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Rita Martufi
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Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Dalla guerra economica USA - UE alla guerra guerreggiata

Rita Martufi

Questo articolo è stato già pubblicato nel Quaderno n.3 di CESTES

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La guerra della NATO contro la Jugoslavia rappresenta un punto di svolta tra il modello politico ed economico dell’imperialismo americano e quello del polo imperialista europeo. Quest’ultimo è ormai in forte competizione con quello USA sia per quanto riguarda l’imposizione del nuovo ordine mondiale, sia per la spartizione del mercato mondiale sia, infine per il controllo delle mire espansionistiche imperialiste del polo asiatico da parte ancora del Giappone o dell’eventuale costituendo asse russo-cinese-indiano.

Il sistema mondiale riproduce su scala ampliata la contraddizione centro-periferia, tenendo ancorati ad un luogo e ad una funzione determinanti per la propria produzione interna o per l’esportazione i diversi paesi che ne fanno parte. Questa tendenza configura una struttura mondiale che permette ai paesi sviluppati di giocare un ruolo dominante nel settore industriale, agricolo, finanziario, militare e tecnologico, che può essere accresciuto attraverso la lotta dei mercati del capitale soprattutto contro il Terzo Mondo.

Il dominio del centro sulla periferia si esprime nell’enorme disuguaglianza dei livelli relativi allo sviluppo e nella crescente difficoltà a raggiungere una crescita dinamica ed autonoma nei paesi del Terzo Mondo.

Siamo tutti coscienti che i paesi sottosviluppati “poveri” e soprattutto quelli a medio-basso sviluppo (come ad esempio quelli dell’area balcanica, dell’est europeo, per non parlare dell’asse russo-cinese-indiano) in molti casi hanno delle grandi potenzialità economiche nel loro territorio, sia in termini di risorse materiali sia di capitale umano nonostante ci siano delle grandi disuguaglianze economiche e sociali tra paese e paese. I paesi del terzo Mondo, per poter sopravvivere sono indebitati in una maniera incredibile con i paesi sviluppati, i quali così facendo sfruttano le risorse di queste terre tenendole sotto il loro controllo ed evitando così che diventino un domani concorrenti pericolosi; ad esempio quello che gli Stati Uniti hanno fatto al Messico con il NAFTA, oggi viene fatto con la Russia, con i paesi dell’area balcanica e dell’ex blocco socialista. Le guerre economiche sui mercati del cambio, gli attacchi speculativi sui mercati finanziari, l’uso delle crisi geopolitiche di area, e quelle nei Balcani sono sistematiche e sintomatiche, rappresentano momenti di guerra economica e politica di una violenta competizione fra USA e UE.

