Indagine statistico-aziendale sulle privatizzazioni nel modello capitalistico italiano. La via al Profit State europeo
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Per un’analisi storica ed un approccio critico alle scelte politico-economiche neoliberiste dei processi di privatizzazione
(SECONDA PARTE). |
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1. Il modello di sviluppo italiano e i falsi obiettivi delle privatizzazioni
Il modo migliore per iniziare questo lavoro è quello di ripresentare
la premessa a questa analisi-inchiesta che si faceva nel precedente numero di
PROTEO.
I due articoli che di seguito si presentano, scritti da R.
Martufi e L. Vasapollo, vanno letti ed interpretati come un’unica analisi-inchiesta
sui processi e modalità diverse di dismissione del patrimonio pubblico; si tratta
cioè di una sorte di dossier sulle privatizzazioni che verrà arricchito nel
prossimo numero della rivista PROTEO con l’analisi di reali casi studio di aziende
privatizzate o in via di privatizzazione e con altre riflessioni politico-economiche.
D’altra parte si tratta di discutere sulle scelte strategiche
e le linee di tendenza neoliberiste che, appoggiate e spesso più che sollecitate
dai governi di sinistra dei vari paesi europei e non, puntano ad un fittizio
risanamento del bilancio pubblico, avendo invece come vero fine l’accelerazione
sui processi di privatizzazione di impresa e del welfare per giungere alla distruzione
della stessa idea e cultura imperniata sulle relazioni economiche a connotato
pubblico, a rilevanza collettiva.
L’abbattimento dello Stato Sociale, le performances di efficienza
e di profitto a tutti i costi, l’affermazione dell’individualismo e del darwinismo
sociale, la distruzione dei legami di classe, del solidarismo, sostituiti da
una logica di mercato selvaggio e non regolamentato, la cultura d’impresa del
e nel sociale, la distruzione dello Stato occupatore e regolatore che si trasforma
in Profit State, cioè uno Stato garante esclusivamente degli interessi e delle
compatibilità d’impresa; sono tutte queste le nuove regole del convivere civile,
umano, politico ed economico che il capitale internazionale a forti connotati
finanziari sta imponendo, anche se con diversi tempi e modalità.
L’analisi-inchiesta che si presenta nei due successivi articoli
ha il semplice compito di voler tentare una ricostruzione storica e una riflessione
scientifica corredata da dati quantitativi quanto più recenti a disposizione.
Alle forze politiche, sociali e sindacali che hanno scelto la non omologazione
ai principi neoliberisti e che non accettano la forma economica, politica e
sociale del capitalismo selvaggio come ultima spiaggia dell’umanità, a loro
il compito di trarne le considerazioni di carattere più direttamente politiche
e di lanciare le conseguenti battaglie e iniziative del e nel sociale.
Il contributo di CESTES-PROTEO è quello di tentare di fornire
gli arnesi scientifici, gli strumenti di riflessione per stimolare e provocare
culturalmente tutti quei tentativi, le prove per un’inversione di tendenza capaci
di realizzare quei processi di trasformazione reale in grado di superare radicalmente
lo stato presente delle cose.
D’altra parte come racconta l’Anziano Cigno Nero Reale: “L’UNICA
MANIERA PER SUPERARE UNA PROVA E’ AFFRONTARLA. QUESTO E’ INEVITABILE”.
Di seguito con questa “seconda parte” concluderemo un’iniziale
analisi-inchiesta sulle privatizzazioni ponendo l’accento, oltre che con altre
considerazioni generali di natura politico-economica, su ulteriori analisi di
nuovi e recenti casi studio di aziende privatizzate o in via di privatizzazione.
Ciò per sottolineare come il modello capitalistico italiano abbia ormai definitivamente
abbandonato il riferimento all’economia mista per delineare un proprio profilo
del Profit State europeo che, preparandosi all’assalto finale neoliberista,
punta alle privatizzazioni dei settori strategici, dei servizi pubblici e all’abbattimento
del Welfare State dell’universalismo dei diritti da sostituire con elargizioni
caritatevoli ai più miseri da parte dello Stato-Impresa.
Il più importante ed evidente vincolo che condiziona il processo
di crescita delle imprese ed il recupero di competitività dell’economia italiana
sta nella struttura stessa del sistema industriale e nella scarsa diffusione
dei fattori indispensabili per l’acquisizione di vantaggi competitivi. La struttura
dell’industria italiana è composta da un numero di grandi imprese troppo piccolo
rispetto alla reale dimensione della nostra economia, da una pluralità di piccole
e medie con una dimensione mediamente inferiore a quella che lo stesso tipo
di impresa ha in altri sistemi industriali.
