Economia marginale del Mezzogiorno e Reddito Sociale Minimo
Luciano Vasapollo
Intervento presentato in convegni e assemblee delle Rappresentanze Sindacali di Base (RdB) e di altre strutture dell’associazionismo e del sindacalismo di base
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I periodi dello sviluppo economico del nostro Paese hanno
creato una crescente differenziazione territoriale e sociale, con conseguenti
fenomeni socio-economici che trasformano e modificano i rapporti
centro-periferia in chiave geografica, e soggetti garantiti-non garantiti in
chiave economica, accrescendo la schiera delle nuove marginalità, delle
esclusioni, delle nuove povertà. La geografia e i modelli della struttura
economica complessiva del Paese permette un confronto tra sistemi produttivi
locali fra loro diversi, fra nuovi soggetti che scaturiscono da tali processi.
Si tratta di processi che necessitano di una diversa e più articolata
documentazione statistico-economica e di una più attenta lettura socio-politica
avendo bisogno di nuove logiche interpretative, di nuovi strumenti ignorati
dalle analisi di impostazione industrialista. Dal dopoguerra ad oggi si possono
individuare molti modelli geografici e sociali dello sviluppo economico; in
particolare si nota il passaggio da un modello di progressiva concentrazione
territoriale della produzione, del reddito e della popolazione, ad un modello di
diffusione locale delle dinamiche di sviluppo che ha interessato aree a
rilevanza intermedia. Le trasformazioni strutturali che stanno caratterizzando
il sistema socio-economico sono soprattutto trasformazioni che nascono dalla
continua interazione del terziario con il resto del sistema produttivo nate dall’esigenza
di ridefinizione produttiva e sociale del capitale.
Depolarizzazione produttiva; sviluppo economico-demografico
non metropolitano; deindustrializzazione accompagnata da processi di
delocalizzazione e decentramento territoriale; deconcentrazione produttiva
caratterizzata dalla diminuzione delle dimensioni d’impresa, dalla
deverticalizzazione e scomposizione dei cicli produttivi; formazione e sviluppo
di sistemi produttivi locali accompagnati da alta specializzazione, piccola
dimensione, interrelazioni produttive. Tutto ciò non deriva da una natura “fisiologica”
del processo di diffusione territoriale, poiché questa invece va vista come il
risultato di alcune contraddizioni del modello di sviluppo del dopoguerra e
degli anni ‘70 prima e poi degli anni ‘80. Le particolari condizioni esogene
ed endogene alle aree di “diffusione”, i processi di ridefinizione del
modello e del progetto del capitalismo italiano determinano aree territoriali a
valenza socio-economica che si modellano in funzione delle necessità di
ristrutturazione delle dinamiche d’impresa.
Una ristrutturazione capitalistica che, almeno
apparentemente, dimostra di reggere all’impatto sociale e occupazionale
provocato dalle politiche deflazionistiche volute dall’accordo di Maastricht.
Ciò soprattutto perché i livelli di marginalità sociale e la crescita dei
tassi di disoccupazione hanno colpito soprattutto il Sud. Basti pensare che nel
Mezzogiorno si ha un tasso medio di disoccupazione vicino al 25%, ed in molte
aree il tasso di disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 25 anni) supera il 60%.
A ciò bisogna associare un vero e proprio crollo degli investimenti industriali
verificatesi in questi ultimi 3-4 anni che si è accompagnato ad una caduta
verticale degli investimenti pubblici in opere infrastrutturali. La chiusura del
ciclo del “puro assistenzialismo” e dell’intreccio perverso politica-
affari che si era determinato intorno alla Cassa per il Mezzogiorno e dell’Agenzia
del Dipartimento, hanno di fatto determinato la chiusura di qualsiasi intervento
ordinario o straordinario in favore di forme più o meno articolate di sviluppo
del Meridione.
