Reddito Sociale Minimo e disumanizzazione del lavoro
Sergio Garavini
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Rita Martufi e Luciano
Vasapollo presentano nel loro libro (Profit state, redistribuzione dell’accumulazione
e reddito sociale minimo, La città del sole) la tesi del reddito sociale
minimo con ampiezza di argomentazioni e documentazioni. Il problema che
presentano è senza dubbio reale. L’evoluzione del capitalismo, il processo
della globalizzazione in atto si traducono in una condizione sempre più
inaccettabile di parte decisiva della popolazione. La disoccupazione si somma e
si integra con una diminuzione dei redditi oltre le esigenze vitali nel mondo di
oggi e con la caduta di garanzie sociali essenziali, dalla sanità alla
previdenza. L’idea che si debba reagire a questa condizione è due volte
valida. In primo luogo sul piano politico e culturale. Gli elementi di
diseguaglianza e di ingiustizia che vengono a pesare più del passato devono
essere documentati e denunciati. Non si può subire una cultura che in nome dei
diritti individuali non fa che costituire cassa di risonanza dei crescenti
privilegi di una parte limitata della popolazione, mettendo in secondo piano il
disagio crescente della maggioranza. In secondo luogo bisogna che questa
denuncia si traduca nella indicazione di obiettivi sociali che contrastino il
crescere dell’ineguaglianza e l’impoverimento di parte decisiva della
popolazione.
Da questo punto di vista generale l’esigenza proposta con
la parola d’ordine del reddito sociale minimo deve essere sostenuta e
valorizzata, ma credo si possa discutere l’indicazione concreta nella quale
viene tradotta. L’obiettivo essenziale proposto è quello di un risarcimento
in termini di reddito sociale, monetario e di prestazioni sociali. Mi pare si
possa riflettere sul carattere di questa indicazione. Voglio essere inteso, nel
senso che non ho alcuna intenzione di fare il classico discorso del più uno.
Credo invece che si debba tenere conto che ogni aspetto della condizione sociale
va posto in relazione al modo come sono determinati i rapporti di lavoro e le
relazioni fra la domanda e l’offerta di lavoro. La prima esigenza per
contrastare e condizionare le disuguaglianze e le ingiustizie prodotte dall’evoluzione
capitalistica in atto è di proporre una rivendicazione che non sia soltanto di
carattere economico ma intervenga sui rapporti di forza e di potere fra imprese
e lavoratori. In proposito si può ricordare che la forza dei grandi movimenti
di lotta del ‘68 è stata proprio quella di proporre no solo e non tanto
esigenze economiche in senso stretto, quanto un mutamento dei rapporti di forza
e di potere nelle imprese.
Ma proprio tale questione presenta oggi una nuova
complessità che riguarda precisamente l’attuale struttura dei rapporti di
lavoro e delle relazioni fra domanda e offerta di lavoro. Quello che a me sembra
più impressionante e che siamo di fronte ad un nuovo processo di
disumanizzazione del lavoro che merita un’attenta e rinnovata analisi.
La disumanizzazione del lavoro è una caratteristica del
capitalismo, una qualità del processo produttivo nella rivoluzione industriale
analizzata in un’amplissima letteratura, che del tutto schematicamente può
essere indicata nella contrapposizione fra prodotto e produttore, nella vendita
da parte del lavoratore della sua capacità ad un’organizzazione del lavoro
determinata interamente da chi acquista ed utilizza la forza lavoro, nella
rigidità delle operazioni che sono comandate, nel carattere gerarchico di un’organizzazione
fondata sulla disciplina. Questo processo raggiunge il massimo nella fase del
fordismo e del taylorismo.
Le trasformazioni introdotte nel lavoro nella fase attuale
del capitalismo, nel contesto della globalizzazione, particolarmente con l’elettronica
e l’informatica, tendono a cambiare questa condizione del lavoro. La rigida
organizzazione collettiva in cui è disciplinata una massa di lavoratori viene
progressivamente smembrata ed articolata in fasi di lavoro ed in gruppi limitati
di lavoratori, fino al limite nel singolo individuo, con compiti specifici
individuati e coordinati come consente l’informatizzazione.