In mancanza di una rottura radicale con la struttura della dipendenza i paesi a medio sviluppo (e in Europa quelli dell’area balcanica e dell’ex blocco socialista nel sono un esempio eclatante) e del Terzo Mondo si vedono condizionati a sviluppare la loro industria e la loro produzione agricola in modo tale che i paesi portatori dei diversi progetti imperialisti ne beneficino. Hong Kong, Singapore, Taiwan e altri paesi asiatici hanno convertito i processi di trasformazione. Il loro sviluppo è ormai direttamente sottomesso dalle esigenze del mercato europeo e statunitense. E’ la domanda esterna dei due grandi poli imperialisti che modella l’ampiezza e l’orientamento del processo di accumulazione del capitale asiatico funzionale al paradigma dell’accumulazione flessibile occidentale. L’America Centrale e Meridionale, l’Africa Sub-Sahariana, il Sud Asia e l’Indocina hanno debole apparato statale e produttivo, non essendo ancora capaci di dare l’impulso ad un processo di industrializzazione autonomo e quindi funzionale a veri a propri processi di colonizzazione da parte dei due poli imperialisti USA e UE. Vi sono in queste aree anche dei paesi che dagli anni ’70 hanno sperimentato una crescita economica nell’industria sotto l’azione combinata del capitale straniero e di quello controllato dalla borghesia interna, dove ha un ruolo dominante il capitale imperialista che ha cercato di modificare i termini di dipendenza e dare un nuovo impulso all’industrializzazione per la costruzione della dipendenza da importazioni, mantenendo una struttura di distribuzione dei salari che non deve consentire una crescita verso la sussistenza. Infine nei paesi esportatori di petrolio con importanti risorse finanziarie (Arabia Saudita, Venezuela, ecc.) o nei paesi con grande abbondanza di risorse naturali e con congiunture economiche molto favorite dall’occidente, il mercato interno si espande in modo significativo, dando un impulso ad una industria del tutto dipendente dal capitale imperialista (ad es. Colombia, Cile, Nigeria, Indonesia, ecc.). La crescita economica di alcuni di questi paesi è dovuta al processo di accumulazione e di trasformazione tecnologica che ha creato un nuovo e solido modello di dipendenza finanziaria e tecnologica dai due grandi poli imperialisti; la riproduzione su vasta scala del moderno apparato industriale, agroindustriale e agricolo è basato sull’importazione di macchinari, attrezzature e fabbricazioni. L’alto livello di importazioni inerente a questo modello di crescita e la mancanza di dinamismo del settore delle esportazioni, la relazione di scambio diseguale, gli utili rimessi alle imprese straniere sono alcuni degli elementi che originano nei vari decenni uno squilibrio macroeconomico e una tendenza continua al deficit della bilancia commerciale, colmato con sempre più frequenti ricorsi ad un indebitamento con l’estero e ad uno stimolo dell’impiego di capitali stranieri quale via per ottenere l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. La politica economica determina sempre più scelte monetariste e neoliberiste, lasciando intatte le cause profonde che originano gli squilibri della struttura produttiva approfondendo il deficit commerciale. Seguendo le indicazioni della Banca mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, numerosi governi continuano ad applicare politiche di “congiuntura strutturale” e di apertura commerciale accelerata, con privatizzazione delle imprese statali e la deregulation economica, immettendo politiche antiflazionistiche che hanno come prime ripercussioni l’abbassamento dei salari reali, l’aumento della disoccupazione, la deindustrializzazione senza investimenti reali e produttivi finanziati da capitale interno e quindi l’ampliamento della dipendenza dall’imperialismo. Con l’aumento del debito estero e dell’impiego di capitale straniero, cresce la profittabilità di questo e la distribuzione all’estero degli utili, rafforzando il disequilibrio nel settore delle esportazioni. Il rifinanziamento del debito accumulato provoca l’aumento di capitale straniero per nuovi acquisti di capitale che aiutino ad arrestare la decapitalizzazione e che permettano di continuare a finanziare uno sviluppo comunque dipendente, anche se apparentemente incrementa il settore delle esportazioni, avendo l’illusione di ottenere un utile duraturo. Ma per mantenere i livelli di profittabilità si incentiva l’impiego di capitale straniero e la dipendenza delle attrezzature e strutture, si sfruttano i lavoratori, si riducono gli investimenti pubblici e si applicano politiche restrittive; cadendo così in un circolo vizioso di dipendenza finanziaria e tecnologica che aumenta il debito con l’estero. In questo ambito assumono rilevanza fondamentale la funzione svolta dagli USA e dagli organismi internazionali a carattere finanziario. Infatti i crediti concessi ai paesi in via di sviluppo hanno creato il meccanismo di trasferimento di ricchezza su vasta scala del periodo contemporaneo. Il riciclaggio dei “petroldollari” ha fatto crescere questo eccessivo debito dei paesi del Terzo mondo. La formazione dei mercati obbligazionari, la trasformazione in titoli del debito pubblico e la crescita sempre più rapida di quella parte del budget dei paesi dell’Ocse che si pone al servizio del debito, stanno a dimostrare che il meccanismo di captazione e di trasferimento più importante è sempre quello di una globalizzazione a vantaggio del grande capitale finanziario.

