Questo marchingegno, messo in cantiere nel 1969, varato negli
anni settanta e applicato con successo negli anni ottanta grazie allo SME,
impedisce ogni politica keynesiana ma ciò significa che il keynesismo è una
chimera riformista in cui credono, poverini, solo i sindacati ed alcuni
universitari emarginati. Nelle condizioni di economie aperte ed interdipendenti
come quelle europee, la ripresa tedesca fondata sull’espansione interna portò
nel 1990 ad una prima riduzione del surplus con l’estero che si trasformò in
deficit nel 1991 segnatamente ad un tasso di inflazione superiore a quello
europeo. Era necessario quindi bloccare tutto e così avvenne immancabilmente. L’arresto
dell’espansione tedesca fu effettuato attraverso l’aumento dei tassi di
interesse da parte della Bundesbank comportando il crollo in due tempi - nel
1992 e nel 1993 - dello SME. Ciò condusse, volutamente, ad una rivalutazione
del marco rispetto alle maggiori monete europee, ad eccezione del franco
francese, che durò fino al 1996 quando la politica della Bundesbank venne
bloccata dalle forze conservatrici francesi. L’idea della Bundesbank era
quindi di rilanciare il marchingegno varato dai socialemocratici nel 1969 in
condizioni però talmente differenti da mutare i contenuti stessi della
strategia.
Anche durante l’esistenza del blocco sovietico la Germania
di Bonn esercitava un’importante egemonia economica in Europa orientale ed in
Jugoslavia. Dopo il 1989 la politica estera tedesca diventò apertamente
espansionsita fondandosi su un pirandelliano gioco delle parti tra Mitterrand e
Kohl. Il terreno di gioco non fu l’assorbimento della Germania est, un’operazione
condotta in combutta con Mosca e Washington senza praticamente consultare gli
altri membri della “comunità” detta europea. Il macabro banco di prova fu
la Jugoslavia. In forma del tutto unilaterale Bonn si lanciò nell’operazione
di smembramento del paese sostenendo a spada tratta la secessione unilaterale
della Slovenia e della Croazia, paesi pronti a diventare satelliti del capitale
tedesco, ben sapendo che, innescando un processo a catena, l’operazione
avrebbe comportato lo scoppio della guerra civile in Bosnia la cui stabilità
dipendeva dai rapporti tra la Serbia e la Croazia. Sebbene inizialmente
riluttante la Francia, accompagnata con ancor maggior reticenza dalla Gran
Bretagna, assecondò l’espansionismo tedesco mentre il Vaticano e quindi l’Italia
lo appoggiarono pienamente. Contemporanemante il presidente francese Mitterrand,
coadiuvato in maniera determinante dall’Italia e da Giulio Andreotti in
particolare, manovrò per portare la Germania in un patto europeo volto in
realtà a sancire una gestione franco-tedesca dell’oligopolio europeo
vagheggiato dal corporativista cristiano-sociale Jacques Delors. Il patto, noto
come Trattato di Maastricht, accettava tutti i criteri deflazionistici della
Bundesbank, i quali andavano bene anche al resto del capitale
europeo-continentale in quanto, con l’eternizzazione della disoccupazione e
della precarietà occupazionale, imponevano senza mezzi termini una politica di
deflazione salariale permanente.
Per la Germania però la situazione stava mutando
radicalmente. Nella sostanza il crollo del muro di sostegno ad est trasformava l’egemonia
economica in aperta spinta neoimperialista. In altri termini si apriva la
possibilità di formare una periferia, costituita dalle suddette ex repubbliche
jugoslave, dall’Ungheria, dalla repubblica ceca e slovacca, dalla Polonia e
dai paesi baltici, funzionalmente legata alla Germania. Questa zona periferica
avrebbe ricevuto capitale tedesco i cui investimenti le avrebbero poi permesso
di esportare prodotti più a buon mercato e tecnologicamente inferiori a quelli
delle Germania. Viceversa la maggioranza delle importazioni ad alto valore
aggiunto sarebbero venute dalla Germania stessa. Al capitale tedesco, in quanto
forza egemone, si delineavano ulteriori spazi di intervento in Ucraina e perfino
nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia. In quest’ultimo caso i rapporti
preferenziali curati da lungo tempo con la Turchia promettevano la possibilità
di sfruttare i legami che Ankara andava stabilendo con le repubbliche sovietiche
di matrice turcomanna. Alla dinamica neoimperialista esplosa dopo la caduta del
muro di sostegno sovietico si aggiungeva la necessità di espandere gli
investimenti in Asia orientale (Cina, Indonesia, Thailandia) per ottenere delle
eccedenze nette nelle esportazioni per controbilanciare il crescente deficit nei
confronti del Giappone. L’appetito espansivo arrivò al punto che verso la
metà dello scorso decennio enti governativi e gruppi privati parlarono di
grandi progetti di sviluppo tra i quali la costruzione di assi ferroviari che
collegassero la Turchia all’Iran e quest’ultimo alle ex repubbliche
asiatiche dell’Urss per sfociare poi in Cina alla stregua dell’antica via
della seta.
