inoltre in favore
dei redditi da investimenti esteri. Nel 1982 tale voce era nulla per cui il
surplus con l’estero era dovuto interamente all’attivo commerciale. Nel 1989
il valore degli introiti netti da investimenti esteri era intorno al 20% del
valore dell’attivo commerciale. Il fatto che l’aumento delle esportazioni
nette in prodotti industriali venisse affiancato da un rapido incremento dei
proventi netti dall’estero mostrava che la strategia tedesca di
internazionalizzazione del capitale attraverso le esportazioni aveva successo.
Le politiche messe in cantiere negli anni settanta poterono germogliare negli
anni ottanta, nonostante l’ulteriore calo della crescita reale europea e
mondiale.
Lo SME fu alla radice di questo successo. Avendo ricompattato
l’Europa sulla Germania nella fase alta del dollaro (1980-85), lo SME
costituì un formidabile strumento per barricare il potere economico del
capitale tedesco in Europa nella fase post-Plaza della svalutazione del dollaro.
Dopo il 1985 le eccedenze europee con gli USA, compreso il surplus tedesco, si
affievolirono assai rapidamente Complessivamente invece la crescita dell’attivo
tedesco nei conti con l’estero cantinuò a crescere in assoluto ed in
proporzione del reddito nazionale. Oltre il 60% del surplus della bilancia dei
pagmenti corrente di Bonn proveniva dall’Europa, mentre nei confronti del
Giappone la Germania soffriva di un deficit crescente. I profitti effettuati dal
territorio tedesco nelle transazioni estere si realizzavano quindi
principalmente in Europa.
Il contesto economico generale era però altamente
stagnazionistico. Dopo la grande espansione economica del 1968-73, dovuta
soprattutto agli aumenti salariali, il tasso di crescita medio annuo europeo
scese, nel periodo 1973-79, dal 4,9 al 2,5%. Quello della RFT passò dal 4,9 al
2,3%, cioè sotto la media europea. Dal 1979 al 1990 il tasso europeo calò
ulteriormente al 2,3% mentre il saggio di crescita tedesco toccava appena il 2%,
aumentando lo scarto negativo rispetto alla media del Continente. Il basso tasso
di crescita della RFT assieme alla posizione oligopolistica, protetta dallo SME,
dell’apparato finanziario-industriale della Germania in Europa spiegano il ‘successo’
della strategia di accumulazione attraverso l’estero del capitale tedesco. La
posizione globalmente oligopolistica della Germania è parzialmente deducibile,
per il periodo 1979-90, dall’andamento medio positivo della ragioni di
scambio. In altre parole, crescendo di meno ed esportando senza cedere sui
prezzi la Germania strinse l’Europa in una morsa
oligopolistico-stagnazionistica [3].
L’accumulazione stagnazionistica tedesca ottenne grande
plauso in Europa. La tecnocrazia francese esaltava il ‘modello renano’
contrapponendolo sia al capitalismo cartaceo anglo-americano sia all’inesitente
radicalismo dei sindacati ufficiali tipo CGT. È comunque vero che in Germania i
sindacati si adeguarono al ‘modello renano’ malgrado il paese esibisse un
tasso di disoccupazione vicino al 7% benchè in moderato declino dal 1986. Il
successo nel campo delle esportazioni contribuirono a convincere anche i
sindacati che il ‘modello’ funzionava e bisognava quindi farlo durare. Dei
problemi che tale strategia creava se ne proeccuparono in pochi, tra i quali
però va menzionato Romano Prodi che in un saggio del 1990 colse chiaramente la
morsa deflattiva in cui Bonn avvinghiava l’Europa [4]. In ogni caso spinte a mutare il contesto
delle cose non emergevano a meno che non si volesse prendere sul serio il piano
Delors, una sorta di omogeneizzazione del capitalismo europeo in un’alleanza
oligopolitica transnazionale gestita pariteticamente dalla burocrazia francese e
dalle istituzioni tedesche. Il cambiamento avvenne perché crollò la parete
orientale su cui poggiava il capitalismo tedesco in Europa.
5. Da testardi a confusi: 1991-2001
Sembra che durante l’occupazione anglo-francese della Ruhr
dopo la Prima Guerra mondiale, si fosse sviluppata all’interno di circoli
liberali e cattolici delle zone renane l’idea che un’eventuale separazione
dalla parte orientale del paese non sarebbe stata una cattiva idea. Pare anche
che, all’epoca, Konrad Adenauer condividesse almeno una parte di queste
posizioni. Il fatto sta che la decisione americana di dividere in due la
Germania, resa possibile dall’occupazione sovietica dell’est del paese, mise
casualmente in pratica queste idee. Con l’attivissimo sostegno degli USA i
governi post-bellici di Bonn operarono per incastonare saldamente la RFT nell’ambito
dell’Europa occidentale, facendo della repubblica di Bonn il centro e l’essenza
del capitalismo eurocontinentale. Segnatamente a ciò la legittimità statuale
della RFT veniva financo legata ad una continuità territoriale con buna parte
del Terzo Reich pre-bellico, cui si aggiungeva la dimensione pangermanica - nei
confronti dei tedeschi romeni, russi, ecc - alimentata dalla ‘Guerra Fredda’.