La “globalizzazione dell’economia” è voluta dal libero gioco delle leggi del mercato, ma bisogna valutare questo gioco di mercati in tutta la sua pienezza, mettendo l’accento principalmente sulla globalizzazione della concorrenza, sull’effetto supposto dell’apertura delle frontiere per la crescita degli scambi di beni e servizi e sulle virtù dei flussi internazionali di capitali a breve termine. Tutto ciò non è a vantaggio del consumatore, apparentemente libero di acquistare i prodotti ai prezzi più bassi, grazie all’apertura dei mercati, allo smantellamento delle regolamentazioni pubbliche e al totale regime di concorrenza tra le imprese. In base a queste considerazioni sommarie “ poco importa se il numero dei consumatori aventi potere di acquisto diminuisce parallelamente all’aumentare della disoccupazione!” Il contenuto effettivo della globalizzazione è dato, non dalla mondializzazione degli scambi, ma da quella delle operazioni del capitale, tanto sotto la forma industriale che finanziaria.

All’origine della crescita della sfera finanziaria esistono dei flussi verso questo settore di frazioni di ricchezza che sono nate all’interno della produzione e che, prima di essere travasati dallo Stato attraverso la via delle imposte e trasferiti verso la sfera finanziaria a titolo di pagamento degli interessi e di rimborso di una frazione del debito pubblico, avevano assunto la forma di salari e di stipendi, o di redditi contadini e artigiani. Questi flussi sono all’origine dei meccanismi di accumulazione perversi in cui la caccia alle economie nazionali sono finalizzate al dominio del capitale finanziario e sono parte del rapporto di competizione internazionale tra poli imperialisti, mediati da compromessi all’interno delle organizzazioni sovranazionali del capitale finanziario (G8, BMI, FMI, OCSE, BEI, BRI, ONU) ed in quest’ambito deve, o almeno dovrebbe, giocare il suo ruolo l’UE e quindi l’Euro con una funzione, inizialmente utile anche agli USA, di disgregazione verso tutta l’Europa dell’Est.

L’impatto dell’Euro sulle relazioni internazionali può avere effetti dirompenti rispetto agli assetti e agli equilibri internazionali attuali, nonostante le ambiguità e i limiti più a carattere interno all’UE.

Il Trattato di Maastricht presentava in sé già molte ambiguità. Tanto per cominciare, la struttura di Maastricht si doveva basare su tre elementi: la moneta unica, la politica estera e di sicurezza comune, la lotta alla criminalità. Moneta unica e integrazione politica dovevano reggersi reciprocamente. Cosa succede invece?

L’Euro appare come un tentativo di dare all’Europa una sola moneta, una nuova moneta forte nelle transazioni internazionali di riferimento fondamentale per l’est europeo e per l’Africa mediterranea; mentre di fatto si presenta come un progetto ambiguo che caratterizza un’élite di “eurovirtuosi” e manda alla deriva tutti gli altri, anche paesi importanti all’interno dell’UE. E’ implicito nello stesso trattato di Maastricht la legittimità del principio dell’Europa a diverse velocità, tale principio indica che nella comunità, formalmente di eguali c’è chi è più eguale degli altri; sotto questo profilo Maastricht non è la continuazione dell’Europa del trattato di Roma ma è l’esplicitazione contraddittoria del polo imperialistico europeo.

Il vincolo dei criteri di convergenza imposto a Maastricht ha un significato geopolitico e geoeconomico: divide gli stabili e affidabili paesi dell’area del marco dai paesi mediterranei, creando problemi alle stesse multinazionali europee.

Il cuore del Trattato sull’Unione europea, varato a Maastricht l’11 dicembre 1991, firmato ufficialmente il 7 febbraio 1992 e vigente dal 1° novembre 1993, è la moneta unica, inaugurata il 1° gennaio 1999. Dopo l’Atto unico del dicembre 1985, con il quale venivano poste premesse della libera circolazione di persone, merci e capitali nello spazio comunitario, l’unificazione della moneta è considerata dai suoi ideatori come la premessa indispensabile di una più profonda integrazione europea, e ciò è finalizzato alla creazione del più grande mercato finanziario del mondo.

