Proposta di legge per l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche dei lavoratori socialmente utili
Elaborata e promossa dal Centro Studi Trasformazioni Economico-sociali (CESTES-PROTEO) in collaborazione con l’Associazione Progetto Diritti e la Federazione delle Rappresentanze Sindacali di Base (RdB). Giugno 1998 |
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1. Riflessione sui modelli economici
Cegli ultimi decenni con l’esaurirsi della crescita del mercato
mondiale, con i processi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia,
con l’imposizione della ristrutturazione del modello produttivo in aree di intervento
territorialmente definite (vedi Europa di Maastricht) finalizzate ad una interpretazione
in termini di conflitto della concorrenza internazionale, si è determinata una
situazione ancora più sfavorevole allo sviluppo occupazionale.
Se a ciò si aggiunge l’incremento di produttività dovuto all’innovazione
tecnologica, che non si è tramutato in maggiori possibilità di sviluppo per
l’intera collettività internazionale né in una equa redistribuzione di tale
ricchezza sociale prodotta ma in semplici incrementi di profitto, si capisce
ancor più come la disoccupazione abbia assunto un connotato strutturale e non
più congiunturale.
Va rilevato che questa “tragica diminuzione” dell’occupazione
non è un fenomeno nuovo dal momento che già alcuni padri del pensiero economico
sostenevano che la disoccupazione sarebbe derivata sempre più dall’innovazione
tecnologica , poiché l’introduzione di nuove tecniche di produzione risparmiano
lavoratori ma non lavoro, e che tale processo è irreversibile dal momento che
l’andamento occupazionale segue quello della produzione solo quando quest’ultima
è in fase discendente.
Il mercato europeo è stato fortemente condizionato dalle scelte
della Germania che, in seguito alla riunificazione, ha cercato di equilibrare
la propria bilancia dei pagamenti attuando una politica molto restrittiva che,
tra l’altro, ha influenzato anche l’intera costruzione dell’Unione Europea.
Il modello economico italiano in tale contesto, inoltre, si
è distinto per una accentuazione dei processi di deindustrializzazione a vantaggio
dello sviluppo di un terziario, spesso non ufficiale e a scarso contenuto di
diritti, che, accompagnato da preordinate manovre a prevalente contenuto finanziario,
hanno reso più debole il sistema produttivo e sempre più precario il reddito
disponibile per le famiglie. Distogliere risorse agli investimenti produttivi
privati, colpire la spesa pubblica (sia quella indirizzata all’assistenza sia
quella finalizzata agli investimenti) abbattendo nei fatti il ruolo di uno Stato
regolatore e occupatore, ha prodotto principalmente “bolle finanziarie”, speculazioni
finanziarie che inseguono facili profitti e che, in sostanza, oltre a non produrre
ricchezza non creano posti di lavoro.
Il processo di globalizzazione che ha investito i mercati mondiali
sta portando non tanto ad una scomparsa del lavoro quanto ad una sua distribuzione
“selvaggia”. Ci si trova, infatti, davanti da un lato a persone che non trovano
lavoro e non riescono a sopravvivere e dall’altro a persone che arrivano a lavorare
fino a sessanta ore in una settimana. La crisi dei lavori tradizionali, la mancanza
di adeguati processi di formazione, il prevalere della produzione di servizi
su quella di beni materiali, il dominio dei lavori intellettuali su quelli manuali
e ripetitivi, ha portato ad uno squilibrio nel sistema occupazionale. Il lavoro
è, infatti, sempre più monopolizzato da coloro che detengono la risorsa immateriale
dell’informazione, della comunicazione conoscitiva, del sapere. In questa situazione
è evidente che la grande industria non è più in grado di rappresentare il “serbatoio
occupazionale” per eccellenza. Anzi, si sta verificando il fenomeno opposto;
si vedano i numerosi licenziamenti di questi ultimi anni, la delocalizzazione
produttiva, la costituzione di veri e propri “reparti confino”, il ricorso sempre
più massiccio da parte delle imprese a commesse in lavoro nero, grigio, sottopagato
e senza diritti.
D’altro canto le scelte monetariste e deflazionistiche del
modello economico italiano e internazionale relegano le Amministrazioni Pubbliche
ad un ruolo occupazionale secondario, residuale, e comunque subordinato agli
interessi delle grandi imprese private, non permettendo più l’assorbimento di
quella parte di offerta di forza lavoro eccedente sul mercato e che dovrebbe
essere indirizzata ad un rafforzamento efficiente dei servizi pubblici.
A questo punto è chiaro come sia anche diminuita l’importanza
del ruolo dello Stato nel processo di formazione dei lavoratori che, in un contesto
di terziarizzazione accelerata, devono essere costantemente riqualificati, salvaguardati,
inseriti in processi di formazione continua su tutto l’arco di vita. Infatti
la formazione sempre più diverrà un elemento che caratterizza il nuovo modo
di lavorare, indispensabile per coloro che intendono conquistare nel lavoro
sempre nuovi spazi di decisione, e in questo contesto lo Stato deve svolgere
un ruolo primario sia nei processi di scolarizzazione sia in quelli di formazione
continua e sia, infine, nella capacità di creare occupazione in lavori non necessariamente
di tipo mercantile. L’occupazione dovrà, anzi, essere sempre più finalizzata
ai nuovi bisogni in un modello di sviluppo non basato esclusivamente sulla crescita
della ricchezza materiale ma sull’ampliamento delle risorse immateriali disponibili
per tutta la collettività, in un contesto, quindi, di sviluppo solidale e ad
alti connotati di compatibilità sociale ed ambientale.
