Indagine statistico-aziendale sulle privatizzazioni nel modello capitalistico italiano. La via al Profit State europeo
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Per un’analisi storica ed un approccio critico alle scelte politico-economiche neoliberiste dei processi di privatizzazione
(SECONDA PARTE). |
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Infatti, pur considerando l’Italia, in confronto ad altri partner
europei, come un paese che si appresta a muovere i primi passi nella pericolosa
e dannosa direzione del Profit State europeo che impone le privatizzazioni
come direttrice fondamentale dello sviluppo, va sottolineato il fatto che dal
1993 (anno in cui ha avuto inizio il processo di privatizzazione del Credito
Italiano) al 1996 (cfr. Graf.1), si sono avute dismissioni che hanno
portato allo Stato una cifra pari ad oltre 65.000 miliardi di lire e sono state
realizzate ulteriori decine di migliaia di miliardi fino ad oggi e la vera accelerazione
è prevista a partire dal 1999.

Come si vede dal Graf.1 nel periodo considerato l’Italia
si è posta alla guida del modello neoliberista europeo fondato sulla dimensione
e sulla cultura del privato sempre e comunque.
Nel 1997 è proseguita l’attività di dismissione delle partecipazioni
in società controllate in via diretta o indirettamente dal Ministero del Tesoro.
Dal 1994 al 30 giugno 1997 i proventi da privatizzazione hanno alimentato il
fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato [1] con
somme derivanti da dismissioni patrimoniali per 23.500 miliardi di lire, su
un totale di introiti di oltre 31.000 miliardi di lire circa; infatti solo nei
primi mesi del ‘97 sono stati anche trasferiti al fondo 8.500 miliardi di lire
frutto della dismissione della partecipazione del Tesoro nell’ENI, avvenuta
a dicembre 1996. Oltre alle operazioni relative alle società direttamente controllate
dal Tesoro (pacchetto ENI, pacchetto Banco di Napoli, pacchetto azionario Istituto
Bancario San Paolo di Torino) bisogna anche considerare le operazioni realizzate
dal gruppo IRI che dal luglio 1992 al 31 dicembre 1996 ha realizzato per cessioni
circa 21.000 miliardi di lire di cui oltre la metà da operazioni realizzate
in forma diretta dall’IRI s.p.a.. Si raggiungono 24.500 miliardi di lire se
all’ammontare precedente si aggiunge il valore dei debiti finanziari trasferiti
superiori ai 3.500 miliardi di lire. Vanno infine considerate le operazioni
realizzate dal gruppo ENI che dal luglio’92 a fine ‘96 ammontano a circa 6.000
miliardi di lire e il valore dei debiti finanziari trasferiti è di circa 2.500
miliardi di lire con un effetto finanziario complessivo di circa 8.500 miliardi
di lire.
Per quanto riguarda il 1997 si ricorda che nel primo semestre
l’IRI s.p.a. e le società direttamente controllate dall’IRI hanno realizzato
operazioni per un valore complessivo di circa 975 miliardi di lire (non sono
compresi gli importi derivanti dal trasferimento al Ministero del Tesoro della
partecipazione IRI nella STET), che includono il deconsolidamento di debiti
per quasi 16 miliardi di lire verso il sistema bancario. Anche nel secondo semestre
del 1997 il gruppo IRI ha effettuato operazioni che hanno realizzato movimenti
di risorse per un valore di circa 40.465 miliardi di lire ( compreso il deconsolidamento
di debiti verso il sistema bancario di circa 14.104 miliardi di lire).
Nel febbraio 1998, in una relazione fatta in Parlamento, il
Ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, ha elencato i principali compiti delle
privatizzazioni nel nostro Paese ed in specifico :1) permettere una dismissione
selettiva del patrimonio statale i cui ricavi influenzano il contenimento del
debito pubblico; 2) distogliere lo Stato da quei settori nei quali non è più
comprensibile un suo ruolo da imprenditore; 3) contribuire al rafforzamento
dei mercati finanziari.
“Risanare sotto ogni profilo l’industria pubblica, creare un
mercato dei capitali, ristabilire una linea di demarcazione tra la proprietà
pubblica e privata; al tempo stesso diminuire la crescita del debito pubblico.
Questi obiettivi sono stati raggiunti con un’impostazione di politica economica
di cui le privatizzazioni sono componente essenziale... I miglioramenti intervenuti
dipendono dall’aver assoggettato alla disciplina del Codice Civile l’industria
di Stato... Tutto questo ha premiato le decisioni che il Tesoro, di volta in
volta, ha preso al fine di valorizzare le società prima della loro vendita.
E’ il caso dell’ENI, per il quale si è seguita la linea di concentrare l’attività
industriale sulle <attività chiave> e di dismettere le attività non strategiche...