Anche le politiche intraprese in questi ultimi due anni dal
Governo dell’Ulivo sono state orientate esclusivamente agli incentivi di
impresa, alla riduzione del costo del lavoro, alla riproposizione più o meno
velata delle gabbie salariali. Tali scelte macroeconomiche sono giustificate da
una ipotetica nuova fase di sviluppo meridionale derivante dalla capacità di
attirare investimenti industriali e risorse imprenditoriali, in modo da ridurre
la divaricazione fra modalità dello sviluppo del Nord Italia e quelle del
Mezzogiorno. Ma in realtà tali politiche non hanno portato, e non possono
portare, a ridurre gli squilibri Nord-Sud né ad una diminuzione delle fasce di
povertà assoluta o relativa, dando luogo invece a forme di superamento della
dicotomia dello sviluppo italiano causato sia dalla diversificazione economica
delle regioni intermedie e dal rallentamento di quelle avanzate sia,
soprattutto, evidenziando la nascita di nuovi soggetti sociali ed economici
marginali ed emarginati. Si va approfondendo così il solco fra un Paese ricco e
settori sempre più vasti di popolazione esclusa, precarizzata, vicino alla
soglia di povertà; masse sociali spesso rese da tali processi di sviluppo
talmente emarginate e povere da essere considerate fra i “nuovi miserabili”
nella società dell’opulenza e dello sviluppo a tutti i costi incentrato sul
profitto e sui parametri di efficienza dell’impresa.
Il risultato più immediato della via italiana al modello di
sviluppo neoliberista è l’aumento della disoccupazione che si va trasformando
in strutturale, incrementando la schiera dei disoccupati “invisibili”, non
ufficiali, precarizzando la qualità del lavoro e della vita di chi con tale
sistema non riesce ad emergere ed arricchirsi. Non è un caso che negli ultimi
sei anni nel Centro-Nord si ha un tasso di occupazione irregolare nell’industria
intorno al 12% del totale dei lavoratori, mentre nel Sud tale percentuale
raggiunge il 50%, con picchi di oltre il 55% in Sicilia e del 63% in Calabria.
Tali percentuali invece di essere utilizzate per dimostrare la mancanza di
solidità e la precarizzazione assoluta di ogni forma di sviluppo nel
Mezzogiorno, vengono spesso citate da autorevoli fonti istituzionali per
dimostrare la cosiddetta “vitalità, creatività, e capacità di arrangiarsi”
di un popolo meridionale capace di darsi autonomamente delle possibilità di
crescita e di autorealizzazione. Nei fatti il Mezzogiorno diventa un’area
economico-territoriale utilizzata come laboratorio per sperimentare le forme
più povere dell’economia marginale, per realizzare cioè quelle fasi del
ciclo produttivo industriale a più basso contenuto di conoscenza, formazione e
informazione, cioè quelle forme di lavoro a forte caratterizzazione manuale e
prive di garanzie e diritti. E’ invece nel Nord che continua a svilupparsi
quell’industria moderna affiancata da un terziario avanzato ad alto contenuto
di risorse immateriali, caratterizzando così le regioni settentrionali in una
maggiormente dinamica e diversa collocazione economico-produttiva e
socio-culturale.
Esiste quindi una stretta correlazione tra fenomeni economici
e fenomeni sociali; non è un caso che nel tanto decantato Nord-Est convivono
forme di aristocrazia operaia, superspecializzata e ben pagata, che identifica i
propri destini con quelli dell’imprenditore, e forme di lavoro sottopagato,
senza garanzie, lavoro nero, precario e flessibile anche nella remunerazione
oltre che nei tempi e nei modi di lavoro. Si spiega così, e non solo nella
dicotomia Nord-Sud, il carattere dualistico dello sviluppo italiano, che sconta
sottosviluppo in molte sue parti territoriali e sociali in funzione dei modi di
accumulazione del capitale che si correla allo sviluppo ritardato e dipendente
del capitalismo italiano rispetto al resto dell’occidente. La ristrutturazione
capitalistica ha di fatto dissolto le grandi fabbriche dove meglio si
organizzava l’antagonismo di classe, queste sono state smantellate e divise
nei distretti, nelle imprese-rete, nelle filiere, nei reparti produttivi diffusi
nel territorio.