Per l’attuazione di tutte queste ambizioni e soprattutto
della concretissima spinta all’est ci vogliono soldi, nel senso che bisogna
prima spendere e poi attendere un bel po’ di tempo per incassare i profitti.
Fintanto che il sistema tedesco, garantito ad est dal muro di cinta, generava
eccedenze con l’estero, il finanziamento delle attività internazionali delle
società tedesche poteva effettuarsi senza inficiare la posizione internazionale
del marco. Tuttavia le nuove ambizioni coincidevano con il declino e la perdita,
nel 1992, dell’attivo nella bilancia dei pagamenti corrente ponendo alle
autorità di Bonn il problema di riaffermare la centralità del marco
schiacciando l’inflazione e la ripresa economica interna. La scelta di
aumentare i tassi di interesse significava non solo reimporre la deflazione
salariale e la pressione sulle imprese affinchè si ristrutturassero
ulteriormente per rilanciare le esportazioni ma anche attingere al sistema
bancario e finanziario internazionale. In questo contesto, se la crisi dello SME
ha estinto il progetto di Delors di una gestione paritetica dell’oligopolio
europeo, la strada intrapresa dalle autorità di Bonn non ha però reinnescato
il processo di accumulazione. Anzi i risultati sono stati piuttosto deludenti
ripercuotendosi negativamente sulla compatezza del sistema economico nazionale.
Dopo la seconda crisi monetaria europea del 1993 si aprirono
due fasi. La prima, che durò fino al 1996, è caratterizzata dal perseverare da
parte della Bundesbank di una politica di alti tassi di interesse e quindi di un
alto valore del marco. In questa fase la vulnerabilità dell’economia tedesca
nei confronti delle importazioni aumenta e si aggrava il deficit complessivo nei
conti con l’estero malgrado il rinnovato sforzo effettuato nel campo delle
esportazioni industriali. Le difficoltà sono asscrivibili soprattutto alla
stagnazione europea iniziata già nel 1991. Benchè dal 1992 in poi la dinamica
tedesca piombasse ad un livello inferiore a quella del resto dell’Unione
Europea, la minore crescita non ribalta il quadro complessivo della bilancia dei
pagamenti. Inoltre luogo la lenta ripresa americana accompagnata da un dollaro
debole non facilita le cose. Dal 1993 al 1996 incluso la formazione di capitale
fisso è negativa, confermando così la severità della recessione europea e
nazionale ed il prezzo esatto dagli alti tassi di interesse. La seconda fase
inizia nel 1996 con il riallineamento di alcune monete europee - come la lira
italiana - sul marco fino alla fissazione del tasso di cambio in base al quale
verrà poi realizzato il passaggio ai tassi Euro nel 1999. L’accelerazione
della crescita USA, questa volta accompagnata da una rivalutazione del dollaro,
nonché la riduzione dei tassi di interesse europei e la rivalutazione di alcune
monete europee permise una certa ripresa degli investimenti interni e delle
esportazioni nette.