2. I lavori di rilevanza sociale per un diverso modello
di sviluppo
E’ proprio in tale contesto che la soluzione più praticabile
diventa quella di creare nuovi lavori e di redistribuire il lavoro esistente.
E’ fondamentale, pertanto, puntare sui lavori socialmente necessari, a forte
connotato ecocompatibile e di pubblica utilità (protezione ambientale, servizi
sociali e assistenza per giovani, anziani, malati, disadattati, occupazione
per il tempo libero e per i bisogni culturali e formativi, solidarietà sociale
in genere) che creano occupazione ma nel contempo producano beni e servizi di
cui oggi vi è bisogno, ma di cui scarsa è l’offerta. Si può così sostituire
alla logica della produzione esclusivamente di merci, spesso superflue ma comunque
finalizzata al profitto d’impresa, la realizzazione di servizi pubblici essenziali
oggi non disponibili.
Anche se i lavori ad alto contenuto sociale e ambientale (
questi si davvero socialmente necessari) non possono rappresentare da soli la
soluzione al problema dell’occupazione, oggi costituiscono comunque uno strumento
valido per rilanciare il ruolo di uno Stato interventista e occupatore andando
incontro ai nuovi bisogni, prevalentemente di natura immateriale, e aiutando
nel contempo le persone in situazioni disagiate.
Il lavoro di pubblica utilità a connotato sociale e ambientale
può diventare allora un momento di promozione occupazionale che si va articolando
attraverso iniziative che coinvolgano disoccupati, cassintegrati, lavoratori
in mobilità, per interventi di interesse generale, al fine di realizzare opere
e servizi di utilità pubblica ad alto connotato di eco-socio-compatibilità.
3. Una legge per l’assunzione degli LSU
Il campo di applicazione finora dei LSU è stato vasto (cura
e il sostegno dell’infanzia; raccolta differenziata, gestione delle discariche
ed impianti per il trattamento di rifiuti solidi urbani; miglioramento della
rete idrica, piani di recupero , conservazione e riqualificazione di aree urbane)
ma ha seguito le vecchie impostazioni assistenzialiste facendo mantenere ai
lavoratori il loro stato di disoccupazione, trasformandoli di fatto in lavoratori
precari, sottopagati e senza alcuna prospettiva di un lavoro stabile, a pieno
salario e a pieni diritti.
La presente proposta di legge per L’ASSUNZIONE NELLE
AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE DEI LAVORATORI SOCIALMENTE UTILI parte, quindi,
dalla considerazione della presenza di migliaia di lavoratori impiegati in cosiddetti
LSU nell’ambito di attività proprie delle Amministrazioni Pubbliche, che svolgono
da mesi o addirittura da anni funzioni essenziali per l’espletamento dei compiti
istituzionali degli Enti, che hanno accumulato un bagaglio di esperienza e di
preparazione che costituisce un patrimonio non facilmente sostituibile, se non
attraverso costose e lunghe nuove procedure di formazioni.
Siamo in presenza di personale precariamente assunto, anche
per lo svolgimento di compiti ed attività non tradizionalmente proprie dalle
Amministrazioni Pubbliche, ma avvertire dalla pubblica opinione come essenziali
ed ineludibili (si pensi alla protezione dell’ambiente ed alla tutela del territorio
e del patrimonio storico, artistico o paesaggistico).
D’altro canto vi è la necessità di provvedere ad una sempre
più macroscopica carenza di organico da parte del complesso delle Amministrazioni
Pubbliche, aggravata - per esigenze connesse al ripianamento dei conti pubblici
- dal blocco (totale o parziale) delle assunzioni che si è determinato negli
ultimi anni.
4. L’«emorragia» occupazionale nelle Amministrazioni Pubbliche
Al fine di meglio comprendere la vera e propria “emorragia”
di posti di lavoro che negli ultimi anni si è verificata nei vari settori istituzionali
delle Amministrazioni Pubbliche, si presentano di seguito delle elaborazioni
sui dati desunti dall’Annuario Statistico Italiano 1997 (pubblicato dall’ISTAT)
e dal bollettino RGS, monitoraggio del personale del pubblico impiego ( Ministero
del Tesoro, Ragioneria generale dello Stato 1998).
Premesso che al 31 dicembre 1996 le Amministrazioni Pubbliche
contavano 3.561.000 occupati a fronte dei 3.696.000 di fine 1992 (quindi
con una perdita netta di 135.000 posti di lavoro), le variazioni percentuali
del periodo 1992-1996 sono quelle presentate in Tab. 1.
Se in maniera disaggregata si confrontano ad esempio i dati
del personale delle Amministrazioni Pubbliche tra la fine del 1994 e la fine
del 1995 si hanno 3.357.170 lavoratori dipendenti al 31-12-1995 contro i 3.377.863
alla stessa data del 1994, e rispettivamente 243.373 unità di personale temporaneo
contro le 259.216, con una perdita netta di dipendenti nelle Amministrazioni
Pubbliche di 36.536 unità di lavoro dipendente, che rappresenta l’1% in termini
di variazione percentuale. Si consideri, inoltre, che per il 1995 le assunzioni
nelle Amministrazioni Pubbliche sono derivate essenzialmente dal passaggi da
una amministrazione all’altra, mentre il ricorso alle procedure concorsuali
è stato significativamente inferiore del già basso ricorso che nel 1994 si era
fatto a tale forma assunzionale. A livello territoriale oltre il 39% del personale
pubblico, sempre per il 1995, è risultato collocato al Nord, circa il 23% al
Centro e il rimanente 38% nel Mezzogiorno.