In tale processo di ristrutturazione il Mezzogiorno gioca un
ruolo subalterno, non soltanto nei confronti dell’industria italiana, ma anche
rispetto ai processi di innovazione tecnologica tipici di tutti i settori più
avanzati dell’industria mondiale. Il Meridione diventa il laboratorio dell’economia
marginale e sommersa, delle lavorazioni materiali, del lavoro nero, del lavoro
sottopagato, del precariato, del lavoro irregolare e della schiera enorme di
disoccupazione pronta a lavorare a qualsiasi costo e a qualsiasi condizione. All’interno
delle dinamiche complessive dell’economia marginale diventa centrale, quindi,
il rapporto, le relazioni che tutte le strutture dell’economia stabiliscono
con la realtà produttiva meridionale. Relazioni che mutano nel tempo ma che
continuano a configurare rapporti funzionali da sottosviluppo, realizzati in
maniera specifica per l’evoluzione del sistema in altre aree del Paese, per la
riproduzione e l’espansione della struttura centrale dell’economia. Si passa
così dalla funzione attribuita al Mezzogiorno di serbatoio di manodopera e
calmiere del costo del lavoro, di regolazione delle contraddizioni sociali e
produttive, alla considerazione di area di vendita, di area di sperimentazione
della flessibilità del lavoro e del salario, della sperimentazione di incentivi
e sostegno redistributivo ad aziende che vedono contrarre i profitti in campi
tradizionali. E’ nel Sud che continuano le diverse “prove di sfruttamento”
a partire dalla riduzione del costo del lavoro, di un lavoro sommerso, di un
lavoro irregolare e senza diritti, senza sicurezza, che significano già di per
sé incrementi spropositati di profitto e di coercizione di tutti i lavoratori
occupati e non. E’ così che avviene la collocazione del nostro Mezzogiorno in
quell’area industriale a forte disoccupazione e precarizzazione, a lavorazione
materiale non garantita da affiancare alle altre aree del supersfruttamento del
lavoro come l’Albania, i paesi dell’Africa Mediterranea, la Turchia.
I processi di marginalizzazione dell’economia meridionale
rispondono, allora, al progetto della globalizzazione dell’economia, che ha
costretto il capitalismo ad una scelta di modello di sviluppo distribuito sul
territorio e fondamentalmente basato su forme sempre più pressanti di terziario
implicito ed esplicito, veicolando il consenso alle forme di produzione diffusa,
con la conseguente precarizzazione del lavoro e frammentazione dell’unità di
classe. A questo proposito un elemento di fondamentale rilievo diviene il ruolo
assunto dalle piccole e medie imprese nel Mezzogiorno. Queste sono protagoniste
di un ipotizzato sviluppo meridionale, che viene gestito in funzione della loro
specializzazione e capacità autopropulsiva basata sulle nuove forme di “cottimizzazione”
generalizzata del lavoro e sul massiccio ritorno al lavoro nero alla
precarizzazione, alla flessibilità produttiva, del lavoro e dei salari.
Tutto ciò è certamente il risultato di un rapporto di
dominanza con vere e proprie caratteristiche di colonizzazione delle aree
meridionali; si tratta di un vero rapporto espropriazione-appropriazione, di
supersfruttamento del lavoro, in cui le localizzazioni delle aziende madri
mantengono le funzioni strategiche e più redditizie del ciclo di
produzione/commercializzazione. La conseguenza è che quando si decidono
processi di localizzazione produttiva nel Meridione, molto spesso si allocano
stabilimenti e ditte affiliate, mentre i centri direzionali sono in altre zone,
determinando anche nelle produzioni tradizionali una manifesta debolezza a cui
corrisponde la precoce mortalità di tantissime filiali e la fine di molte
imprese; sopravvivono solo alcune piccole o piccolissime imprese a forte
caratterizzazione produttiva locale, che si rassegnano ad una situazione di
micro-mercato accogliendo gli effetti della logica residuale.
A tale logica si può rispondere ridefinendo il ruolo di uno
Stato occupatore e di un diverso modello di sviluppo, non basato sui parametri
classici della crescita capitalistica e dell’incremento forzoso della
produzione di merci. Ed è proprio a partire dal Meridione che si possono
ridefinire lavori di forte interesse sociale e a forte connotato di pubblica
utilità, creando occupazione finalizzata a produzioni non necessariamente di
carattere mercantile e che anzi rivalorizzino il capitale umano e le risorse
immateriali a partire dai nuovi bisogni di un Mezzogiorno che vuole
riqualificare le sue potenzialità. Per far ciò è necessario che nel Sud si
riattivino gli investimenti pubblici non solo a carattere infrastrutturale, ma
soprattutto quelli di una diversa e moderna produzione industriale e soprattutto
di servizi, attraverso uno sviluppo solidale ed eco-socio-compatibile. Ciò non
può realizzarsi a partire esclusivamente da alcuni imprenditori isolati anche
se dotati di una certa predisposizione verso uno sviluppo economico a
particolari connotati sociali, o dal tanto decantato ma falso sviluppo
imprenditoriale del “fai da te”.