Questo cambiamento, il non identificarsi l’impresa
informatizzata, che opera nel mercato globale, nella rigida disciplina delle
masse di lavoratori ordinate dalla “organizzazione scientifica del lavoro”,
è potuto sembrare un superamento o almeno un alleggerimento della
disumanizzazione del lavoro propria delle fasi precedenti del processo
capitalistico. Ma non è così: siamo entrati in un’altra, diversa
disumanizzazione del lavoro. Il fatto risulta evidente guardando ai nuovi
processi per quello che sono complessivamente, fatti tecnici ed economici ma con
rilevantissime ed inevitabili implicazioni sociali, giuridiche e culturali, che
costituiscono parte decisiva degli attuali rapporti sociali ed istituzionali.
Dalla fine del secolo scorso ad oggi la disumanizzazione del
lavoro indotta dalla rivoluzione industriale fino al taylorismo è stata
combattuta e condizionata in misura tale che la protezione del lavoratore in
quanto persona e poiché cittadino, delle sue condizioni di vita e di lavoro,
della sua libertà e dignità, è divenuta un elemento sempre più importante
dei complessivi rapporti sociali ed istituzionali, nei contratti, nel welfare,
nella legislazione e nella giurisprudenza.
La stessa concezione della libertà ne è stata influenzata.
E’ parso necessario, in linea di principio e di fatto, che la debolezza in cui
si trova il lavoratore rispetto al sistema delle imprese debba essere compensata
da norme contrattuali e di legge che limitano l’arbitrio delle imprese per
sostenere la dignità e la libertà del lavoratore. Questa protezione si può
considerare un elemento costitutivo di una moderna società democratica,
estendendosi dai contratti fino ai principi costituzionali. Si tratta della più
profonda influenza che ha avuto il movimento operaio proiettando i
condizionamenti imposti alla disumanizzazione del lavoro nel rapporto fra i
lavoratori e le imprese e nel contesto generale delle relazioni sociali ed
istituzionali, quali principi costitutivi dell’eguaglianza democratica. E’
stato un processo che ha coinvolto profondamente la cultura, in particolare, ma
non solo, la cultura economica e giuridica.
Naturalmente questi sviluppi sociali e civili sono limitati,
non costituiscono di per sé un cambiamento del sistema, in particolare
rimanendo una disuguaglianza connaturata al sistema capitalistico in quanto
tale. Ma costituiscono un elemento di progresso sociale e civile compromesso
dalla nuova fase del processo capitalistico che interviene pesantemente nei
rapporti di lavoro e nelle modalità delle relazioni fra domanda ed offerta del
lavoro. Il cambiamento decisivo è costituito dal fatto che una parte crescente
di questa relazione non è più l’acquisto di una capacità di lavoro da
ricondurre in un contesto collettivo, regolato da norme contrattuali e sociali e
da principi giuridici di protezione del lavoro, o almeno lo è in misura minore
che nel passato. Guardiamo ad un limite estremo raggiunto da questo processo che
oggi è ancora limitato, ma tende a generalizzarsi: l’impresa che domanda
lavoro non si rivolge più ad un lavoratore, cioè a una persona, ma domanda
determinate prestazioni di lavoro, in una determinata quantità e per un certo
tempo, ad un’impresa che offre lavoro. Il lavoratore non è più una donna o
un uomo, una capacità di lavoro di quella persona, e nemmeno un cittadino: è
un’impresa che offre lavoro. Il rapporto non è più fra l’impresa ed il
lavoratore da questa dipendente, ma fra imprese. In questo senso in discussione
non è soltanto il posto di lavoro fisso, ma il posto di lavoro, la figura del
lavoratore che offre la sua capacità, come tale assunto secondo determinate
norme contrattuali, sociali e giuridiche.