Questa visione - che era la base ideologica della cementazione del consenso nell’era
di Adenauer - venne addirittura accentuata alla metà degli anni ottanta quando
Bonn stava consolidando la sua egemonia economica in Europa. Pertanto la
decisione di Kohl di procedere allo scambio paritetico del marco orientale nel
quadro dell’assorbimento delle RDT era coerente con l’assetto politico su
cui poggiava la suddetta egemonia. In altri termini, la forma economica dell’assorbimento
non può essere vista come causa della crisi economica tedesca.
La componente locale della crisi emerse semmai dalla
contraddizione tra il voler continuare sulla stessa strada e la nuova
situazione. Sul piano strettamente quantitavo le spese incorse dopo il 1989 si
innestarono, ampliandola, sulla moderata espansione iniziata nel 1988. L’allentamento
della stretta monetaria sopravvenuto dopo gli accordi del Plaza a New York
produsse in tutta l’Europa una ripresa, guidata prevalentemente dagli
investimenti, che nel triennio 88-90 si collocò mediamente oltre il 3,6%. In
Germania il ritmo espansivo si attestò sul più robusto valore del 4,3%.
Tuttavia mentre nel 1991 la crescita europea si era già completamente spenta,
quella tedesca proseguì al tasso alquanto sostenuto del 5%. Dopodichè il
nulla. L’espansione venne arrestata dalle autorità monetarie e governative
perché la forte dinamica della domanda interna alla Germania unificata era
considerata nociva alle aspirazioni internazionali del capitalismo tedesco.
Anche se probabilmente con una crescita del 5% i profitti erano superiori a
quanto si potesse realizzare con un tasso di espansione dell’1,5% (1987), l’aumento
dei prezzi e la conseguente paura di una ripresa rivendicativa facevano optare
per una nuova stretta monetaria.
L’intero episodio 1987-91 mostra come lo logica keynesiana
sia simultaneamente valida e sbagliata. Dal lato quantitativo l’aumento del
deficit strutturale nel bilancio pubblico tedesco sostenne la crescita della
domanda, della produzione e dei profitti. Contemporaneamente la maggiore
dinamica produttiva rischiava di inficiare i due pilastri su cui, dal 1969 in
poi, si basava l’egemonia del capitale tedesco in Europa: la stabilità del
marco e le eccedenze nei conti con l’estero. L’interazione di questi due
elementi dipendeva dalla capacità di ristrutturazione e di innovazione
tecnologica dell’industria tedesca purché la crescita salariale venisse
contenuta all’interno degli aumenti di produttività. Con le monete europee
ancorate al marco e conquistando un tasso di inflazione inferiore al resto dell’Europa,
le imprese esportatrici tedesche avrebbero in effetti beneficiato di una
svalutazione reale del marco, mentre l’Europa avrebbe subito l’effetto
opposto. Inoltre, qualora il clima di rigidità monetaria fosse riuscito ad
imporre aumenti salariali inferiori alla produttività, le imprese avrebbero
goduto di maggiori margini di profitto dato che nel capitalismo monopolistico
(oligopolistico) i prezzi industriali non calano mai in proporzione alla
riduzione dei costi unitari. Infine le eccedenze così ottenute avrebbero
garantito il finanziamento degli investimenti all’estero senza creare quel
deflusso di denaro che, come nel caso del dollaro USA, avrebbe potuto minare la
fiducia nella moneta tedesca quale contenitore di valore internazionale, ossia
di ricchezza astratta.
[1] Questa tesi è
stata lucidamente sviluppata da Riccardo Parboni nel suo insuperabile libro Il
conflitto economico mondiale, Milano: Etas Libri, 1980.
[2] In uno dei migliori studi comparati del sistema
creditizo in Europa si legge: “La selettività dei flussi creditizi durante le
fasi di restrizione monetaria è avvenuta in Germania a favore delle imprese di
grandi dimensioni. (...)La selettività di fatto della politica monetaria è
stata peraltro coerente con la struttura industriale tedesca orientata verso le
esportazioni che sono concentrate nei settori dominati dalle grandi imprese.”
Giangiacomo Nardozzi, Tre sistemi creditizi, Bologna: Il Mulino, 1983, pp.
109-10.
[3] Anche per l’Italia l’andamento delle
ragioni di scambio fu positivo. Tuttavia con una maggiore crescita del PIL i
conti esteri furono deficitari.
[4] Romano Prodi, “The
economic dimension of the new European balances”, Banca Nazionale del Lavoro
Quarterly Review, no. 173, 1990.