Tuttavia non è emersa alcuna tendenza forte, il sistema
gravita verso la stagnazione sulle cui sabbie sembra arenarsi nel 1999 per
disincagliarsi momentaneamente nel 2000 riapprodandovi infine nella prima metà
2001. Nella sostanza il paese si installa nella stagnazione senza contropartite
positive sull’estero. Il saldo della bilancia dei pagamenti permane negativo e
soprattutto gli introiti netti da investimenti all’estero, che il sistema
finanziario e delle imprese del paese venivano accumulando dal 1982, si
trasformano in passivi (esborsi) netti. Il tutto accade malgrado la tendenza al
rialzo dei margini unitari di profitto causata dalla diminuzione del costo del
lavoro e dalla riduzione dei prezzi all’importazione che apportano anche un
miglioramente nelle ragioni di scambio. La situazione si cristallizza dunque in
un quadro prettamente oligopolistico-recessivo in cui la deflazione salariale e
la conseguente riduzione del costo del lavoro non riaccendono il processo di
accumulazione produttiva. Esse aggravano semmai il contesto stagnazionistico
indebolendo la domanda interna. Eureka! eureka! Perché non fare soldi
attraverso i soldi? Certo bisognerà mettere le mani sulla struttura
organizzativa del capitalismo industriale tedesco che lo stesso Kohl era molto
reticente a ritoccare. Ma c’è pur sempre la SPD con il suo controllo sui
sindacati.
6. Confusione e chimere
Nel capitalismo oligopolistico l’aumento dei margini di
profitto non conduce necessariamente ad un maggiore investimento, può invece
aggravare la stagnazione. Al tempo stesso le imprese sosno sollecitate
rafforzare ulteriormente i margini di profitto quando subentrano considerazioni
di natura finanziaria legate al pagamento di dividendo e/o all’ottenimento di
prestiti dai ‘mercati finanziari’. Ne consegue che la finanziarizzazione dei
processi decisionali implica la trasformazione di attività in passività
finanziarie future. Per esempio se, come accade in Gran Bretagna e negli Stati
Uniti, una società si impegna comunque a pagare dei dividendi, l’emissione
azionaria considerata come un attivo dal lato finanziario si trasforma in un
esborso e quindi in passività. Se invece la società conserva la libertà
effettiva di non distribuire dividendi, sottomettendo tale possibilità alla
propria strategia di sviluppo, la traslazione di attività in passività non
avviene automaticamente. Negli Stati Uniti il crescente ricorso ad istituzioni
finanziarie extra bancarie obbliga vieppiù le imprese ad onorare l’impegno di
erogare dividendi. Inoltre l’intercompenetrazione tra ‘mercati finanziari’
e fondi di investimento impone decisamente alle imprese di seguire una doppia
linea che poco ha a che fare con l’investimento reale di lungo periodo. Da un
lato esse devono garantire i pagamenti ai detentori di pacchetti di azioni, in
larga parte in mano a società finanziarie. Dall’altro lato le imprese devono
assicurare che le azioni esibiscano valori tendenzialmente crescenti. La
dinamica della capitalizzazione borsistica diventa così un elemento essenziale
nella capacità di ottenere prestiti e di emettere strumenti di indebitamento
come le obbligazioni. La consistenza del valore dei dividendi e delle azioni è
valutata in termini reali, viene cioè paragonata all’andamento dell’inflazione
e del saggio di interesse. In tal modo le imprese devono endogeneizzare il
comportamento anti-inflazionistico. Dati quindi i prezzi, vi è un solo modo per
conseguire un saggio di rendimento monetario coerente con le valutazioni
generate dai ‘mercati finanziari’: aumentare i margini di profitto. Proprio
perché i prezzi sono dati, ciò implica la riduzione del costo del lavoro
(salario) unitario. In teoria la riduzione dei costi di produzione può
effettuarsi tramite gli investimenti produttivi. Quest’ultimi però dipendono
principalmente dalla domanda ed hanno perciò un orizzonte temporale molto
diverso dall’immediatezza richiesta dai ‘mercati finanziari’. Ne consegue
che la pressione principale viene esercitata sul salario stesso.
Quanto descritto corrisponde al comportamento dell’economia
americana negli ultimi due decenni che ha comportato una crisi senza ritorno nel
salario della grande massa dei lavoratori statunitensi [1].
Questo tipo di accumulazione finanziaria si risolve in un grande numero di
persone allo sbando, anche se formalmente occupate, per le quali l’accesso ai
servizi ed alle prestazioni pubbliche di natura sociale è vieppiù subordinato
al principio dell’obbligo reciproco. Ancora alla fine degli anni ottanta la
Germania era lontana anni-luce da questa visione della società, possibile solo
in un’economia totalmente spanata, disarticolata ed autoritaria come quella
americana. In Germania la stessa deflazione salariale era concepita in termini
produttivistici: ristrutturare tecnologicamente - non finanziariamente - per
aumentare la produttività rispetto al salario. Se i risultati erano positivi in
termini di profitto i sindacati cercavano di far scattare la contrattazione
aziendale che poi diventava un elemento nella contrattazione di categoria. È su
questa base che, nella sostanza, i sindacati hanno accettato la strategia
neomercantilista varata dai socialdemocratici nel 1969 e continuata da Kohl nel
1983, le cui conseguenze stagnazionistiche e altamente negative in termini
occupazionali per la Germania e l’insieme dell’Europa sono già state
discusse. Una forza lavoro occupata allo sbando è inconcepibile in Germania, ma
è proprio questo che Schroeder vuole sradicare dalla testa della
popolazione [2].