Si giunge allora a capire che la piccola impresa è una realtà
eterogenea perché risponde ad una pluralità di funzioni che ne consentono l’esistenza
nel capitalismo maturo, e tale configurazione aziendale risponde a specifiche
esigenze di ristrutturazione del capitale internazionale che trovano in alcune
zone dell’Italia alcune peculiarità per uno sviluppo esplosivo. Esistono meccanismi
di sopravvivenza della piccola impresa comuni ai diversi modelli di capitalismo,
ma che trovano terreno fertile in contesti in cui il mercato del lavoro assume
dinamiche particolari, come nel nostro Paese. E’ per questo che si sviluppano
fenomeni economico-produttivi derivanti dall’importanza della valutazione della
collocazione dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro oltre che
del capitale.
Al di là dell’aspetto dimensionale, l’elemento di maggiore
debolezza strutturale del sistema industriale italiano è rappresentato dalla
natura degli assetti proprietari e dalla loro difficile adattabilità alle esigenze
che oggi il sistema industriale manifesta ai fini del suo rilancio.
Sempre più frequentemente nel mondo occidentale, ma da qualche
anno anche nei paesi dell’Europa dell’est, i mutamenti nella tecnologia, l’introduzione
di nuove tecniche di gestione aziendale, la specializzazione delle risorse umane
e finanziarie richiedono continui e frequenti adeguamenti nella proprietà del
capitale. Negli ultimi anni si è verificata una graduale evoluzione nei sistemi
proprietari e di governo delle imprese per cercare di equilibrare e di rendere
minimi i disagi che questi modelli comportano. Si assiste in sostanza ad un
graduale riavvicinamento dei due modelli opposti delle Public Companies e delle
imprese consociative; in quanto mentre nel modello capitalistico anglosassone
ci si avvia verso un azionariato più stabile, nel modello renano-nipponico diminuisce
l’incidenza degli incroci azionari e si tende ad allargare la partecipazione
e la dipendenza delle imprese direttamente dal mercato finanziario.
In Italia, come si è ampiamente documentato nel n.0 di PROTEO
nell’inchiesta relativa ai profili locali dello sviluppo che si riassume di
seguito in alcune sue linee generali, in realtà la situazione che si è venuta
a creare è quella di una sempre maggiore effettiva concentrazione gerarchica
nella gestione e nella proprietà delle imprese.
A tale configurazione del modello di capitalismo italiano è
funzionale anche la marginalizzazione dell’economia del Sud e la formazione
periferica del C-N-E (Centro-Nord-Est); fermo rimanendo che nel N-O (Nord-Ovest)
esiste una forma dell’industria con caratteri specifici che si è posta come
forma dominante dello sviluppo nazionale, sia nelle varie articolazioni settoriali
sia sul territorio. Tale capitalismo a concentrazione proprietaria nelle mani
delle grandi famiglie, comunque dominante e centrale dell’economia italiana,
corrisponde e si configura come centralista e basato sull’industria caratterizzata
da maggiori dimensioni d’impresa, maggiore intensità di capitale fisso, maggior
uso di tecnologie moderne e maggiore innovazione, nonché un carattere strategico
della produzione in relazione agli altri comparti. Su queste basi il N-O sembra
essere l’unica area a rispettare i termini imposti da questi parametri propri
dell’economia del capitalismo delle grandi famiglie e che ha in qualche modo
condizionato e reso funzionale ai propri interessi anche il ruolo produttivo
e il peso politico delle imprese pubbliche e dell’economia pubblica in genere.
Anche il mondo delle piccole e medie imprese è giunto ad un
importante punto di svolta. In aggiunta alle difficoltà associate all’estendersi
ed all’inasprirsi della concorrenza, le piccole e medie imprese (PMI) italiane
si trovano ad affrontare un importante e fondamentale passaggio generazionale
che potrebbe risultare decisivo, non solo dal punto di vista degli assetti proprietari,
ma anche per l’organizzazione e la divisione del lavoro tra le imprese.
La condizione fondamentale per il consolidamento del sistema
locale è sancita allora da variabili quali l’innovazione tecnologica-organizzativa,
il sistema informativo sviluppato, un alto ricorso alle risorse immateriali,
ma soprattutto dalla capacità di controllo del mercato del lavoro, di deregolamentazione
e precarizzazione dei rapporti di lavoro, da flessibilità delle remunerazioni,
infine cioè da forme di regolazione sociale compatibili con il nuovo assetto
produttivo, espellendo ed emarginando le soggettualità sociali non omologabili,
conflittuali e non compatibili. E allora il modello di sviluppo locale si adatta,
si trasforma in una molteplicità di localismi nel tentativo di piegare comunque
la “resistenza” della forza lavoro e dei soggetti sociali.