Tale evoluzione è consentita dallo sviluppo dell’informatizzazione
e dalla globalizzazione, riguarda una parte soltanto, oggi, del mercato e dei
rapporti di lavoro. Tuttavia, prima ancora che questa novità sia generalizzata,
la sua introduzione, anche se parziale, viene impugnata per demolire i
condizionamenti della disumanizzazione del lavoro già ottenuti nel passato con
gli esiti sociali, giuridici e culturali, che prima sono stati richiamati. Però
la demolizione di quelli che fino a ieri sono stati considerati essenziali
diritti sociali ed istituzionali non corrisponde ad un effettivo superamento nei
rapporti economici e sociali dell’inferiorità e della debolezza dei
lavoratori, anche se essi appaiono come imprese. Le nuove tecnologie consentono
alle imprese di articolare la domanda di lavoro come precedentemente non era
pensabile, ma, anche se estremamente differenziata, questa domanda è l’espressione
di un potere imprenditoriale sempre più concentrato, sempre più lontano dal
momento in cui si definisce il rapporto completo fra offerta e domanda, sul
quale decide sempre più potendo astrarre dal contesto sociale ed umano in cui
questo si colloca.
Fra la libertà di scelta dell’impresa che domanda lavoro e
la costrizione e la precarietà dell’impresa che offre lavoro, identificata
nel singolo lavoratore, vi è una differenza abissale, come enorme è la
distanza in termini di potere economico fra lavoratore il singolo lavoratore
assunto in termini tradizionali e l’impresa che ha acquistato la sua
capacità. Ma tanti singoli lavoratori nella medesima condizione di dipendenza
nel tempo si sono associati per pretendere, e in parte ottenere, garanzie
contrattuali, diritti sociali, protezione giuridica. Questa volta, tuttavia,
poiché il rapporto è formalmente fra imprese, non vi sono normative
contrattuali, leggi e giurisprudenza sul lavoro che limitino l’arbitrio
imprenditoriale e sostengano i diritti materiali e morali dei lavoratori.
L’evoluzione del processo capitalistico ha fatto tornare
parte crescente dei rapporti di lavoro a relazioni fra individui, cioè ad una
disparità grande quanto la differenza di potere economico dei contraenti. Il
solo potere dell’impresa-lavoratore sta nella qualità e nella appetibilità
per la domanda delle prestazioni di lavoro che può vendere. Una minoranza di
lavoratori può forse ricevere vantaggi da questa condizione, ma è
realisticamente vero che una disuguaglianza così profonda getta una parte
crescente di lavoratori in una situazione di precarietà e di dipendenza dall’arbitrio
imprenditoriale, ancor più grave perché mascherata in una rapporto fra domanda
ed offerta di lavoro formalmente solo fra imprese. La teoria e la pratica della
flessibilità e della precarietà, quale fondamento del mercato del lavoro
moderno, sono il ponte verso questa liquidazione di ogni diritto dei lavoratori.
D’altra parte indietro non si torna, il precedente
armamentario di queste garanzie è strutturalmente compromesso nella nuova fase
del processo capitalistico. Una parte del movimento sindacale e della sinistra
dà un’interpretazione rovesciata della situazione, identificando nella
condizione del lavoratore-impresa una nuova cittadinanza, non un vuoto di
diritti, non un’ulteriore inferiorità rispetto ad un potere imprenditoriale
svincolato dalle norme protettive del lavoro conquistate in un secolo di lotte.
I diritti dei lavoratori si presenterebbero come diritti del cittadino.
Certo nelle relazioni regolate soltanto in ambito
istituzionale si può sostenere che il singolo individuo è posto alla pari di
ogni altro, anche se la collocazione sociale è diversa. Ma certamente non è
così nelle relazioni sociali, tanto che anche a livello istituzionale ci si è
dovuto porre il problema di questa disuguaglianza, del come salvaguardare i
diritti di libertà per la parte che si trova in condizioni socialmente
subalterne. Questione nuovamente attuale. Come pensare che abbiano gli stessi
diritti una grande impresa ed il lavoratore-impresa che vende la sua prestazione
di lavoro nella spietata concorrenza di un numero enorme di altri
lavoratori-imprese? Non si possono chiudere gli occhi davanti alla nuova realtà
sperando di tornare al passato su una linea solo difensiva e perdente, ma
nemmeno si può guardare questa realtà alla rovescia.
Il problema è come impostare un’azione che si riproponga
di affrontare nelle nuove condizioni il problema dei diritti dei lavoratori, dei
lavoratori-impresa che tuttavia sono persone, cittadini, come prima, più di
prima, parte debole della società. Il che impone una nuova problematica
contrattuale, giuridica e di cultura, sulla quale credo si imponga una
riflessione da parte di chi, come i promotori del reddito sociale minimo, ha una
visione così liberamente critica del sistema.