Sul finire degli anni ottanta il tentativo della Pirelli di
assorbire la Continental mostrò la compattezza del sistema banca-industria
vigente in Germania. L’operazione fallì perché attraverso il meccanismo di
partecipazioni incrociate alla base del suddetto sistema, la Pirelli avrebbe
finito per acquistare una fetta dell’economia tedesca. Il caso venne
addirittura preso come esempio della differenza tra il modello angloamercano e
quello renano. Tuttavia l’espansione delle attività dei fondi di pensione
americani contribuiva ad alimentare i venti di guerra i quali si fecero sentire
alcuni anni dopo quando la Germania era già in crisi ed aspirava ad attingere
copiosamente ai mercati finanziari internazionali. Nel 1992 un fondo di pensioni
Usa, il California Public Employees Retirement System, con partecipazione
nella società RWE attaccò i criteri di votazione dell’assemblea degli
azionisti. L’attacco era diretto al meccanismo che in base ad una legge del
1924 conferiva diritti di voto multipli ai rappresentanti degli enti locali sul
cui territorio si situano gli impianti della società. La manovra pur non avendo
successo, dimostrò però la natura del rimescolamento di carte in atto. Spinte
verso una maggiore autonomia finanziaria, grazie alla crescita speculativa dei
mercati borsistici, venivano dalle stesse società oligopolistiche. Importante,
in questo contesto, è il passaggio effettuato da grandi aziende al sistema di
contabilità americano che, contrariamente ai metodi allora in vigore in
Germania, valorizza la redditività monetaria delle azioni e la diversificazione
dei prodotti cartacei. Questi mutamenti venivano introdotti anche con l’obiettivo
di iscriversi al listino della borsa di New York.
La stagnazione economica e degli investimenti - motore
principale dei profitti tramite la produzione - allenta i legami di
coordinazione tra banca e industria e spinge sia la prima che la seconda a
ricercare ricchezza nel campo finanziario. Di conseguenza la tendenza all’aumento
dei margini di profitto durante lo scorso decennio ha corrisposto alla volontà
di sostenere il rendimento per azione piuttosto che a rilanciare la dinamica
produttiva. Ma la concretizzazione di tali tendenze e desideri in orientamenti
di fondo richiede l’intervento della politica ed il Governo di Kohl era
frenato dal suo stesso conservatorismo. Con l’arrivo della coalizione
social-verde nel 1997 i mutamenti ora accennati diventano la linea principale
della politica governativa.
Innanzitutto la strategia lanciata da Schroeder nota come alleanza
per l’occupazione si basa sull’idea che gli aumenti salariali sono un
ostacolo al riassorbimento della disoccupazione. Ovviamente questa spiegazione,
tra l’altro errata sul piano concettuale, non è che un pretesto. Dal patto
produttivistico orientato verso le esportazioni dei decenni settanta-ottanta,
che comunque si è fondato su uno spostamento della distribuzione del reddito in
favore del capitale e dei profitti senza tuttavia rilanciare il tasso di
crescita reale, il governo social-verde di Schroeder è passato alla
subordinazione dei sindacati ad una politica che pone le rendite azionarie - e
quindi la valutazione proveniente dai mercati finanziari - al primo
piano [3]. Inoltre e
coerentemente con tale scelta, il Governo ha lanciato una riforma fiscale e dell’azionariato,
la cui entrata in vigore è prevista quest’anno (2002), volta a facilitare le
transazioni di pacchetti azionari e le stesse scalate ‘ostili’. Commentando
tali misure l’International Herald Tribune ha giustamente osservato che
esse aprivano la strada a radicali ristrutturazioni occupazionali destinate ad
alterare profondamente il panorama sociale del paese e quindi dell’Europa.
Infine la coalizione social-verde si sta battendo per spostare il sistema
pensionistico verso i fondi di pensione proponendo finanziamenti pubblici agli
schemi privatistici.