Contrariamente ad altri sistemi di PMI, quelle italiane sono
tipiche imprese dove proprietà e controllo coincidono. Questa caratteristica
non rappresenta indubbiamente un vincolo in se stesso, può diventarlo nel momento
in cui, di fronte ad un passaggio generazionale, il controllo familiare non
trova più continuità e quindi anche la proprietà viene messa in discussione.
Quando queste difficoltà colpiscono imprese fortemente integrate
all’interno di distretti industriali, come spesso capita in Italia, allora
gli effetti del passaggio possono anche estendersi alle organizzazioni della
produzione ed alla divisione del lavoro tra le imprese con la spaccatura
dei distretti industriali e la conseguente perdita di quelle economie associate
a quel particolare tipo di organizzazione produttiva.
Il modello del capitalismo italiano assume, comunque, come
risorsa principale ancora soprattutto le nuove forme del distretto industriale
ed è caratterizzato da: specializzazione delle strutture e della forza lavoro
all’interno di reti di imprese in continua trasformazione, con multilocalizzazione
delle attività in presenza di strutture dinamiche e continuamente mutevoli,
ma al contempo si realizza un massiccio ricorso alla flessibilità salariale,
all’intensificazione dei ritmi, all’elevata divisione del lavoro che spinge
alla precarizzazione e alla diffusione della negazione dei diritti sindacali.
Si giunge così alla determinazione di nuove soggettualità locali del lavoro,
spesso ai margini del sistema produttivo ufficiale, che svolgono attività sottopagate,
lavoro nero che pur di aver garantito un minimo reddito sono costrette ad accettare
condizioni qualitative di lavoro tipiche dell’inizio del secolo.
Al di là dei vincoli strutturali, la competitività del sistema
industriale italiano è seriamente minacciata dalla scarsa diffusione dei fattori
indispensabili alla competitività industriale. Il primo ed il più importante
tra essi è l’assenza di concorrenza sul mercato, spesso ammortizzata anche dal
“sistema tangentopoli”. Oltre a contribuire ad alimentare il processo
inflazionistico, la mancanza di concorrenza sul mercato non incentiva le imprese
a ricercare innovazioni e qualità nei prodotti e nei servizi erogati. Questi
ed altri problemi che minacciano la competitività dell’industria italiana possono
essere in parte risolti solo attraverso una azione di governo dell’industria,
attraverso cioè una politica industriale alla quale deve affiancarsi un’efficace
politica della concorrenza unita ad un nuovo ruolo, non clientelare e assistenziale,
di uno Stato interventista e occupatore. Per poter acquisire una maggiore
competitività, l’industria italiana necessita non solo di un più elevato livello
di efficienza nei mercati dei fattori produttivi e dei servizi, ma anche di
uno sviluppo e di un regolamento-controllo statale del mercato dei diritti di
proprietà e cioè in quel mercato dove è la proprietà dell’impresa ad essere
oggetto di transazione.
Nel momento in cui, dopo che il termine era quasi entrato in
disuso, la Commissione della Comunità Europea ha riparlato di politica industriale,
in Italia non si è compresa l’importanza e la necessità di un’azione di governo
dell’industria, della proposizione di un moderno e diverso modello di sviluppo
basato anche su un ruolo produttivo e strategico dell’impresa pubblica.
La riflessione complessiva per la riapertura di un dibattito
sui processi di trasformazione dell’economia e della società, deve partire da
una prima fase di studio, di approfondimento scientifico che consiste nel classificare
l’economia e le modalità di sviluppo di un territorio, di un’area economico-geografica,
secondo le caratteristiche delle unità produttive in esso localizzate, giungendo
conseguentemente ad identificare la forma che spazialmente assume la distribuzione
e l’interdipendenza delle attività produttive. Verificando poi se emergono specializzazioni
economiche capaci di generare modificazioni nel mercato del lavoro, nelle tipologie
del lavoro, nel tessuto sociale, nella quantità e qualità delle risorse umane
espulse o messe ai margini del nuovo assetto socio-produttivo che si va definendo.