Con questo evento si impone fittiziamente una confederazione le cui finalità di controllo travalicano l’Europa occidentale per imporre il dominio sui paesi dell’Est (ex satelliti di Mosca), superando così in una logica di polo imperiale gli aspetti ambigui e le incongruenze derivanti da una non voluta soluzione dei mali sociali dell’Europa occidentale a vantaggio di tutti i nuovi soggetti finanziari europei, investitori istituzionali e non.

Per ora sembra solo che la preoccupazione maggiore dei governi sia stata quella di scegliersi l’alleato ideale nella lotta alla supremazia economica e politica, in contrapposizione più o meno marcata rispetto al polo imperialista statunitense, imponendo una maggiore centralità del mercato UE non solo per le multinazionali europee ma anche per quelle esterne.

Cominciamo a vedere il contesto attuativo dell’Unione Europea.

A dar luogo all’Europa è l’economia finanziaria globalizzata in cui sarà la moneta e i movimenti dei soli capitali a scandire il fenomeno imperialista europeo, in un contesto di apparente globalizzazione totale in cui invece ogni polo imperialista si erge a fortezza internazionalizzata in cui i mercati interni o di area di influenza devono rimanere assolutamente prioritari e prevalenti.

Risulta sempre più evidente che il Trattato di Maastricht e quello di Amsterdam hanno carattere geopolitico soprattutto per quanto riguarda la Germania nel contesto Unione europea.

L’Europa, infatti, dà via libera alla Germania per la riunificazione in tempi rapidi, ottenendo come contropartita l’europeizzazione del marco. Dunque è un riflesso germanofobo a muovere i leader europei poiché si presume che la Germania unita con i suoi oltre 85 milioni di abitanti, la forza della sua economia e della sua moneta, rischi di sbilanciare la polarizzazione imperialista; infatti gli Stati Uniti riconoscono alla nuova Germania lo status di super potenza ed esprimono la necessità di contenerla.

La Germania ha bisogno dell’Europa per difendere i suoi interessi internazionali più della Francia e dell’Italia, e allo stesso tempo mantiene il proprio nazionalismo economico, ma Maastricht costringe la Germania a cedere il marco, per limitarne la potenza e incardinarla in un’Europa alternativa agli interessi USA.

C’è da tener presente che gli obiettivi originari della Germania rispetto a quelli di Francia e Italia erano opposti. A Francia e Italia interessava togliere il marco ai tedeschi, mentre ai tedeschi interessava germanizzare le politiche economiche e finanziarie dei partner, adeguarle ai criteri di stabilità su cui hanno costruito il “miracolo” del secondo dopoguerra. Inoltre, attraverso una calibrata manovra dei tassi di interesse gestita dalla Bundesbank, intendevano garantirsi un forte flusso di capitali europei verso la Germania, necessari a riempire la voragine dell’ex RDT. Nella Germania prevale un’impreparazione ad affrontare le responsabilità interne e internazionali che le derivano dal suo nuovo status e dalla scomparsa della supremazia sovietica, che le ha aperto uno sterminato campo di influenza, ma anche di problemi e di responsabilità.

A prescindere dai conflitti di interessi l’Europa dell’Euro è una scelta nell’ambito della logica spartitoria imperialista diretta dai principi della globalizzazione finanziaria.

Ed è proprio per questo che nonostante le apparenze si tratta di un’ideologia molto fungibile e ancora carica di indeterminatezza sulle aree di influenza da aggredire. La teoria dell’Europa unita è ancora troppo debole nei confronti del polo USA per poter servire progetti differenti, se non opposti: dallo stretto dominio sociale a carattere finanziario ed economico all’interno degli attuali confini statali e comunitari, fino allo stravolgimento della carta geopolitica mondiale mascherato da criteri “etnici” o socio-economici ma determinato, nella realtà, anche nel Terzo Mondo, da logiche di polarizzazione imperialista.

Comunque la mondializzazione del capitale e l’intento del capitale finanziario di dominare il movimento di capitale nella sua totalità, non cancellano l’esistenza degli stati nazionali, bensì tali processi accentuano i fattori di gerachizzazione tra i paesi e ne ridimensionano la configurazione accentuando i conflitti imperialistici per il controllo su quelle aree a maggiore interesse di spartizione geopolitica e geoeconomica.