Si, il Tesoro vuole valorizzare prima di vendere... In conclusione, la valorizzazione
non è in contraddizione con la privatizzazione. Anzi, lo ripeto, ne è una doverosa
fase preparatoria... In conclusione, un lungo e fruttuoso cammino che intendiamo
continuare...”. [2]
L’ottimismo e la soddisfazione di Ciampi ci fanno riflettere.
Perché è giusto valorizzare le imprese pubbliche per poi venderle? Non sarebbe
meglio a fini di un’ottimizzazione in senso sociale del beneficio da servizio,
valorizzarle, accrescerne la funzionalità per consentire a tutti i cittadini
di goderne gli effetti? Non si tratta invece di un’ottimismo derivante dall’essere
riusciti ad imporre nel nostro Paese il superamento del modello di economia
mista per approdare alla cultura e alle dinamiche economiche del Profit State?
La necessità di intervenire in settori economici nei quali
l’iniziativa privata era in difficoltà ha portato in Italia alla nascita delle
partecipazioni statali, e ci sembra che questo sistema abbia dato in passato
notevoli risultati positivi, nonostante le sue contraddizioni e i meccanismi
e i legami a volte perversi fra mondo partitico e gestione economica. Basti
ricordare, ad esempio, l’impulso dato allo sviluppo economico italiano negli
anni dal dopoguerra agli inizi degli anni ‘70, anche se ciò ha spesso provocato
squilibri settoriali e territoriali oltre a quelli economico-redistributivi.
E’ importante ricordare che gli obiettivi di un’impresa pubblica
devono essere in grado di:
1. giustificare la presenza pubblica nei settori della difesa
o strategici per la sopravvivenza dell’economia nazionale;
2. promuovere il sostegno delle imprese nascenti, sprovviste
delle necessarie competenze tecniche ed economiche (economie di scala);
3. favorire il sostegno di imprese presenti nei settori caratterizzati
da redditività di lungo periodo e da investimenti altamente rischiosi (settori
fortemente disincentivanti per investimenti di natura privata);
4. permettere il perseguimento di politiche strutturali dell’occupazione;
5. favorire la costituzione - attraverso la creazione di
imprese pubbliche - di esternalità per il sistema economico;
6. eliminare alcune distorsioni, derivanti dal grado di monopolio
(imperfezioni informative), attraverso la presenza pubblica nel settore bancario,
energetico e assicurativo.
E’ proprio la presenza di questi obiettivi che, caratterizzando
fortemente la natura “pubblica” di un’impresa, ne giustifica l’esistenza. Obiettivi
questi, che richiedono quindi una valutazione critica, in particolar modo proprio
quando si procede alla ridefinizione del confine Stato-mercato nella realizzazione
di un programma di privatizzazione. Vi è un secondo ordine di problematiche......Si
tratta dell’esistenza di una serie di diritti da considerarsi alla base dei
rapporti tra gli Stati e i cittadini i quali corrispondono ad attività che non
possono essere rimesse per intero all’iniziativa privata. Intendiamo parlare
dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria di base, di alcuni tipi di interventi
previdenziali e assistenziali e di altri settori nei quali è da considerarsi
irrinunciabile un intervento pubblico prevalente a garanzia di diritti da considerare
indisponibili”. [3]
Ci sembra giusto ricordare che l’articolo 42 della nostra Costituzione
prevede due forme di proprietà: quella pubblica e quella privata ed è previsto
che quest’ultima sia espropriata per motivi di pubblico interesse. Non è menzionato
in alcun articolo della nostra Costituzione il fatto che sia la proprietà pubblica
ad essere abolita, magari per motivi legati all’adeguamento alle politiche di
globalizzazione finanziaria di un Profit State che si vuole come unico modello
di sviluppo economico ed umano-culturale in Europa e nel mondo intero!
2. Gli altri “casi studio”
Di seguito, proseguendo la disamina cominciata nel precedente
numero di PROTEO, si analizzeranno dei casi-studio ritenuti tra i più interessanti
e di importanza fondamentale nella scena politica ed economica del nostro Paese.
Il fine è come sempre quello di rendere più chiara e semplice la lettura di
processi che stanno sconvolgendo il nostro sistema economico e politico e che
avranno ripercussioni non solo sull’immediato futuro della nostra economia ma
anche e soprattutto nel modo di essere, di vivere, di rapportarsi socialmente
della gente comune, in un Paese che anche grazie a retroterra culturali diversi
(si pensi ad esempio alle tradizioni della cultura cristiano-cattolica e di
quella di uno dei più importanti movimenti comunisti e della classe dei lavoratori)
ha sempre privilegiato l’assetto pubblico dell’economia rispetto agli altri
paesi a capitalismo avanzato.
Si inizia questa disamina a partire da tre importanti aziende
(ACEA, Centrale del Latte di Roma e Aereoporti di Roma) a carattere locale che
operano soprattutto sull’area romana, ma sicuramente a rilevanza strategica
non solo per l’economia locale, e comunque capaci di rappresentare una tendenza
anche per altre specifiche entità territoriali dove si vuole rappresentare l’impostazione
anche geograficamente diffusa del modello neoliberista del Profit State.