Seguendo tale impostazione ne risulta che un’appropriata, articolata
e indirizzata economia pubblica, anche a carattere locale, può far sì
che quel determinato territorio assuma nuovi connotati su cui innescare uno
sviluppo compatibile socialmente, a partire dalle nuove caratteristiche sociali
e demografiche della popolazione residente. Per far ciò bisogna saper identificare
la forma che possono assumere le imprese pubbliche e quali gruppi sociali sono
in grado di contraddistinguere una diversa, complessiva ed efficiente economia
pubblica a valenza sociale che in precedenza era propria della fabbrica ed in
questa si identificava e si organizzava.
Non si è, invece, elaborata più alcuna proposta seria e alternativa
di sviluppo e, dopo aver eliminato l’anomalia rappresentata dal Ministero delle
Partecipazioni Statali, si è commesso l’errore di sdoppiare nuovamente la politica
industriale tra due Ministeri: quello dell’Industria e quello del Tesoro che
si è fatto carico del processo di privatizzazione.
Solo attraverso un allargamento della base delle grandi imprese
ed un rafforzamento del tessuto di PMI, accompagnato da una equilibrata ed efficiente
economia pubblica, l’industria italiana avrebbe potuto e potrebbe rimettersi
in corsa e recuperare quei margini di competitività di cui tanto necessita.
E’ importante il recupero tecnologico in settori per il nostro Paese tradizionali
e lo sfruttamento della adattabilità alle esigenze ed alternative che si presentano
di volta in volta, che sono possibili solo con un serio governo di indirizzo
dello sviluppo che non può prescindere dal fondamentale ruolo pubblico nei servizi
essenziali e nei settori strategici dell’economia.
Bisognava capire questo nesso indissolubile fra mutamenti
delle linee dello sviluppo e ruolo locale e centrale dell’industria pubblica
e dell’economia pubblica in genere. Invece continua il vecchio modo di intendere
e di fare politica industriale: viene utilizzata l’industria tradizionale (produzione
standardizzata) nelle aree periferiche a basso costo del lavoro e bassa conflittualità,
innalzando i livelli di precarietà sociale; l’industria innovativa (produzioni
creative) nelle aree centrali con mercato del lavoro altamente specializzato
andando a determinare una sorta di aristocrazia operaia e rendendo marginali
ed emarginati gli altri soggetti economici del lavoro; si pensi ai lavori del
pubblico impiego, agli artigiani, ai piccoli commercianti, ai lavoratori precari,
ai sottoccupati, alle sempre più folte masse di disoccupazione palese o più
meno occulta, fino a giungere alle aree sempre più fitte di espulsione e completa
emarginazione produttiva, reddituale e sociale.
Se la prima fase nel cosiddetto passaggio al post-fordismo
è consistita nell’introduzione massiccia di tecnologia labour-saving, nella
riduzione drastica degli organici, nella distruzione di ogni forma di contropotere
operaio nei luoghi di lavoro, nella fase successiva si procede a destrutturare
lo stesso rapporto lavorativo, alterando quello schema retto dall’unità di tempo,
luogo ed azione che caratterizzava la produzione di massa. Si generalizzano
contratti atipici, a termine, part-time, di formazione lavoro, i lavori socialmente
utili, il lavoro grigio e nero, tutti caratterizzati dalla precarietà e da un
ridimensionamento dei diritti. Nel contempo muta la stessa forma di impresa,
che si fa decentrata, delocalizzata ed a esternalizzazione produttiva, rafforzando
i propri nessi organizzativi, e a rete.
Continua, nel contempo, la tendenza del nostro assetto produttivo
alla terziarizzazione, spesso realizzata attraverso flessibilità del lavoro
e delle remunerazioni, lavoro atipico e non garantito, sottoccupazione, supersfruttamento,
precarizzazione sociale in genere. Il processo di ristrutturazione e ridefinizione
del modello di capitalismo italiano ha quindi bisogno di nuove logiche interpretative,
di nuovi strumenti ignorati dalle analisi economiche di impostazione “industrialista”.
Tali processi di trasformazione sono molto spesso ignorati,
i nuovi soggetti economici non sono protetti, molto frequentemente neppure considerati,
perché è predominante la cultura delle compatibilità industriale.
E’ comunque importante interpretare l’evoluzione del modello
di sviluppo anche considerando il terziario aggregato nelle sue ripartizioni
territoriali e sociali, poiché ciò conferma il superamento sia della vecchia
concezione del “dualismo industrialista” sia la concezione dello sviluppo economico
in un modello cosiddetto a “pelle di leopardo”; anche quest’ultima ipotesi,
caratterizzata da mille localismi che non hanno alcun denominatore comune, non
ha più riscontro.