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Il punto, la pratica, il progetto

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Elettra Deiana
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Direzione nazionale PRC, Forum delle donne

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Profit State e Reddito di Cittadinanza

Elettra Deiana

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L’impresa postfordista è diventata impresa diffusa socialmente sul territorio, fabbrica generalizzata, radicata nell’insieme sociale, che scompone le mansioni, crea nuovi lavori atipici, rompe quell’unità di classe dei lavoratori che la fabbrica fordista aveva invece favorito. Così il lavoro da universo coeso e tendenzialmente aggregante si frantuma in una galassia diversificata e scomposta, da luogo della possibile unificazione di diversi in potenza collettiva, diventa luogo “della dissipazione e della competizione tra una molteplicità di figure la cui unica natura sociale finisce per risiedere al di fuori di loro, nella potenza astratta che se ne valorizza” (Marco Revelli). Il processo di accumulazione è diventato, in un simile contesto, universale e onnipervasivo, tale da colonizzare l’intera rete delle relazioni umane, basando la propria espansione, sempre più flessibile e flessibilizzante, sull’informazione, sulla comunicazione, sull’immagine, sulle risorse del capitale intangibile, irrompendo nel corpo sociale e succhiandone fin l’anima attraverso il “Profit State”, secondo la definizione che dà il titolo al volume di Rita Martufi e Luciano Vasapollo.

Se i nuovi processi di accumulazione del capitale sussumono e integrano al fine della propria riproducibilità tutta l’immaterialità/materialità dei saperi, delle competenze, delle risorse della vita e della sopravvivenza, il paradigma di genere può e deve offrire un inedito punto di osservazione e di conoscenza di tali processi. L’esistenza al mondo di donne e uomini incarnati, da sempre diversamente e asimmetricamente collocati nel rapporto capitale lavoro non è infatti senza conseguenze economiche, sociali, politico-simboliche nell’irruzione onnipervasiva dell’impresa totale nella vita sociale. La dimensione della riproduzione sociale in ambito domestico, il cosiddetto lavoro di cura e di accudimento, il poderoso concorso alle stesse condizioni della produzione che viene da questa sfera del lavoro, dall’immenso sommerso del lavoro femminile, rivestono un ruolo di primo piano nell’accumulazione delle risorse primarie per l’accumulazione capitalistica totale dell’oggi. A cominciare dai primordi dei processi della riproduzione sociale, sia materiali, la cura dei corpi bambini sia immateriali, la cura dell’anima bambina. Che cosa c’è di più immateriale della trasmissione della lingua e del linguaggio, dell’attivazione di quel fondamentale concorso alla dinamica apprenditiva delle creature che viene, ancora pressochè sempre, dalla funzione materna? Ruolo e funzione - quello delle donne in ambito domestico - strettamente connessi alla sfera economica ma rispetto ad essa eccentrici, per come l’economia è intesa ed è materialmente dominante, e carichi di una storia sociale di genere, di una divisione sessuale del lavoro resa possibile dagli assetti di potere tra i sessi che storicamente hanno reso subordinato quello femminile a quello maschile. Ma nello stesso tempo percepiti ancora socialmente e rappresentati simbolicamente come naturali, tanto che continuano a essere considerati simbiotici col corpo femminile, interiorizzati nell’immaginario sociale come un tutt’uno con la funzione della riproduzione biologica, un allungamento di quella funzione che copre l’intero arco dell’esistenza di ogni donna e che si articola nella quotidianità dell’assolvimento di funzioni primarie di accudimento verso l’intera rete parentale.

Continuano a perdurare afasia teorica e silenzio politico su questo versante dell’economia umana. Anche le donne che hanno vissuta l’intensa storia del femminismo degli ultimi trent’anni sono passate per lo più lontane da questo nodo fondamentale della vita delle donne. Un tale aspetto può essere spiegato se si affronta criticamente il nodo delle politiche emancipazionistiche e l’imbroglio di genere che le sosteneva: l’affermazione femminile e la concessione maschile che le donne abbiano diritti pari agli uomini si sono prodotte senza che fosse rimessa in discussione la radicale asimmetria di poteri tra i sessi derivante dall’esistenza di uno smisurato lavoro di riproduzione sociale in ambito domestico tutto a carico delle donne. La grande stagione femminista cominciata alla fine degli anni Sessanta ha portato sulla scena pubblica una dimensione inedita e dirompente del percorso politico delle donne nella modernità: quella della coscienza di sé, del corpo e della sessualità, della soggettività, autodeterminazione, libertà. Ma, per quanto riguarda in particolare l’ Italia, il femminismo non si è occupato, se non in esperienze limitate e marginali, della materialità della vita sociale e della sfera economica. Della potenza costituente di tale sfera rispetto alla vita delle donne non è stato detto niente e la questione politica dell’autonomia delle donne è stato delegata al movimento operaio e alla sinistra: lavoro, reddito, rapporto con lo Stato, concorso del lavoro domestico delle donne all’accumulazione della ricchezza sociale. Anche più tardi, le donne hanno mostrato e mostrano difficoltà ad affrontare questa dimensione nei suoi termini di fondo; oppure si fermano al di qua dei problemi reali che vi sono sottesi, limitandosi a denunciare le più vistose iniquità e chiedendo rimedi, oppure ricadendo, come oggi sta avvenendo con le politiche di Family State di Livia Turco e del suo staff ministeriale, nell’accettazione di una funzionalizzazione femminile al cosiddetto lavoro di cura, che deve tutt’al più essere sostenuto familisticamente, in quelle forme di miserabilismo sussidiario che si stanno affermando come caratteristiche dello smantellamento in corso del Welfare state e che soltanto una radicale analisi di genere può portare pienamente alla luce, mostrando per intero iniquità e contraddizioni dell’attuale fase della modernizzazione capitalistica. Contraddizione che hanno al centro il corpo delle donne e il complesso rapporto tra produrre e riprodurre che in quel corpo si costituisce.