ACEA
L’Acea è un’azienda legata alla evoluzione politica, sociale
ed urbanistica della città di Roma. Va ricordato che nel 1900 l’illuminazione
della città era garantita da quattro sistemi diversi: il gas, l’elettricità,
il petrolio e l’acetilene. Il 20 Settembre 1909, a seguito di un referendum,
fu decisa la costituzione un’azienda elettrica municipalizzata ed il 20 Luglio
del 1912 c’è stata la prima seduta dell’amministrazione dell’Azienda Elettrica
Municipalizzata (A.E.M., attraverso la centrale Montemartini). Negli anni seguenti
l’azienda si è consolidata e nel 1926 si è consorziata con la SAR; nel 1934
è stata attribuita all’azienda anche la competenza dell’approvvigionamento idrico
(dopo il conflitto avuto con la Società Acqua Marcia) e nel 1937 l’AEM si è
trasformata in AGEA (Azienda Governativa Elettricità ed Acque). Dopo il secondo
conflitto mondiale si è avuto il cambiamento di nome da AGEA in ACEA e nel 1959
si è avuta l’autosufficienza nella produzione di energia.
La nazionalizzazione degli impianti delle società elettriche
private non ha interessato l’ACEA, in quanto da questa operazione erano escluse
le aziende municipalizzate. Dal 1984 l’ACEA si è occupata del teleriscaldamento
e nel 1985 anche della depurazione delle acque; inoltre nel 1995 è stata affidata
all’azienda la gestione degli impianti di semafori cittadini.
Va ricordato poi che l’ACEA controlla diverse società tra le
quali la SMT S.p.A, la ECOMED s.r.l., la TESIMA s.p.a., la SOGEIN s.p.a. ed
ha partecipazioni nelle Assicurazioni di Roma e nel Consorzio Pro Acque.
Nel 1992 l’ACEA per effetto della legge 142/90 è divenuta azienda
speciale,ossia un soggetto autonomo di diritto, che come un normale imprenditore
deve osservare le norme del Codice Civile ed ha l’obbligo del pareggio di bilancio.
Il 1 Gennaio 1998 l’ACEA è divenuta s.p.a.; attualmente il
Comune di Roma possiede il 95% delle azioni ed il rimanente 5% è dell’AMA; è
però deciso il collocamento sul mercato del 49% delle azioni.
Prima della trasformazione dell’ACEA in s.p.a la struttura
organizzativa comprendeva oltre alla Direzione Generale una Divisione Energia,
una Divisione Ambiente e una Divisione Servizi. Dal Gennaio 1998 nella nuova
struttura organizzativa assume un ruolo predominante l’Amministratore Delegato
dal quale dipendono : il Direttore Generale Operativo, la Divisione Servizi,
la Direzione Finanza e Sviluppo, la Direzione Amministrazione e Controllo, la
Direzione Legale -Societario e Affari Generali, la Direzione Personale e Organizzazione,
l’Unità Qualità ed Internal Audit e l’Unità Marketing.
Se si analizza la consistenza numerica del personale (cfr.
Riquadro 1 e Graf.2) si nota che mentre si ha un trend crescente
negli anni 1988-1992 (con un solo valore negativo nel 1991), si ha un andamento
decrescente dal 1993 in poi (con un valore positivo solo per l’anno 1996).
E’ estremamente interessante notare nel periodo di “preparazione
forzata” alla privatizzazione l’andamento delle assunzioni e delle cessazioni
di rapporto di lavoro (spesso in qualche modo incentivate) (Graf.3) e
delle modalità tipologiche nella ripartizione per ruolo del personale dipendente
(vedi Riquadro 2 e Graf.4.).



E’ importante ricordare che il 15 Giugno 1997 i cittadini romani
sono stati chiamati ad esprimere il loro parere sulla privatizzazione di questa
azienda. Nell’agosto del 1996, infatti in opposizione alla scelta di privatizzazione
della Centrale del Latte di Roma e dell’ACEA, è stata avviata una raccolta di
firme per promuovere un Referendum popolare.
[1] Tale fondo è stato istituito ai
sensi dell’art.2 della legge 27 ottobre 1993, n.432. Le somme accreditate in
tale fondo possono essere impiegate per riacquistare titoli di Stato sul mercato
o per rimborsare titoli in scadenza e per poter riconoscere all’IRI il corrispettivo
per l’acquisizione da parte del Tesoro delle azioni detenute nella STET.
[2] Cfr C.A.Ciampi , Ministro del Tesoro, del Bilancio e della
Programmazione economica, nel IL Sole 24 ORE, del 7 Agosto 1998 pagg.1 e 2.
[3] Cfr. “Le politiche di privatizzazione” a cura del Centro per
la Riforma dello Stato, Marzo 1995,p.4-5.