Data la natura altamente organizzata del capitalismo tedesco,
i mutamenti vengono concepiti gradualmente. Nel frattempo i socialdemocratici
cercano di organizzare il consenso intorno alla chimera finanziaria. “Il
principio è nuovo” ha dichiarato con approvazione Erich Standfest,
specialista di politica sociale del sindacato confederale DGB, aggiungendo: ”il
fondo permetterà di allargare le possibilità dei piazzamenti facendo in
particolare maggiormente appello ai mercati borsistici” [4]. La chimera risiede nel fatto che si
spera di accrescere il patrimonio pensionistico riducendo, al contempo, i
contributi sociali erogati dalle aziende. Lo sgonfiamento della bolla di Wall
Street e l’ulteriore aggravamento della stagnazione stanno riaprendo la
contraddizioni inerenti a tali strategie. I socialdemocratici non cambieranno
però strada per cui la soluzione vettoriale delle contraddizioni avverrà sul
terreno sociale, o in termini di scontro oppure in termini di accettazione
passiva. Per salvare la loro strategia privatistico finanziaria - che è poi
quella del capitale nella sua totalità - i governanti di Bonn, ora trasferitisi
a Berlino, cercheranno di rafforzare l’Euro come moneta della deflazione
salariale e del potere della ricchezza astratta, ossia di quella finanziaria. Su
questo terreno troveranno l’appoggio delle classi capitalistiche europee ma
non necessariamente del capitale americano.
Dal punto di vista del lavoro dipendente, cioè di classe, è
assolutamente importante convincersi che con questi obiettivi non vi è nulla da
spartire. Bisogna quindi guardare alla creazione dell’Euro come un elemento
delle strategie del capitale monopolistico europeo il quale lungi dall’essere
omeogeneo si esprime in maniera coerente solo nella lotta che conduce
indefessamente contro il salario e la spesa pubblica produttiva e sociale.
Invece, purtroppo, la sinistra partitica italiana è corresponsabile dell’accettazione
dell’ideologia metapolitica insista nei discorsi sull’ “Europa” e sull’
Euro. Questa ideologia disarticola ed indebolisce la resistenza e la capacità
di autonomia politica delle classi e degli strati la cui vita dipende unicamente
dai redditi da lavoro e dal funzionamento ed ampliamento dei servizi sociali
pubblici.
[1] Per gli Usa segnalo l’ottimo
libro di James Galbraith: Created Unequal. The Crisis in American Pay (Creati
disuguali: la crisi della paga in America), New York: Free Press, 1998.
[2] Pochissimi anni fa centinaia di migliaia di assicuratori autonomi
entrarono in lotta per farsi assumere come dipendenti dalle società da cui
percepivano le commissioni. Essi sostenevano giustamente che andare in giro
aprendo polizze per la società assicuratrici era puro lavoro salariato. Il
pagamento sotto forma di commissioni non era che un modo di scaricare gli oneri
sociali sui lavoratori dipendenti facendoli apparire come formalmente autonomi.
Purtroppo non posso riferire sull’esito di questa lotta, rapidamente scomparsa
dai notiziari radio-televisivi tedeschi ritrasmessi in Australia dalla rete
radio-televisiva pubblica multiculturale SBS. A mio avviso questa è stata una
lotta importante perché, data la sua dimensione di massa, smonta le ideologie
che vedono nell’autonomo una specie di emancipazione individualistica del e
dal capitalismo.
[3] Christian Berndt, “Corporate Germany at the Crossroads?”, ESRC Centre
for Business Research, University of Cambridge, Working Paper No. 98, June,
1998. Lo stesso è successo in Francia ove il Governo Jospin ha spinto
privatizzazione e finanziarizzazione a livelli inimmaginabili offrendo ai
sindacati il contentino trappola delle 35 ore domandando però un’ulteriore
flessibilità del lavoro. In Italia la sinistra di matrice Pci (Rossanda-Rivista
magriana-Rifondazione) ha subito cantato ‘laudatur Jospinistus’ sdoganandolo
persino dall’aggressione alla Jugoslavia ove i bombardamenti francesi sono
stati secondi solo a quelli effettuati dagli Stati Uniti.
[4] Philippe Ricard, “les
fonds de pension volent au secours des prestations versées par les entreprises”,
in Le Monde Economie, 20 marzo 2001.