Le trasformazioni strutturali che stanno caratterizzando
soprattutto il sistema socio-economico meridionale sono anche, e forse
soprattutto, trasformazioni nell’essere e nell’interagire dei nuovi soggetti
produttivi del lavoro e del non lavoro, del lavoro negato, di tutti i nuovi
soggetti sociali antagonisti in genere, e ciò non è possibile leggerlo solo
attraverso analisi ancora basate sulle vecchie considerazioni socio-economiche
legate alle antiche interpretazioni della “questione meridionale”. Un
profondo processo di trasformazione di questo tipo deve necessariamente portare
a riconsiderare le vecchie categorie economiche, i vecchi soggetti produttivi,
le politiche economiche ormai di stampo antico perché superate dall’evoluzione
dei tempi. L’analisi va quindi riportata sul piano delle relazioni industriali
ma soprattutto sociali; si individuano così i caratteri strutturali della
disoccupazione e del lavoro negato nei sistemi produttivi locali meridionali
basati sul lavoro senza diritti; sull’intensificazione dei ritmi e sull’elevata
divisione del lavoro; sulla spinta alla distruzione del tessuto produttivo;
sulla molteplicità dei soggetti economici locali, non garantiti, con rapporti
di lavoro saltuario, con precarizzazione del lavoro e del reddito, sulla mancata
costruzione e distruzione della professionalità dei lavoratori, accompagnata,
per i lavori “più miseri”, da commesse esterne con forte componente di
lavoro nero e sottopagato; sulla diffusione dei rapporti “faccia a faccia”
senza intermediazioni sindacali.
E’ quindi a partire da tali nuove soggettualità dell’antagonismo
sociale che si può riorganizzare l’unità di interessi del mondo del lavoro ,
la solidarietà e la forza che negli anni ‘60 e ‘70 la classe operaia si era
data a partire dall’organizzazione in fabbrica. Al centro dell’iniziativa
politica e sociale devono ritornare le associazioni di base, i comitati di
quartiere, le forme organizzate del dissenso nel territorio, le organizzazioni
dei lavoratori che non hanno scelto il consociativismo, ma che anzi pongano come
immediato il problema del potere attraverso la distribuzione sociale del valore
e della ricchezza complessivamente prodotta, riassumendo nel contempo i nuovi
soggetti della trasformazione sociale, le nuove povertà, le fasce deboli della
popolazione, come definizione di una ricca risorsa dell’antagonismo sociale.
Allora nell’ambito di un programma minimo per l’antagonismo sociale va
immediatamente capito che l’incremento di produttività è ricchezza
sociale che può garantire il soddisfacimento di nuovi bisogni, redistribuendo
socialmente l’accumulazione di capitale, e lanciando un programma di
iniziativa che entro pochi anni possa portare alla giornata lavorativa, a
parità di condizioni, di 15 ore e non di 35!
E’ così che possono essere recuperati in termini
redistributivi gli immensi incrementi di produttività che si sono realizzati in
particolare in questi due ultimi decenni, rivendicando da subito una riduzione
generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario reale, ponendo le
basi per creare nuova occupazione a partire da lavori a compatibilità sociale e
ambientale e di pubblica utilità con pieni diritti e piena retribuzione,
rafforzando nel contempo il Welfare State tramite incrementi delle entrate del
bilancio pubblico determinate dalla tassazione dei capitali, in modo da poter
inserire nella spesa sociale anche un Reddito Sociale Minimo europeo da
distribuire ai disoccupati, ai precari, ai marginali.
Non si tratta quindi di richiedere quel minimo vitale
a carattere etico e filantropico che può assumere la forma di salario minimo o
reddito garantito, ma si vuole imporre semplicemente il pieno riconoscimento
della forma sociale del salario riferito all’intera classe lavoratrice e
storicamente determinato e derivato dai rapporti tra lavoro e capitale. E’ per
questo che tale diritto preferiamo individuarlo con i nome di Reddito Sociale
Minimo, e su tale proposta che il nostro Centro Studi
(CESTES-PROTEO) in collaborazione all’Associazione Progetto Diritti e all’Unione
Popolare ha lanciato una battaglia culturale, politica e sociale, che vuole
avere dimensioni europee, a partire da una proposta di legge di iniziativa
popolare. Ci sembra quindi un obiettivo minimo, praticabile quello di aprire
una battaglia, una iniziativa di dibattito e di lotta, che realizzi la
riduzione generalizzata dell’orario di lavoro sull’intero arco di vita del
lavoratore a parità di salario e con controllo dei ritmi e della condensazione
del lavoro, realizzando così un milione di posti di lavoro ripartendo anche da
produzioni non mercantili e dalla ridefinizione di uno Stato occupatore;
recuperare almeno 50 mila miliardi annui dalla tassazione dei capitali da
destinare al Reddito Sociale Minimo.