é di qualche tempo fa la notizia che le operaie di un’azienda tessile siciliano, trentadue giovani donne tra i venti e i ventisette anni, hanno deciso di programmare a turno le gravidanze per evitare di sovrapporre le astensioni, di diminuire la produttività dell’azienda e di mettere a rischio la loro occupazione. Un episodio emblematico, che fa emergere l’inedita, radicale contraddizione tra capitale e lavoro salariato: quella che ha al centro la fisicità del corpo femminile, la disposizione biologica di quel corpo a riprodurre la vita e l’incompatibilità che tutto ciò rappresenta rispetto al violento dispiegarsi in ogni dove del primato dell’impresa e della logica del mercato. Il corpo femminile è quanto di più incongruo e incompatibile ci sia oggi rispetto a quella logica, è un ingombro da tenere sotto controllo, ridurre, annientare. Esso infatti non soltanto produce un fastidio intollerabile rispetto al libero dispiegarsi della logica d’impresa, non soltanto costituisce una rigidità irriducibile, contro cui bisogna acuminare le armi dello sfruttamento legalizzato e illegale, ma allude, quel corpo che dà la vita, a una dimensione altra e diversa della dimensione economica e dell’esistenza sociale e simbolica di donne e di uomini. Una dimensione che parla delle relazioni, dell’affettività, dei desideri, della quotidianità dell’esistenza umana e di tutti gli obblighi pubblici e privati della riproduzione sociale che quell’esistenza permettono. Sono obblighi che, per una parte rilevantissima, gravano ancora, e anzi sempre più si vuole che gravino, proprio sulle spalle di quelle stesse donne alle quali il mercato nega di possedere il corpo che possiedono, il diritto a un’esistenza piena, a una cittadinanza compiuta.

Negli ultimi anni, anche in preparazione della Conferenza delle donne di Pechino del 1995, la battaglia per la visibilità del lavoro domestico e la sua misurazione si èintensificata, tanto che oggi, su tale questione, si può parlare di una specie di “rivoluzione statistica” (Antonella Picchio). Nel Rapporto sullo sviluppo umano del 1995, un materiale preparatorio della Conferenza di Pechino, l’area grafica del lavoro totale venne suddiviso in “pagato” e “non pagato”, di “donne” e di “uomini”. Se ne poteva desumere con una sola occhiata un dato estremamente significativo: il lavoro delle donne risulta pagato per 1/3 e non pagato per 3/3, distribuzione inversa a quella degli uomini. In un ottica di parità, le politiche potrebbero tendere a riequilibrare le aree settoriali fra uomini e donne. Ovviamente il trend va oggi in direzione opposta e, soprattutto, il problema reale è piuttosto quello di far emergere e far pesare politicamente l’intreccio fra lavoro pagato e lavoro non pagato, “per collocare l’intera questione del lavoro di riproduzione sociale non pagato, di donne e di uomini, all’interno della visione del sistema economico, esplicitando la relazione tra questo lavoro e gli altri elementi del sistema: forza lavoro, consumi, ricchezza sociale” (Antonella Picchio).

L’inserimento dell’altra metà delle attività lavorative umane nel quadro dei commerci e delle relazioni sociali, individuali e collettive, comporta la possibilità di costruire un nuovo modo di valutazione della ricchezza sociale e di contabilizzazione del prodotto interno lordo.

Il modello del Welfare State era incardinato su un’organizzazione sociale basata sul lavoro fordista taylorista a tempo pieno degli uomini e sulla disponibilità (coazione) delle donne a farsi carico dei compiti della riproduzione, soltanto in misura parziale e limitata garantita dall’intervento statale. Le donne, soprattutto in Italia ma non solo da noi, sono state da sempre la “gamba nascosta” di un Welfare costruito a misura di uomo adulto capofamiglia percettore di reddito. Ora che quel modello è arrivato al traguardo, sotto il peso delle sue incongruenze interne ma soprattutto per l’impatto durissimo dei processi della modernizzazione capitalistica, l’emersione delle complesse risorse sociali cui tali processi attingono, per dare luogo alle nuove forme di accumulazione, costituisce uno strumento indispensabile per attivare consapevolezza critica, soggettività politica, conflitto sociale. A partire dalla contrattazione rispetto al complesso della ricchezza sociale e dei diritti sociali che in forma inedita ne conseguono. L’idea del reddito di cittadinanza trae da questo contesto, così segnato dalla complessa e complessiva internità della donne alla produzione della ricchezza, la sua originaria ragion d’essere.