I paesi in via di sviluppo, in particolare dell’Africa e dell’Asia centrale ricca di risorse petrolifere e di gas devono affrontare questi problemi sotto il ricatto di una guerra economica, e non solo, fra USA e UE, o alcuni suoi paesi, che impongono gravi costrizioni dovute al peso schiacciante del debito contratto con i paesi ricchi, ai quali si devono pagare in interessi più di quello che si è ricevuto in prestiti, donazioni, investimenti; e il pagamento di un debito così cospicuo li costringe a saccheggiare le foreste, svendere le materie prime, sfruttare la pesca, destinare enormi fette del proprio territorio all’allevamento degli animali, sottostare ad accordi noeliberalisti e a privatizzazioni e a standard ambientali minimi, tali da attirare gli investitori stranieri.

La liberalizzazione degli scambi insieme alla deregolamentazione e allo smantellamento della legislazione a tutela dei salari, ha permesso ai gruppi delle multinazionali, in particolare americane, di sfruttare simultaneamente i vantaggi della libera circolazione delle merci e delle forti disparità tra i paesi, le regioni o i luoghi situati anche all’interno della stesso mercato unico europeo. Il grande mercato continentale assicura contemporaneamente ai gruppi economico-finanziari delle multinazionali totale libertà di scelta dei differenti elementi costitutivi di una produzione integrata a livello internazionale, rispondendo anche alle esigenze delle strategie di differenziazione dell’offerta e della fedeltà della clientela, esigenze che sono proprie alla concorrenza oligopolistica.

La generalizzazione della produzione flessibile, con quelle che sono le sue esigenze nei termini di vicinanza tra coloro che fanno le ordinazioni e i fornitori di pezzi, di semiprodotti e di servizi, ha lo stesso peso sulla scelta della localizzazione a scapito dei paesi a medio sviluppo, in particolare di quelle industrie dei Balcani e dell’Est Europeo in cui il basso costo del lavoro si associa a livelli medio-alti di specializzazione della manodopera, ivi comprese certe industrie a impiego intensivo di manodopera.

Questi stessi fattori spiegano la marginalizzazione non solo di gran parte dei paesi in via di sviluppo ma dei paesi soprattutto dell’Europa centro-orientale, poi dell’Africa mediterranea. Le opportunità di delocalizzazione della produzione in direzione dei paesi a salario molto basso, rese possibili dalla liberalizzazione degli scambi pressoché completa, si tramutano per molti paesi dell’Europa dell’Est o anche parti di interi continenti (essenzialmente l’Africa) soltanto in assoluto movimento di mondializzazione del capitale, provocando un nuovo colonialismo nella forma di marginalizzazione anche degli stessi processi finanziari.

Tutti i fenomeni connessi alla mondializzazione finanziaria sono perni del progetto dell’Unione Europea così come si sta costruendo e così come è la situazione economica e sociale a livello mondiale fa crescere il dissenso statunitense all’UE. Si è ormai presa coscienza specialmente da parte degli USA e della Gran Bretagna, che è tempo di vedere un’Europa sempre più in crisi, poiché tale grande mercato può offrire prospettive di sviluppo neoliberiste in alternativa al polo imperialista anglosassone che nelle aree dell’Europa centro-orientale, dell’Africa mediterranea e di molti paesi dell’Asia centrale avrà sempre meno voce in capitolo.

L’Euro è inscritto in una logica mercantilistica, poiché mira a creare un blocco regionale europeo in grado di competere con Stati Uniti, Giappone e Asia anche se apparentemente la globalizzazione invece significa apertura dei mercati e delle frontiere. Basta guardare, ad esempio, al vertice di Rio, conclusosi dopo la guerra NATO alla Jugoslavia, in cui l’UE ha posto le basi per la creazione di un’area transatlantica di libero scambio con l’America Latina, in assenza degli USA anzi in aperto contrasto con il traguardo con l’Alca, il concorrente interamericano.

Il vertice di Rio ha avuto il dichiarato scopo di contrastare a livello economico internazionale l’egemonia dell’imperialismo statunitense nell’area dell’America Latina in un’area in cui l’export USA è tre volte maggiore di quello UE (per non parlare dei movimenti di capitale), ma dove tale supremazia non è più incontrastata né sul piano commerciale né su quello degli investimenti. Si pensi che nel ‘90 gli IDE (investimenti diretti esteri) verso l’America Latina degli USA erano di 3 miliardi di dollari contro 1,5 dell’Europa; nel 1995 erano 15 miliardi di dollari degli USA contro i 5 europei, nel 1997 di 24 miliardi USA contro 19 e l’Unctad prevede per il 1999 nell’area latino americana il sorpasso degli IDE europei rispetto a quelli statunitensi. Le esportazioni europee verso l’America Latina in pochi anni sono più che raddoppiate; nel 1997 hanno toccato quasi i 53 miliardi di dollari e le importazioni da quell’area hanno superato i 38 miliardi di dollari.

Questi sono solo alcuni risultati della guerra di egemonia economica che si fa sempre più frontale in tutte le aree del pianeta fra il polo imperialista USA e quello dell’UE. E lo scontro diventerà ancora più duro e favorevole all’UE se l’Euro avrà il tempo e l’opportunità di rafforzarsi.

La sorte dell’Euro è fortemente condizionata dal contesto esterno, che siano i mercati finanziari nel mondo o la politica monetaria degli Stati Uniti. L’ipotesi Euro continua a prendere consistenza e profilarsi come strumento di guerra commerciale, pertanto gli Usa stanno facendo il possibile per soffocarla. Per gli americani la migliore Europa possibile deve essere sufficientemente unita ma sotto il dominio USA e, quindi, agiscono per renderla sufficientemente divisa per impedirne l’affermazione come superpotenza concorrente. Gli Usa, dunque, temono oggi più di ieri una moneta destinata a favorire nel tempo le esportazioni europee e nel tempo, a minacciare il rango del biglietto verde come valuta di riserva mondiale. La subordinazione UE agli USA è chiara anche durante e dopo la guerra NATO in Jugoslavia, basta vedere come l’Euro perde sul dollaro (circa il 12%) e come la guerra incide in modo decisamente negativo sull’economia dell’Europa dei 15, mentre la crescita in USA nel periodo bellico è del 4,5% seguendo un forte andamento di crescita già avuto negli ultimi mesi del 1998 in cui l’economia americana si preparava ai nuovi conflitti in Iraq e in Jugoslavia.

E’ con tali premesse che gli USA passano nei confronti dell’UE dalla guerra economica anche alla guerra guerreggiata, vedi la guerra in Jugoslavia, sfruttando il fatto che in Europa va avanti la centralizzazione economica ma manca del tutto quella politica, e quindi, militare, contando su questi temi anche sul ruolo di “guastatore europeo” della Gran Bretagna.

La guerra in Jugoslavia, con le sue premesse e i suoi esiti, attraverso l’affermazione dell’egemonia militare americana segna la fine del sogno della diversità europea rispetto agli USA. L’Europa non può diventare un polo di sviluppo a connotati economici e sociali che si riferiscono al modello renano-nipponico. Lo svolgersi, anche diplomatico, e gli esiti della guerra impongono il modello unico neoliberista, con un capitalismo sempre più accanito, selvaggio e guerrafondaio sia nelle relazioni politiche, economiche verso i paesi più poveri, sia verso quelli a medio livello di sviluppo, sia nelle politiche economiche interne dei diversi paesi europei. Ciò però significa nel contempo l’acutizzarsi dello scontro egemonico fra i due grandi poli imperialisti. Trionfa, almeno momentaneamente, il modello imperialista americano che ora è maggiormente in grado di unificare il tipo di politica imperialista al modello di capitalismo anglosassone, ma ciò non significa certo rottura della politica multipolare imperialista come atti continui di guerra economica che assumeranno sempre più la forma di guerra guerreggiata per l’affermazione delle gerarchie.